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 2013  febbraio 11 Lunedì calendario

Notizie tratte da: Valentina Furlanetto, L’industria della carità. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza, Chiarelettere Milano 2013, 13,90 euro

Notizie tratte da: Valentina Furlanetto, L’industria della carità. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza, Chiarelettere Milano 2013, 13,90 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda 2227702
e libro in gocce in scheda 2253284)

«Per salvaguardare oceani, balene, foreste, ambiente Greenpeace Italia ha utilizzato 2 milioni 349.000 euro, meno di quanto spenda per pubblicizzarsi e cercare nuovi iscritti: 2 milioni 482.000 euro» (dati bilancio 2011).

«Dalla vendita delle azalee Airc (Associazione italiana ricerca sul cancro) ha ricavato 10 milioni di euro. Per organizzarne la vendita ne spende quasi la metà, circa 4 milioni» (dati bilancio 2011).

«Il 66 per cento di tutte le donazioni che sono state fatte nel mondo non sono state investite per la gente di Haiti, ma per il funzionamento delle ong. Alcune hanno comprato fuoristrada da 40-50.000 dollari e il 20 per cento delle donazioni è andato in stipendi del personale delle organizzazioni» (Evel Fanfan, presidente di Aumohd, Action des unités motivées pour une Haïti de droit), organizzazione di avvocati che dal 2002 si occupa della difesa dei diritti umani e civili della popolazione di Haiti).

Le grandi istituzioni, galassia Onu, spendono l’80% dei fondi per finanziare la struttura dell’Onu stessa.

In Africa ci sono campi di rifugiati immensi dove la gente vive in situazioni drammatiche, mentre vicino vivono funzionari e cooperanti con tutti i comfort occidentali.

Nel mondo il 20 per cento della popolazione consuma l’80 per cento delle risorse.

Il land grabbing, fenomeno secondo cui i ricchi del mondo «arraffano» terre nei paesi impoveriti per produrre cibo per sé o per ottenere biocarburanti.

La nuova politica della Ue, che impone ai paesi impoveriti gli Epa (Economic partnership agreement), obbligandoli a togliere i dazi. Così l’Unione europea, che sostiene la propria agricoltura con 50 miliardi di euro l’anno, può svendere i propri prodotti agricoli sui mercati africani. E i contadini africani non possono competere.

Ong, organizzazioni non governative.

Secondo un sondaggio Ipsos, fra chi dichiara di non aver fatto nessuna donazione, sei su dieci donerebbero se avessero una maggiore fiducia nella reale destinazione dei soldi.

«E bada, Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono» (Carlo Collodi).

«Esiste una sproporzione tra fondi dedicati all’emergenza rispetto a quelli destinati allo sviluppo, il che spinge alcune associazioni ad abbandonare quest’ultimo per l’emergenza, che “rende” molto di più» (Silvana, che ha lavorato sia per enti che dipendono da grandi istituzioni, come le Nazioni unite e l’Unione europea, sia per ong e onlus, italiane e internazionali, all’autrice).

«In certe situazioni, conviene essere in emergenza perché se c’è allarme arrivano i soldi, se non c’è non arrivano, quindi ogni tanto bisogna sparacchiare, ammazzarsi, così si può continuare a dire di aver bisogno subito. L’ho scoperto in Burundi, ma è valido anche per altre zone» (Silvana).

«In Africa, come altrove, una marea di cooperanti e volontari occidentali scorrazza da un locale all’altro, da un festino all’altro. Gente che in Italia sarebbe disoccupata in questi posti fa una vita da nababbo» (Silvana).

«Nel nostro paese la scelta dei candidati per un posto in una ong non risponde quasi mai a un criterio di professionalità. Ad esempio, raramente viene fatta la selezione in base alla conoscenza della lingua del paese dove si va a operare, al contrario va molto l’analisi psicologia fai da te» (Silvana).

«Io sono stata strapagata in Ciad come consulente Unicef: dovevo fare una consulenza sulla violenza nelle scuole, un problema vero. Ho consegnato periodicamente dei report, ma non servivano a niente perché poi non venivano utilizzati. Quando ho chiesto: “Allora perché mi pagate tanto?”, mi hanno risposto: “Ma noi dobbiamo pagare le consulenze”, come se dovessero giustificare solo delle voci di spesa. In Ciad per l’Unicef mi pagavano 5.000 dollari al mese, più altri 5.000 di rimborso spese: 10.000 dollari netti al mese per non ottenere nessun risultato» (Silvana).

Dal 1994 la città di Goma, in Africa, è oggetto delle attenzioni degli organismi umanitari che la comunità di espatriati chiama «circo umanitario» perché gli umanitari sono un po’ dei circensi, fanno una vita a parte rispetto ai congolesi.

«A Goma volontari di ong, funzionari Onu e cooperanti si spostano come palline di un flipper in un network di punti accessibili: casa, albergo, ufficio, ristoranti, palestra, locali notturni, night club, quartieri generali delle altre organizzazioni» (Viviana Salsi, trentenne milanese con diverse esperienze come cooperante, all’autrice).

«Ci sono queste enormi jeep a nostra disposizione con il logo dell’organizzazione sulla fiancata, guidate da un autista locale che ha il compito di scortarci attraverso il paese. Quello che sappiamo del Congo lo vediamo spesso solo dal finestrino» (Viviana).

Quella volta che, nell’agosto del 2010, vennero violentate a Walicale 179 donne e i cooperanti, che stavano a pochi chilometri, lessero la notizia sul New York Times.

«Io e altri espatriati condividiamo una casa con vista sul lago Kivu. Ogni mattina il giardiniere mette i fiori sul tavolo. Non ci manca nulla, c’è un cuoco che cucina per noi, le guardie e gli autisti» (Viviana).

Si fanno festini fantastici, come quel party «in una megavilla sul lago, con giardino all’inglese, mobili di design, lusso scintillante. Schermi piatti, vetrate con vista, bar al centro del soggiorno con gli sgabelli attorno. La musica del Buddha Bar, di sottofondo, altissima, che faceva pulsare tutto. Come in un video ambientato in California» (Viviana).

Gli unici congolesi che si incontrano in questi posti sono le prostitute o i ricchi mulatti di discendenza belga. Sono loro che possiedono le ville in cui si fanno le feste.

Quella volta che un superiore di una cooperante si spogliò completamente nudo in un locale e ballò ubriaco sul banco del bar senza nemmeno le mutande.

