Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 11 Lunedì calendario

LA SCOMMESSA DELL’ORO, UNA CRESCITA LUNGA 12 ANNI


L’oro ha chiuso il 2012 con una quotazione, fixing pomeridiano di Londra, di 1.657,50 dollari per oncia. Una relativa delusione per quanti vaticinavano il raggiungimento di quota 2.000, ma è pur sempre il dodicesimo anno consecutivo di rialzo, a inizio 2001 l’oro valeva 271 dollari. E’ caro? Il suo prezzo rettificato per l’inflazione è, secondo diversi analisti, ancora lontano dal picco di 850 dollari toccato nel 1980 e il metallo giallo non appare sopravalutato in rapporto al petrolio. Ma è difficile definire cara o a buon mercato una materia prima così particolare.
L’oro è adoperato in misura minima per usi industriali, mentre una discreta quota della domanda proviene dal settore gioielleria, legato all’andamento delle economie, India e Cina su tutte, ma anche ai rapporti di cambio. C’è poi la domanda crescente di oro come riserva di valore, l’oro detenuto dalle banche centrali, e come investimento/ bene rifugio, in questo caso sotto forma di monete, lingotti e, soprattutto, di Exchange Traded Products. Lo scorso anno gli Etp legati all’oro hanno raccolto, secondo i dati di Blackrock, 15,6 miliardi di dollari e si ritiene che il loro patrimonio complessivo sia ormai superiore alle riserve auree di qualsiasi singolo stato, ad eccezione di Usa e Germania. In passato l’oro era visto come una difesa dall’inflazione; nell’ultimo decennio ha funzionato come «porto sicuro» durante le crisi. C’è da chiedersi, allora, se in futuro riuscirà ancora ad assolvere a questi suoi compiti e qui le opinioni divergono, anche tra gli investitori più bravi e famosi.
Tra gli scettici si annovera Warren Buffett, il più noto investitore “fondamentale”. L’oro, sostiene, è uno di quegli asset che non produrranno mai nulla, ma che sono acquistati nella speranza che in futuro qualcun altro sia disposto a pagarlo di più. Nel caso dell’oro, lo si acquista perché si nutrono timori sull’andamento delle altre attività finanziarie, lo si acquista ancora nella convinzione che questi timori siano destinati a aumentare. Dal 2001 questa convinzione si è rivelata corretta e la crescita delle quotazioni ha generato a sua volta un ulteriore entusiasmo, richiamando nuovi investitori che vedono nella crescita dei prezzi la prova della bontà di questa tesi.
«Negli ultimi 15 anni, sia le azioni legate a internet che l’immobiliare hanno dimostrato quali incredibili eccessi possono crearsi quando una teoria inizialmente sensata si combina con prezzi crescenti iperpubblicizzati », ha ammonito Buffett nella sua ultima lettera agli azionisti della Berkshire Hathaway. La pensa diversamente George Soros, il gestore che nel 1992 con il suo Quantum Fund mandò a picco la sterlina, e che pure anni fa indicava nell’oro «the ultimate bubble», la bolla speculativa finale. La scorsa estate ha aumentato di quasi il 50% l’investimento in Etf sull’oro fisico e una mossa analoga è stata compiuta anche da John Paulson, il gestore di hedge fund divenuto miliardario cavalcando la crisi dei mutui sub — prime, nel passato più recente ha collezionato performance negative, che può vantare una posizione in oro superiore alle riserve auree del Brasile. «Mentre l’inflazione è stata sino ad oggi contenuta», ha dichiarato di recente, «l’aggressiva espansione della base monetaria sta creando il potenziale per un’inflazione futura».
In questo quadro in chiaroscuro c’è da segnalare un’anomalia. Il prezzo dell’oro rallenta ma non smette di crescere, mentre in borsa i titoli auriferi, le azioni delle società che il metallo giallo l’estraggono, vanno decisamente male. L’indice Msci Acwi Select Gold Miners si è mosso in sintonia con le quotazioni dell’oro fino all’estate del 2011, per poi divergere: nell’intero 2011 ha perso quasi il 18% e lo scorso anno ha lasciato sul terreno un ulteriore 15%. I principali produttori mondiali hanno fatto pure peggio: nel 2012 Barrick Gold Corporation e Newmont Mining hanno perso il 23% e da inizio anno un ulteriore 8%; Goldcorp si è limitata a un calo del 17% lo scorso anno e quasi del 4% nel primo mese del 2013. Cosa è accaduto? Più che il prezzo dell’oro in sé, quello che conta per i produttori è la differenza tra ricavi e costi e sono proprio questi ultimi che sono cresciuti troppo negli ultimi anni; nel 2011 il solo costo di estrazione è aumentato, secondo Bloomberg, del 23%, a 584,7 dollari per oncia. Ma c’è dell’altro. I ricavi in crescita hanno spinto le aziende a investire per aumentare produzione e scorte.
Negli ultimi cinque anni sono stati spesi quasi 70 miliardi di dollari in 410 operazioni di acquisizione e sono cresciuti anche gli investimenti per aprire nuove miniere. Peccato che le acquisizioni non sempre si siano rivelate redditizie e che molte delle nuove miniere si siano limitate a produrre costi. Quello previsto per Pascua Lama, una miniera al confine tra Argentina e Cile di proprietà della Barrick Gold, ad esempio, è già salito a 8,5 miliardi e appare destinato a crescere ancora, mentre l’apertura è slittata all’estate 2014. A rimetterci, tuttavia, non sono stati solo azionisti e investitori: lo scorso anno sono saltati, uno dopo l’altro, ben cinque ceo, gli amministratori delegati, come Aaron Regent, mandato a casa da Barrick Gold per il deludente andamento di borsa del titolo, o Tye Burt di Kinross Gold, licenziato dopo aver svalutato per 2,5 miliardi di dollari una miniera in Mauritania, asset che Kinross aveva acquisito 18 mesi prima quando aveva rilevato la Red Back Mining per 8 miliardi di dollari.