«Nella cooperazione, pubblica o privata, non c’è efficienza. Se tu investi 1.000 euro per fare qualcosa, con quei soldi devi dare benefici reali. E questo spesso non accade. Faccio un esempio: a Bajura, nel Nepal nord-occidentale, da dieci anni si lavora a un progetto sugli ulivi. Lo portano avanti il ministero degli Esteri italiano, l’università della Tuscia e la Fao. Dieci anni di lavoro, e per cosa? Quest’anno per la prima volta hanno prodotto una bottiglia d’olio, il cui costo ovviamente sarà di un milione di euro. È assurdo» (Enrico Crespi, passato al profit dopo anni nel non profit, all’autrice).

«Se lavori in università come ricercatore guadagni 2.000 euro, se vai lì ne guadagni 5.000» (Enrico).

Secondo il ministero delle Finanze nepalese «la maggior parte dei fondi delle ong destinati allo sviluppo andava a finire in quello che loro chiamano soft development, cioè report, workshop, convegni, attività inutili. Ci sono spese di struttura, spese di marketing e di fundraising elevatissime» (Enrico).

I locali considerano gli occidentali dei portafogli che camminano.

L’iniziativa di Read Nepal, che ha lo scopo di raccogliere fondi per costituire la biblioteca scolastica e un centro comunitario interamente finanziati dai nepalesi. Grazie a dei porcellini dipinti, Read Nepal ha inaugurato 49 librerie nelle scuole del Nepal.

Allo stato attuale, una onlus da 10.000 euro deve rispettare le stesse regole di una onlus da un milione di euro.

La Corte dei conti, che ha auspicato la necessità di maggiori controlli. Nel luglio del 2012 i giudici contabili hanno pubblicato una relazione dal titolo Contributi alle Organizzazioni non governative per la realizzazione di attività di cooperazione. La Corte ha monitorato 84 progetti nel triennio 2008/2010 in 23 paesi. Ha trovato: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo da anni, infrastrutture realizzate su terreni di terzi o inesistenti, rendiconti spariti, fondi fermi in Italia da mesi, responsabili di progetti fantasma, irregolarità nel rendiconto delle spese sostenute.

Alcuni casi venuti fuori dalla relazione dei giudici: la ong Celim ha costruito nella zona di Sacaba, in Bolivia, su terreni di terzi; appena il 20 per cento del programma di sostegno alla salute materno-infantile a Malavane, in Mozambico, della ong Cestas è andato a buon fine; i risultati del progetto di turismo sostenibile portato avanti dalla ong Ciss nel governatorato del Fayoum sono stati «irrilevanti».

Il Sahel, striscia ai margini meridionali del Sahara lunga almeno 4.500 chilometri. Qui l’industria dell’assistenza ha iniziato a operare e a spendere dal 1973. Si calcola che siano stati investiti in aiuti diretti e indiretti oltre 300 miliardi di dollari, ma nel 2012 c’erano 18 milioni di persone bisognose di aiuto (dati Caritas International).

Il Ccs, al centro di uno scandalo nel 2006, dal quale è partita un’inchiesta giudiziaria. I vertici della onlus sono stati accusati di associazione per delinquere e di appropriazione indebita. Nel febbraio 2012 Simone Castellini, ex segretario generale, è stato condannato a un anno e dieci mesi e 800 euro di multa; e Patrizia Cavagnis, ex responsabile del Ccs in Mozambico, a un anno e quattro mesi e 400 euro di multa. Assolti con formula piena Enrico Crespi, ai tempi responsabile di Ccs Nepal, e Corrado Oppedisano, presidente.

All’Aquila, dopo il terremoto, «la Protezione civile ci aveva tolto la libertà, l’unica cosa che ci era rimasta. Come in uno Stato di polizia ci controllava, non potevamo circolare liberamente per i campi, pretendeva di decidere per noi: l’ora del rientro al campo, gli spostamenti» (Anna Pacifica Colasacco, restauratrice che aveva una bottega in centro all’Aquila distrutta dal terremoto, all’autrice).

«Eravamo dei numeri che aspettavano un pasto e una doccia. La nostra città, quello che ne rimaneva, era diventata loro» (Anna).

«La solidarietà degli italiani è stata grandissima. Nei campi arrivava di tutto e di più. Ti riempivano di cose, vestiti, roba da mangiare. Ma l’atteggiamento dei funzionari della Protezione civile era da occupazione del territorio. Se ti rimettevi a loro mostravano il volto buono. Altrimenti no. Tutti i funzionari ci accoglievano con il sorriso ed erano comprensivi, fino a quando non ci si ribellava, non si diventava persone. Era un sistema, un metodo. C’era poi questa idea distorta del dono. Veniva instillata l’idea che fosse tutto donato dall’alto. Invece essere assistiti era un nostro diritto perché abbiamo pagato le tasse, abbiamo alimentato uno Stato che quando c’è bisogno deve aiutarti, non ti sta facendo un favore. Io ne sono consapevole, altri no, e quindi obbedivano» (Anna).

«La Protezione civile impediva ai comitati dei cittadini di volantinare nelle tendopoli per non turbare la quiete degli ospiti. Ci rendiamo conto? Ci chiamavano ospiti a casa nostra. Ci intrattenevano con balli, karaoke, clown. Tutti lì, rincoglioniti, a cantare» (Anna).

I funzionari della Protezione civile, che mangiavano spesso nel miglior ristorante dell’Aquila, in centro città, rimasto illeso dal terremoto.

«A signò, nun vede che ce sta la tv che riprende? Insomma, vuole che la gente mandi i soldi per aiutarvi o no?» (un volontario a un’anziana signora che si rifiutava di andare verso una tenda mentre la telecamera li riprendeva, al campo di Pagliara di Sassa all’Aquila).

Se fosse quotata a Wall Street, l’«economia del bene» peserebbe quanto Apple (prima dell’iPhone 5) o come sei aziende come la Eni alla Borsa di Milano.

400 miliardi di dollari, il valore nel mondo dell’insieme di attività che appartengono al Terzo settore (organizzazioni non governative, onlus, fondazioni, enti caritativi, enti umanitari, cooperative).

Nel mondo sono operative circa 50.000 organizzazioni non governative (ong) che ricevono oltre 10 miliardi di dollari annui di finanziamenti e occupano centinaia di migliaia di operatori, distribuiti su vari livelli e provenienti per più della metà dai paesi occidentali. Le più ricche: Save the Children, World Vision e Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna).

Numero dei volontari nel pianeta: 140 milioni di persone (rapporto delle Nazioni unite sullo stato del volontariato nel 2011).

Secondo l’Onu, se i fondi delle ong fossero riuniti rappresenterebbero la quinta economia mondiale. I finanziamenti possono arrivare da enti pubblici (Onu, Unione europea, Stato, Regioni, enti locali, enti di ricerca) o da privati.

In Europa il numero di ong è passato da un centinaio nel 1945 a 2.500 circa nel 1993 (dati Ocse). Negli Usa le grandi organizzazioni filantropiche gestiscono un patrimonio di 268 miliardi di dollari e il non profit vale l’8 per cento del Prodotto interno lordo del paese, percentuale doppia rispetto al 1960.

In Italia le ong riconosciute sono 248, negli anni Sessanta erano una ventina. Si interessano di 3.000 progetti in 84 paesi del mondo, occupano 5.500 persone e gestiscono 350 milioni di euro l’anno.

Le prime dieci ong italiane per «ricchezza»: 1. Medici senza frontiere (50 milioni di euro); 2. ActionAid (48 milioni); 3. Save the Children (45 milioni); 4. Coopi (Cooperazione internazionale, 35 milioni); 5. Cesvi (Cooperazione e sviluppo, 33 milioni); 6. Emergency (30 milioni); 7. Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale, 28 milioni); 8. Intersos (18 milioni); 9. Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli, 16 milioni); 10. Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo, 16 milioni).

Negli ultimi quattro anni, in Italia, il numero delle ong è cresciuto del 23 per cento.

Nel 2012 l’Istat ha inviato alle organizzazioni del settore non profit 457.000 moduli per il censimento. Nel 2001 ne erano state censite 235.000, con 500.000 dipendenti e 3 milioni 335.000 volontari.

Il non profit italiano fattura più della moda: vale 67 miliardi di euro, il 4,3 per cento del Pil, e dà lavoro a più di 650.000 persone, il 35 per cento in più rispetto a dieci anni fa (dati UniCredit Foundation).

Unicef Italia, sezione italiana del fondo delle Nazioni unite che si occupa dell’infanzia, ha 59 milioni di euro di entrate. Nel 2011, una quota di 37 milioni di euro è stata trasferita alla sede internazionale; 13 milioni 687.000 li ha spesi per la raccolta fondi, cioè per pubblicizzarsi e raccogliere soldi dai donatori; oltre 6 milioni in «oneri di natura generale», cioè affitti, consulenze, beni materiali, ammortamenti, svalutazioni, personale (passato da 136 persone nel 2010 a 150 nel 2011); 2 milioni 796.000 ai progetti per promuovere i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia.

La sezione italiana di ActionAid nel 2011 ha raccolto 48 milioni di euro: 9 milioni 254.000 sono andati alla raccolta fondi; 2 milioni e mezzo per tenere in piedi la struttura; 30 milioni ai progetti sul campo (inclusi i costi del personale); 5 milioni ad ActionAid International.

Medici senza frontiere, sezione italiana della francese Msf, nel 2011 ha raccolto circa 50 milioni di euro: 5 milioni 800.000 li ha spesi nella raccolta fondi; 2 milioni in comunicazione; 1 milione 870.000 per la gestione dell’ente.

Save the Children nel 2011 ha raccolto 45 milioni di euro: 9 milioni 675.000 sono andati per la comunicazione (375.000), la raccolta fondi (7 milioni 842.000) e le spese di supporto per l’associazione (1 milione 500.000).

Oxfam Italia nel 2011 ha raccolto 13 milioni di euro, di cui 775.000 sono andati alle spese per il marketing e 800.000 a quelle di supporto.

La Compassion, con 5 milioni di oneri a bilancio. Nel 2011 ha riservato 594.000 euro per la comunicazione e il marketing; 630.000 per tenere in piedi l’associazione.

La sezione italiana di Amnesty International ha raccolto 7 milioni di euro. Per la raccolta fondi nel 2011 sono andati 438.000 euro, alla gestione della onlus 1 milione e 200.000.

Airc, l’Associazione italiana ricerca sul cancro, nel 2011 ha raccolto 113 milioni di euro, nel 2010 165 milioni, nel 2009 61 milioni, nel 2008 92 milioni. Oggi conta su 1 milione 700.000 soci in tutta Italia e ha l’appoggio di testimonial famosi. Su 113 milioni di euro nel 2011, 84 sono andati alla ricerca e 22 circa alla struttura. Nel 2010, invece, su 165 milioni di euro, 77 milioni sono andati alla ricerca, meno del 50 per cento.

Nelle casse di Airc, sono stati messi da parte 4 milioni di euro nel 2011, 62 nel 2010, 19 nel 2009 e 24 nel 2008.

Dal 5 per mille 2010 Airc ha incassato 54 milioni di euro.

Dalle azalee della ricerca Airc ha ottenuto circa 10 milioni di euro; per organizzarne la vendita ne ha spesi oltre 4 milioni (dati bilancio 2011).

Nel 2010, Aism, l’Associazione italiana sclerosi multipla, ha raccolto 27 milioni di euro tra mele e gardenie. Il totale dei proventi, tra lasciti testamentari e altro, è di 35 milioni.

Telethon ha incassato nel 2011 quasi 33 milioni di euro, i quali sono andati in buona parte alla ricerca (oltre 24 milioni) (dati rendiconto economico 2011).

La Fondazione Veronesi ha incassato nel 2011 circa 10 milioni 200.000 euro. Di questi il 18 per cento (un milione 839.000) è andato a finanziare la ricerca scientifica e il 45 per cento (5 milioni e mezzo) è andato al fundraising (la raccolta fondi) e alla divulgazione scientifica (convegni, corsi per giornalisti scientifici, attività editoriali e campagne). Per raccogliere i fondi, la onlus spende 874.000 euro, più 234.000 per due cene di gala. Per i ricercatori con borsa di studio mette a disposizione 640.000 euro. Per tenere in piedi la fondazione (affitto, auto, acquisti, noleggi, tasse e partecipazioni in due società) se ne vanno 725.000.

Greenpeace Italia, nata nel 1986 da Greenpeace International. Conta 34 dipendenti fissi e oltre 600.000 volontari e attivisti. Sono quasi 60.000 gli italiani che ogni anno le danno soldi.

Nel 2011 Greenpeace Italia ha incassato 5 milioni 600.000 euro e ne ha spesi 6 milioni. Per le attività tipiche (salvaguardia di oceani, balene, foreste, clima ecc.) ne ha spesi 2 milioni 349.000; per pubblicizzarsi e cercare nuovi iscritti 2 milioni 482.000; un milione va in stipendi, amministrazione, spese d’ufficio, affitti (dati bilancio 2011).

Nel 2011 il Wwf, su 15 milioni 700.000 euro, ha destinato 9 milioni 400.000 alla ricostruzione di oasi, alla biodiversità e alla conservazione della natura; 4 milioni 900.000 alla comunicazione, al marketing e alle relazioni con le imprese; un milione a «servizi amministrativi e organizzativi» (dati bilancio 2011).

Amref, associazione medica, nel 2011 ha incassato 6 milioni 900.000 euro circa, di cui 5 milioni 500.000 sono andati ai progetti in Africa, 1 milione 400.000 per tenere in piedi la struttura della ong, 400.000 per raccolta fondi e pubblicità. Alla fine il bilancio è passivo per 484.000 euro (dati bilancio 2011).

L’associazione Pangea, che lavora a sostegno delle donne, nel 2011 su 783.000 euro di bilancio 536.000 sono andati ai progetti, 258.000 per tenere in piedi la struttura e 69.000 per raccogliere fondi (dati bilancio 2011).

Il Charity Navigator, strumento che negli Usa mappa tutte le onlus e ne pubblica i conti. A ogni ente di beneficenza è assegnato un punteggio globale, che va da zero a quattro stelle. Sono inoltre presenti le liste delle top 10 e bottom 10, cioè delle organizzazioni più efficienti e di quelle meno in un certo numero di categorie.

Lo Deutsches Zentralinstitut für soziale Fragen, che in Germania si occupa di controllare e certificare le ong con una redazione indipendente di valutatori di bilancio.

In Italia gli enti di beneficenza non hanno l’obbligo di bilancio e non esistono organi indipendenti che se ne occupano. L’Istituto italiano della donazione è l’unico organo che propone una sorta di «certificazione» delle ong: a settembre 2012 avevano aderito 60 sigle su quasi 250.

«Il controllo non è in genere effettuato da nessun organismo terzo e indipendente. Le ong non rispondono praticamente a nessuno in caso di fallimento o sperpero delle risorse e non sono destinatari di sanzioni significative, che potrebbero rivelarsi un tassello necessario nel meccanismo di gestione delle risorse» (Alessio Orgera, dottore in Relazioni internazionali all’università Luiss “Guido Carli” di Roma).

Haiti, oggi soprannominata la «Repubblica delle ong» per la proliferazione delle associazioni.

Le buste paga e i meccanismi attraverso i quali si fa carriera nelle grandi agenzie internazionali e nelle ong straniere assomigliano a quelli delle grandi multinazionali: alte retribuzioni e benefit, professionalizzazione, passaggi di direttori di ong ad aziende profit.

Nel 2012 il non profit in Italia ha occupato 20.000 addetti circa, di cui solo 10.000 a tempo indeterminato (ricerca Unicredit-Ipsos, aprile 2012).

Da un rapporto Usaid sulle organizzazioni del settore emerge che un giovane 26enne laureato in Economia dello sviluppo al primo impiego può arrivare a guadagnare 60.000 dollari netti l’anno lavorando per una società di consulenza, 40.000 dollari l’anno se sceglie di lavorare presso una ong affermata. Il capo esecutivo di una ong di medie dimensioni che muove denaro per 10 milioni di dollari l’anno ne guadagnerà 160.000 circa, mentre il presidente di una organizzazione grossa che lotta contro la povertà nel mondo, come Care, arriverà a 250.000. La retribuzione per un’ora di lavoro di un consulente alla Banca mondiale è di 100 dollari, 800 per l’intera giornata. Un impiegato di Usaid con 24 anni di servizio percepisce tra gli 80.000 e i 100.000 dollari l’anno, un consulente senior della Banca mondiale con la stessa anzianità di servizio nel guadagna 130.000.

Amnesty International, che nel 2009 ha pagato a Irene Khan, segretario generale dell’associazione, originaria del Bangladesh, 500.000 sterline di buonuscita per meno di dieci anni di lavoro. Quattro volte in più il suo stipendio annuale, che ammontava a 132.490 sterline. La sua vice, Kate Gilmore, aveva incassato 300.000 sterline.

Il direttore di Save the Children Usa guadagna 365.000 dollari l’anno.

Nel 2010, gli operatori italiani impegnati in progetti di cooperazione all’estero risultavano essere 7.194, di cui 6.404 operatori con un contratto di collaborazione.

Secondo un’indagine pubblicata nel 2012 e condotta dall’Osservatorio sulle risorse umane del non profit di Hay Group, mentre nel 2006 i dirigenti delle aziende for profit guadagnavano il 100-120 per cento in più rispetto ai manager delle società non profit, a fine 2011 il gap si era ridotto al 60-70 per cento circa. Per i quadri la differenza oscilla tra il 30 e il 50 per cento a seconda del settore di riferimento, mentre nel caso degli impiegati il divario tra le retribuzioni medie è del 30 per cento circa.

Nel dicembre 2004, dopo lo tsunami che devastò il Sudest asiatico, Medici senza frontiere raccolse 90 milioni di euro e in poche settimane superò i 110 milioni. Solo in Italia furono raccolti 9 milioni di euro. Il 4 gennaio 2005, a nove giorni dallo tsunami, Msf annunciò la sospensione della raccolta fondi dedicata all’emergenza.

A inizio 2004, dopo il terremoto che sconvolse l’Iran il 26 dicembre 2003, la Regione Veneto diede il via libera a una raccolta fondi gestita dalla Protezione civile. In pochi mesi furono raccolti 112.000 euro. Nel giugno 2012, i soldi erano ancora fermi in un conto dell’Unicredit intestato a Palazzo Balbi. Dopo lo tsunami del 2004, i 44.000 euro di donazioni raccolti dai veneti furono consegnati nel 2011. Dopo il terremoto in Abruzzo, i veneti raccolsero 192.000 euro, di questi 127.000 sono stati consegnati alla Regione per sistemare la chiesa di San Marco all’Aquila, i restanti 65.000 sono ancora depositati sul conto.

A tre anni dal sisma in Abruzzo, ad aprile 2012, non era ancora stato utilizzato un euro della raccolta fondi fatta da Jovanotti e dagli altri cantanti con la vendita del cd Domani. I soldi, oltre un milione di euro, sono fermi su un conto del ministero dei Beni culturali. Il brano fu trasmesso in radio dalle 3.32 del 6 maggio 2009, a un mese esatto dal terremoto, è stato commercializzato dall’8 maggio negli store digitali al prezzo di 0,60-0,75 euro e dal 15 maggio nei negozi, al prezzo di 5 euro in un cd che conteneva due versioni e un videoclip. Il singolo è stato ritirato dalle vendite a fine dicembre 2009. Ricavato: 1 milione 200 mila euro circa.

Secondo l’indagine 2011 del Trust Barometer di Edelman, che ogni anno misura la fiducia e la credibilità in 23 paesi nei confronti di governi e istituzioni, aziende, media, ong e istituzioni religiose, agli occhi dell’opinione pubblica le ong superano in credibilità le multinazionali più note, i politici e i mass media. Il credito che le ong possono vantare presso l’opinione pubblica nel mondo è cresciuto del 4 per cento in un anno, passando dal 57 per cento nel 2010 al 61 per cento nel 2011. In Europa, in sei paesi su 10 le ong si colllocano al primo posto. In Italia, la percentuale di credito è di 10 punti più alta della media mondiale e di 15 punti superiore a quella di Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il 5 per mille, il meccanismo che permette a chi paga le tasse di devolvere una parte dell’Irpef a una onlus. Gli elenchi dei potenziali beneficiari sono disponibili sul sito dell’Agenzia delle entrate e nella scelta, alla fine, prevalgono i meccanismi di notorietà.

Nel 2010 Emergency è stata scelta nella dichiarazione dei redditi da 363.000 contribuenti per un ammontare di 10,6 milioni di euro; Medici senza frontiere da 249.000 (8,4 milioni); e Airc da 258.000 (6,2 milioni).

Chi presenta il 730 di solito si rivolge a un Caf (Centro di assistenza fiscale) e spesso i Caf sono collegati a soggetti potenziali beneficiari del 5 per mille.

Secondo i dati del Consorzio nazionale abiti usati (Conau), nel 2006 la raccolta differenziata del settore tessile è stata pari a 70.000 tonnellate. L’Italia è leader al mondo del settore.

Il commercio illegale di abiti usati scoperto nel 2011 tra Campania, Toscana e Nordest, quando sei persone vennero arrestate con l’accusa di comprare e di rimettere in commercio abiti usati e donati ai bisognosi da associazioni ignare che li avevano raccolti. Così i vestiti, invece che alle persone povere, finivano sulle bancarelle dell’usato e fruttavano decine di milioni di euro l’anno. Gli indumenti, acquistati alla raccolta a 10 centesimi al chilo, venivano rivenduti ai commercianti a 40. In un anno il traffico ha riguardato 26 milioni di tonnellate, per un valore di 10 milioni di euro. Le associazioni non profit coinvolte a loro insaputa erano circa 55.

L’Africa è il mercato ideale per i vestiti usati. Nel 2003 il Ghana ha importato 41 milioni di tonnellate di vestiti usati, il Kenya 38, la Tanzania 48. Quest’ultima ha 35 milioni di abitanti e ha importato in un anno 1,3 tonnellate di vestiti usati per abitante.

Humana People to People è una delle organizzazioni più attive in Italia e nel mondo nella raccolta di abiti usati per i poveri. Nel nostro Paese la onlus ha 2.800 contenitori in 500 comuni di 35 province. Scopo: promuovere progetti di sviluppo nei paesi del Sud del mondo. L’organizzazione è stata molto chiacchierata. I vestiti donati da milioni di persone vengono solo in minima parte consegnati così come sono ai poveri, il resto viene venduto per finanziare i progetti della onlus o per coprire le spese. I vestiti raccolti nei contenitori sparsi in tutta Europa sono venduti dal braccio commerciale della onlus, la Tvind, a una vasta rete commerciale che va da Garson & Shaw a USAgain, a Holland House, a ConMore BV: il mercato dei vestiti usati in Europa, Sudamerica e Africa. Secondo i critici dietro le attività umanitarie si nasconderebbero attività commerciali, con proventi depositati in banche dei paradisi fiscali.

Problemi per Humana People to People nel mondo: nel 1998 la commissione di beneficenza britannica ha chiuso Humana Uk per cattiva condotta finanziaria; in Francia, è stata chiusa a metà degli anni Novanta dopo che il governo l’ha classificata come una setta e un’azienda che fa profitto, non come un’istituzione benefica; in Olanda, i regolatori delle istituzioni benefiche hanno ammonito l’organizzazione a causa delle sue mancanze nel rispettare gli standard finanziari; il Land tedesco della Renania-Palatinato ha imposto a Humana di togliere la scritta a «scopo di carità» dalle fiancate dei cassonetti; Humana Belgio ha chiuso nel 2004 dopo un’indagine per irregolarità finanziarie e fiscali; nel 2001, la Humana Danimarca è stata incriminata per frode fiscale, truffa e falso in bilancio.

Il danese Amdi Petersen, il fondatore di Humana, ricercato per diversi anni dall’Interpol per truffa ed evasione fiscale, con l’accusa di aver sottratto 25 milioni di dollari all’organizzazione. È scappato in California, dove è stato arrestato e da dove si è proceduto con l’estradizione.

Il 20 gennaio 2009 Paul Jorgensen, portavoce di Tvind e uno dei leader più importanti delle scuole gestite da Humana, il Teacher Group, è stato condannato per frode fiscale e appropriazione indebita di milioni di corone danesi a 2 anni e mezzo di reclusione dalla Vestre Landsret, l’Alta corte della Danimarca occidentale.

Humana Italia, non coinvolta in casi illeciti. Nessuna indagine è stata aperta sulla sua attività.

Dalla vendita degli indumenti Humana ricava il 50 per cento di quanto necessita per i propri progetti umanitari.

Le Mariuccine dell’«Asilo Mariuccia» di Milano. Erano le madri sole, a volte ex prostitute, che cercavano un posto dove stare con i loro bambini e venivano accolte da questa istituzione, sostenuta da associazioni femministe vicine ai movimenti operai e socialisti. La fondazione poteva contare a fine 2008 su un patrimonio di 11 milioni di euro, risorse pari a 2 milioni e investimenti in titoli di Stato (Bot) per oltre un milione.

Nell’ottobre 2012, quando l’Asilo Mariuccia e il suo ex presidente Valter Izzo sono finiti sotto inchiesta per indebita percezione di contributi pubblici. Infatti, nonostante i soldi che giravano, la fondazione lamentava di essere in deficit e per questo aveva chiesto e ottenuto 600.000 euro dalla Regione Lombardia guidata da Roberto Formigoni.

Greenpeace ha 40 filiali in 25 paesi e dichiara 200 milioni di dollari di introiti l’anno.

«In Greenpeace non può esservi democrazia. È una struttura piramidale, dove tutto è deciso al vertice, proprio come in un sistema militare (…) Chiunque pensi che i soldi di Greenpeace siano utilizzati per l’ambiente si sbaglia. Viaggiano in prima classe, mangiano nei migliori ristoranti e fanno la bella vita del jet-set ecologista; il motivo principale per cui danno importanza alle balene è perché ci si fanno i soldi» (Bjorn Okern, che dopo aver diretto Greenpeace Norvegia per due anni nel 1993 ne fu allontanato perché voleva discutere pubblicamente i metodi di gestione interna).

«Greenpeace è diventato un grande carrozzone burocratico. Non è più come prima. Dovrebbe concentrarsi sui problemi per i quali ha iniziato a lottare» (Paul Watson, che faceva parte del gruppo originario dei fondatori dell’associazione ed è stato espulso nel 1977, noto per aver ribattezzato Greepeace «le signore Avon del movimento ambientalista» e per aver fondato l’organizzazione rivale Sea Shepherd).

Nel 2010 Emergency ha speso 421.000 euro per i progetti in Italia e oltre 13 milioni di euro per quelli in Sudan.

Il governo del Sudan di al-Bashir, mette a disposizione annualmente a Emergency quasi tre milioni di euro (dati bilancio).

Omar al-Bashir, presidente del Sudan, accusato di genocidio e crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Secondo la Corte, al-Bashir avrebbe massacrato mezzo milione di persone e provocato 10 milioni di profughi in Darfur.

La Croce rossa, nonostante goda di 160 milioni l’anno di finanziamento statale (sommando il denaro girato dalle Asl e dai ministeri competenti), nonostante riceva molte donazioni dai cittadini e si avvantaggi del lavoro gratuito di 150.000 volontari, ha il bilancio in rosso.

La Croce rossa, tra comitato nazionale e locali, conta 4.000 dipendenti, di cui 1.281 a tempo indeterminato, oltre 1.500 a tempo determinato, 1.200 del corpo militare, 150.000 volontari.

Il 28 giugno 2012 il governo Monti ha dato il via libera a uno schema di decreto legislativo per la riorganizzazione della Croce rossa, che punta a porre fine al commissariamento entro il 2013 e a trasformarla in una nuova associazione di volontariato indipendente, senza più la presenza di militari in servizio. Da gennaio 2014 sarà costituita una nuova associazione privata di interesse pubblico, che assumerà tutti i compiti svolti dai volontari, mentre il vecchio ente Croce rossa (fino al 2016, poi sarà sciolto) gestirà il patrimonio, coi relativi debiti, e provvederà a ricollocare il personale che non sarà assunto dall’associazione, con contratto di diritto privato. La riorganizzazione prevede poi che la nuova Cri possa contare solo su militari in congedo e non in servizio effettivo.

Secondo la trasmissione Report andata in onda nel dicembre 2010, la pubblicazione dell’ultimo bilancio della Cri visionato dalla Corte dei conti risaliva al 2004. L’inchiesta ha mostrato casi di assenteismo e stipendi gonfiati e un buco da 50 milioni di euro. La Cri ha risposto che l’ultimo bilancio chiuso e approvato era del 2005, non del 2004.

Scandali della Croce rossa all’estero: dopo gli attacchi dell’11 settembre, Bernardine Healy, presidente della Croce rossa Usa, lanciò un appello per una raccolta in favore delle famiglie dei sopravvissuti e delle vittime. Furono racimolati quasi 543 milioni di dollari. Un’indagine del Congresso rivelò che, invece di mandare i soldi alle famiglie, la Croce rossa americana ne trattenne più della metà in un fondo, il Disaster Relief Fund. Healy fu costretta a dare le dimissioni e i dirigenti della Croce rossa promisero che non avrebbero più utilizzato il denaro di un’emergenza per rimpinguare il fondo.

A inizio 2012 la Croce rossa canadese si è dichiarata colpevole per aver distribuito scorte di sangue contaminato che infettò migliaia di canadesi con il virus dell’Hiv e dell’epatite C negli anni Ottanta.

«Un passaggio televisivo vicino a un bambino povero fa curriculum e rende cinque volte di più di una presenza a una qualsiasi trasmissione televisiva come ritorno d’immagine» (un agente dello spettacolo).

Edoardo Costa, attore della soap Vivere, condannato nel luglio 2012 a tre anni di reclusione e 2.000 euro di multa per appropriazione indebita. Si era impadronito di parte del denaro versato all’associazione da lui fondata, Ciak, creata per raccogliere soldi a favore dei bambini africani. Secondo il pm di Milano Bruna Albertini, dei circa 650.000 euro raccolti solo 80.000 sarebbero stati destinati all’assistenza dei minori, 570.000 se li sarebbe intascati l’attore.

Nell’estate del 1971, quando il popolo rock scoprì per la prima volta la beneficenza. L’ex Beatles George Harrison venne a conoscenza del genocidio dei pachistani orientali e organizzò un megaconcerto al Madison Square Garden di New York, con la partecipazione di Bob Dylan, Eric Clapton e Ringo Starr. L’evento fu seguito da 40.000 spettatori in tutto il mondo. Il ricavato, però, 243.418 dollari, non andò ai pachistani, ma venne bloccato per dieci anni per motivi burocratici dal fisco americano.

Il Pavarotti & Friends per 12 anni un appuntamento tradizionale per la musica e la beneficenza.

Le ong hanno scoperto il mercato attivando nuove modalità d’azione, come il microcredito, il commercio equo e i fondi di investimento etici, e vere e proprie partnership con le aziende.

Nel 2010 l’impegno sociale coinvolgeva due terzi delle imprese medio-grandi del nostro Paese, per un giro di finanziamenti di un miliardo di euro circa.

Le aziende si interessano alla beneficenza in diversi modi: la filantropia, cioè spendere denaro per una buona causa; stringere una partnership con un’associazione e promuovere con questa finanziariamente un’iniziativa; coinvolgere i dipendenti affinché facciano i volontari presso qualche fondazione o associazione, stipendiati come fossero al lavoro.

La pratica di devolvere fondi in beneficenza è adottata dalle aziende soprattutto a fine anno. In Italia, le aziende che fanno beneficenza hanno diritto ad agevolazioni fiscali, così come previsto dalla legge 80 del 2005.

George Soros, miliardario fondatore del Quantum Fund e filantropo. Finanzia cause umanitarie e movimenti dissidenti in varie parti del mondo per lo più attraverso l’Osi (Open society institute) e la Soros Foundation. L’Osi afferma che Soros abbia speso dagli anni Settanta, ogni anno, 400 milioni di dollari circa in cause umanitarie.

Soros, che grazie al suo Quantum Fund ha accumulato, in circa quarant’anni, una fortuna personale di circa 25 miliardi di dollari. È stato protagonista del mercoledì nero del 16 settembre 1992, quando vendette allo scoperto più di 10 miliardi di dollari in sterline e anticipò il crollo della Banca d’Inghilterra e l’uscita della sterlina dallo Sme. Con l’operazione Soros guadagnò una cifra stimata in 1,1 miliardi di dollari.

Soros, «l’uomo che distrusse la Banca d’Inghilterra».

Bill Gates, insieme alla moglie, nel 2000 ha creato la Fondazione Bill & Melinda Gates, che si dedica alla ricerca medica, alla lotta all’Aids e alla malaria e al miglioramento delle condizioni di vita nel Terzo mondo.

Critica alla Fondazione Gates: il Los Angeles Times ha preso in esame le modalità con cui nel 2007 era gestita la potenza finanziaria della Fondazione, un patrimonio di 28 miliardi di dollari. Secondo l’inchiesta, la Gates Foundation aveva speso 218 milioni di dollari in vaccini contro la poliomielite e il morbillo in varie parti del mondo, ma allo stesso tempo aveva anche investito 423 milioni di dollari in società che il quotidiano definiva tra le maggiori responsabili delle malattie respiratorie che affliggono i bambini di quelle aree.

Gli enti che negli Stati Uniti si dedicano a opere di filantropia, come la Gates Foundation, hanno l’obbligo di donare ogni anno almeno il 5 per cento del proprio patrimonio per evitare eccessi di tassazione.

Il cause related marketing, le campagne pubblicitarie legate a cause umanitarie o a scopi di pubblica utilità. Nel 2010, la somma investita dalle imprese italiane è stata pari a 198 milioni, in aumento del 3,3 per cento rispetto all’anno precedente (dati Osservatorio Crm, promosso dalla società Nielsen Media Research con la fondazione Sodalitas).

Bulgari, che nel 2011 ha stretto un accordo con Save the Children e ha incassato 12 milioni di euro devoluti all’associazione. Alla donazione iniziale della maison si sono aggiunti parte degli incassi della vendita di un anello in ceramica e argento dal prezzo di 350 euro di cui 60 andavano alla onlus.

Le banche e la beneficenza: Che Banca! ha scelto di finanziare la ricerca della Fondazione Veronesi; Ing Direct, in occasione dei suoi primi dieci anni in Italia, ha deciso di finanziare un progetto Unicef a favore dei bambini dell’Etiopia; Banca Mediolanum ha collegato direttamente l’apertura di un conto corrente all’impegno a finanziare un mese di formazione per un bambino di Haiti tramite la Fondazione Rava.

L’Oréal è partner storico della fondazione Piazza dei Mestieri, il cui scopo è fornire una qualificazione professionale a giovani provenienti da situazioni di disagio personale e sociale, con alle spalle una storia di abbandono scolastico. Dal 2003, grazie ai corsi di coiffure, più di duemila ragazzi hanno raggiunto la qualifica professionale, con tassi di inserimento sul mercato del lavoro superiori al 90 per cento.

Il volontariato d’impresa consiste nel coinvolgere i dipendenti in una o più giornate spese a favore del non profit e retribuite dall’azienda come lavoro. Nel 2009 le aziende che hanno fatto volontariato d’impresa erano il 16,7 per cento, due anni prima il 16,2 per cento.

L’Unicef da anni utilizza il meccanismo delle giornate di piazza in cui i lavoratori delle società interessate partecipano alle campagne della onlus.

Alcune aziende fanno decidere ai lavoratori a che progetto aderire, altre propongono una campagna in collaborazione con una singola associazione.

Il Corporate social responsibility (Csr), la responsabilità sociale d’impresa. Ormai da anni le aziende tendono a farsi certificare e a diffondere il proprio bilancio sociale o a stilare codici etici. Nel 2004 le imprese che avevano attivato queste procedure erano 800 circa.

Greenwashing, letteralmente «lavaggio con il verde», il tentativo delle società di riposizionarsi sui mercati e nella scala del gradimento da parte dei consumatori, migliorando la propria reputazione. La tecnica è un mix di marketing e di nuovi prodotti e punta a modificare la percezione di un marchio, e quindi di un’azienda, nell’universo del mercato.

Il greenwashing è una forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente.

Un rapporto dell’Istituto internazionale di agricoltura tropicale (Iita) nel 2002 ha rilevato che nelle piantagioni di cacao vi sono circa 615.000 bambini ridotti in schiavitù e costretti a lavorare in condizioni disumane. Il 64 per cento ha meno di 14 anni. Solo 5.000 sono pagati regolarmente, il 29 per cento ha dichiarato di non essere libero di lasciare i campi.

Il 90 per cento circa del cacao mondiale è prodotto in Costa D’Avorio, Nigeria, Ghana, Camerun, Burkina Faso e altri paesi dell’area.

Il giro d’affari del cacao è pari a più di 60 miliardi di euro all’anno a livello mondiale.

Nel 2001 le maggiori aziende produttrici di cioccolato hanno firmato il Protocollo Harkin-Engel, noto come Protocollo del Cacao, per porre fine alla loro dipendenza dal lavoro minorile entro il luglio 2005. L’ultimatum è scaduto senza avere ottenuto granché.

Il commercio equo e solidale, ideato da Nico Roozen e Frans van der Hoff nel 1986. Ebbero l’intuizione che avrebbe funzionato in un supermercato di Utrech. I due volevano aiutare i piccoli produttori a trovare uno sbocco commerciale senza finire tra gli aguzzini della grande distribuzione e, allo stesso tempo, favorire una produzione più equa, garantendo un prezzo minimo e un «premium» da investire in progetti di miglioramento sociale, per evitare situazioni di sfruttamento.

Con un tasso di crescita annuo del 24 per cento, l’iniziativa del commercio equo e solidale ha tolto dalla povertà oltre 1 milione 150.000 contadini. Il giro d’affari che ne è venuto fuori è stato di 6 miliardi di dollari. Il marchio Fairtrade (commercio equo) regala a un prodotto qualsiasi il 10 per cento in più nelle vendite. Le multinazionali hanno scoperto che l’equo e solidale vende e hanno fatto pressione per entrare nel giro.

Il 1° gennaio 2012 Fairtrade Usa è uscita da Fairtrade International, la più grande associazione del commercio equo e solidale del mondo, che rappresenta 25 paesi, tra cui l’Italia, e ha un giro d’affari di 5,8 miliardi di dollari. Giro d’affari di Fairtrade Usa: 1,3 miliardi di dollari.

Il caso Victoria’s Secret, il marchio di lingerie. Nel 2007 ha lanciato Burkina Fashion, una linea di biancheria intima equa e solidale prodotta con cotone coltivato e raccolto in Africa in maniera sostenibile e rispettando i diritti dei lavoratori. Un reportage del giornalista Cam Simpson dell’agenzia Bloomberg ha scoperto nel 2011 che a raccogliere il cotone in Burkina Faso per produrre la collezione erano le schiave bambine. Il Limited Brands, il gruppo di cui fa parte Victoria’s Secret, ha dichiarato di essere «contro il lavoro minorile e abbiamo sempre proibito lo sfruttamento. Stiamo collaborando con le parti interessate per indagare a fondo sull’intera faccenda».

Secondo la Cai, Commissione adozioni internazionali, in Italia il numero dei bambini provenienti dall’Etiopia è stato di 227 nel 2006, di 296 nel 2011. Il picco è stato toccato nel 2009 con 348 bambini.

Molti orfanotrofi in Africa sono stati istituiti per generare profitti, poiché ricevono fino a 30.000 dollari per ogni bambino adottato dai futuri genitori. Solo nel 2010, 6.000 bambini sono stati adottati fuori dal continente. Lo stesso anno, l’Etiopia era il secondo paese d’origine nelle adozioni internazionali dopo la Cina. Gli Stati Uniti sono il paese che ospita il maggior numero di bimbi etiopi con 11.000 casi, a seguire l’Italia con 4.130 casi, e poi Francia, Canada e Svezia.

Il Cifa, il principale ente per le adozioni internazionali (una onlus), muove in un anno 12 milioni di euro e, solo nel 2010, aveva in cassa 3,6 milioni, investiti in titoli di stato come fondi di garanzia per le famiglie.

L’ultimo bilancio Cifa disponibile online è quello del 2010. L’ente incassa dalle coppie 2 milioni 381.000 euro per l’adozione internazionale. Di questi soldi una parte, circa 800.000 euro, la usa direttamente per questioni che hanno a che fare con l’adozione e i bambini, il resto: 555.000 per «spese prestazioni lavoro istituzionale» (il personale del Cifa in Italia); 167.000 per convegni, congressi, spese di viaggio, rappresentanza, pubblicità, promozione; 389.000 per professionisti esterni, consulenti vari come psicologi, traduttori ecc.; il rimanente viene messo da parte per rimpinguare i fondi a garanzia delle coppie.

Il ministero delle Donne, dei bambini e della gioventù etiope ha emanato nel 2011 una direttiva con la quale prometteva di limitare il numero di adozioni internazionali a cinque al giorno a partire dal 10 marzo 2012. Fino a quella data le adozioni verso l’estero erano numerosissime, una media di 50 al giorno, di cui circa la metà dirette verso gli Stati Uniti.

Sono 297 i minori ucraini adottati da coppie italiane nel 2011. Negli ultimi dieci anni sono stati 11.000 i minori portati nel nostro paese, di 8.000 di loro non si conosce più nulla.

Passaggi per ottenere la patente di genitori adottivi: bisogna prima fare domanda di idoneità al Tribunale dei minori; poi, o si sceglie di adottare un bimbo in Italia o ci si rivolge all’estero. Nel primo caso, non costa quasi nulla, anche se il risultato non è garantito perché ci sono pochi bambini per molte coppie in attesa; nel secondo caso, è più facile, basta pagare. A controllare il tutto ci sono gli enti autorizzati dalla Commissione adozioni internazionali. L’ente si occupa di individuare il bambino, selezionare la coppia, farle colloqui e corsi, abbinare il minore ai futuri genitori e portare avanti tutte le procedure burocratiche. Per questo l’associazione chiede dei soldi: si va da 7.000 euro circa ad adozione a tre volte tanto, a seconda della onlus a cui ci si rivolge, del paese scelto, dei passaggi burocratici da affrontare. A controllare che l’ente si comporti bene c’è la Cai, che in genere delega alle associazioni la supervisione sull’adozione.

Fino al 1983 le adozioni erano regolate secondo la legge vigente negli Stati di appartenenza del bambino; quell’anno entrò in vigore la legge che regola l’adozione internazionale.

Adottare un bambino dal Marocco costa 7.500 euro, dalla Bulgaria 11.000, dal Nepal o dal Congo anche 20.000.

Gli enti che fanno da intermediari tra le coppie italiane e il bambino sono 65. Su circa 4.000 adozioni internazionali realizzate nel 2011, le pratiche di quasi la metà dei bambini sono state gestite da soli 11 enti: Cifa (339 bambini adottati); AiBi (249); Ariete (197); Naaa, Nadia Onlus, Sos Bambino, Spai (130 circa ciascuno); Azione per le famiglie nuove onlus, Ciai (127); L’Airone (122); Associazione adozioni alfabeto onlus (106).

Se nel 2000 il numero di coppie che aveva chiesto l’autorizzazione all’ingresso in Italia di minori stranieri era di 313, oggi è di 3.154. Ponendo che per ogni adozione vengano spesi circa 15.000 euro, si può calcolare che ogni anno in Italia il giro d’affari dell’adozione sia di oltre 45 milioni di euro.

La Convenzione dell’Aja, un accordo fra Stati che fissa a livello internazionale le regole base per l’adozione. Il «bollino Aja» è un marchio di trasparenza. Ogni Paese che ha firmato la Convenzione dell’Aja, tra cui l’Italia, deve istituire un’«autorità centrale» che sovrintenda alle adozioni internazionali (nel nostro caso la Commissione adozioni internazionali, Cai). La Convenzione, inoltre, prevede alcune regole: obbliga i firmatari ad adottare «tutte le misure idonee a prevenire impropri profitti finanziari o di altro tipo dall’adozione» e sancisce il principio che mantenere i bambini con le loro famiglie di origine è la priorità assoluta per il loro benessere.

Nel mondo sono 88 i Paesi che hanno aderito alla Convenzione Aja.

Ancora oggi alcuni Paesi che non hanno ratificato la Convenzione Aja lavorano con i nostri enti. Il 64 per cento dei bambini stranieri adottati da coppie italiane nel 2011 arrivava da soli sette paesi: il 19 per cento del totale dalla Federazione russa e il 7 per cento dall’Etiopia, che non hanno aderito alla Convenzione Aja.