Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 11 Lunedì calendario

UNA FORMULA MAGICA PER LE ARANCIATE LA COCA-COLA TENTA IL SECONDO MIRACOLO


Auburndale è una tranquilla cittadina di 14mila abitanti, un’ora a sud di Disney World nel cuore verde della Florida. Lì, lontano da occhi indiscreti e con un investimento di 114 milioni di dollari, è stato costruito il più grande impianto del mondo di produzione di succo d’arancia. E’ un gioiello di hi-tech nell’agroalimentare: attraverso un algoritmo segretissimo battezzato Black box (scatola nera), migliaia di variabili - i sapori, l’acidità, le condizioni atmosferiche, le preferenze del mercato, le immagini satellitari, il contenuto di zuccheri e così via – vengono ottimizzate per produrre un succo sempre uguale nel gusto e sempre gradito, senza ricorrere a concentrati.
Di chi è il maxi-impianto di Auburndale? Della più celebre multinazionale delle bevande: The Coca-Cola Company di Atlanta, in Georgia. Ma come? La Coca-Cola tradisce quelle bollicine che l’hanno proiettata ai vertici del business mondiale e regalato la prima posizione in assoluto tra i marchi di maggior valore? No, non è un voltare le spalle al mito (e alla formula segreta del farmacista John Pemberton) che vene inventata nel 1886 e dal 1892, anno della prima produzione, alimenta le fortune del gruppo. Il 78% delle vendite della società è ancora targato “Coke” o “Coca Cola”, i cui barattoli, bottiglie o bottiglioni arrivano in ogni angolo della Terra, con due sole eccezioni: Cuba e la Corea del Nord. Ma da tempo il colosso di Atlanta - 146mila dipendenti, un fatturato 2011 di 46,5 miliardi di dollari (secondo le prime stime nel 2012 ha superato i 47 miliardi), utili per 8,6 miliardi, capitalizzazione di 171 miliardi - ha diversificato la sua offerta di bevande. Ne ha ormai più di 500. E inseguendo i nuovi orientamenti dei consumi che dalle bollicine zuccherate si spostano verso prodotti considerati più sani e naturali, preme l’acceleratore sui succhi d’arancia.
Negli Stati Uniti il trend appare sempre più marcato, anche per effetto di crociate salutiste come quella del sindaco di New York Michael Bloomberg. A cominciare da marzo, se non ci sarà lo stop dei giudici cui si sono rivolti i lobbysti della American beverage association, formata da Coca-Cola, PepsiCo, Dr. Pepper Snapple group e altri, sarà vietata la vendita nei ristoranti e nei fast-food della Grande Mela di bevande zuccherate e gassate in contenitori di più di mezzo litro. Obiettivo: combattere l’obesità.
Muhtar Kent, il manager turcoamericano (e musulmano) che dal 2008 guida la Coca-Cola, si rende conto del pericolo per le prospettive del gruppo. Da un lato, quindi, cerca di recuperare credibilità sui temi della salute: promuovendo, ad esempio, una campagna di informazione sui pericoli di un eccessivo input di calorie; da un altro lato, si affida alla tecnologia, al know how del gruppo e a quattro marchi che hanno già un volume di vendite annuali superiore al miliardo di dollari – Minute maid e Simply Orange negli States, Del Valle in America Latina e Minute Maid Pulpy in Asia – per costruire quella che Business week definisce “una macchina globale dei succhi”.
Negli Stati Uniti, che continuano a essere il mercato principale di Kent e dei suoi collaboratori, i progetti espansionistici di Atlanta cozzano contro la PepsiCo: la quale, attraverso Tropicana (fondata dal siciliano Anthony Rossi e rilevata nel 1998), controlla oggi il 40% del mercato americano dei succhi, rispetto al 28 della Coca-Cola. Che però non si dà per vinta: e lo stabilimento super-tecnologico di Auburndale, in Florida, ne è una prova. Puntare sui succhi, e in particolare quelli d’arancia, che non mancano mai all’ora del breakfast, vuol dire anche capire che il consumatore americano, a differenza di quello di altri paesi, non vuole più bere prodotti ottenuti dalla materia prima concentrata e congelata, come ad esempio la maggioranza di quelli della Santàl, gruppo Parmalat. Mentre la quota di mercato dei succhi da concentrato è scesa oltreatlantico ad appena il 4%, i concittadini di Obama esigono sempre più quelli “freschi”, “naturali”, al “100 per cento ottenuti spremendo le arance”: e per i quali è pronto a pagare un sovrapprezzo del 25 per cento, che ovviamente fa gola alla Pepsi, alla Coke e ad altri protagonisti del mercato.
Quel che il consumatore per lo più ignora è che questi succhi pubblicizzati con la scritta “not from concentrate”, cioè senza il passaggio attraverso il prodotto congelato per lo più sudamericano, sono essi stessi frutto di un sofisticato processo industriale volto a garantire stabilità e uniformità della bevanda. La formula del Black box, messa a punto per la Coca-Cola da Bob Cross, lo stesso consulente che aiutò la Delta a massimizzare gli incassi per chilometro di volo, serve appunto a questo scopo.
Come far sì che il succo d’arancia abbia sempre lo stesso contenuto zuccherino, la stessa acidità e lo stesso gusto, anche se la raccolta degli agrumi si concentra in pochi mesi all’anno? Come evitare che un uragano caraibico o una gelata negli aranceti della Florida interrompano il flusso di produzione? “Il nostro algoritmo risponde a tutte queste evenienze”, spiega Cross con una punta d’orgoglio. Quel che però non dice, anche se risulta chiaro a chiunque riesca a penetrare nello stabilimento di Auburndale, è che nella “guerra” del succo d’arancia la Coca Cola ha un alleato prezioso: la Cutrale brasiliana, fondata nello stato di San Paolo da un altro immigrato siciliano (Giuseppe Cutrale). E’ la società sudamericana, dalla decennale esperienza nei succhi, a processare un terzo dei 145 milioni di scatole d’arance prodotte ogni anno da 400 agrumicoltori della Florida. Sempre lei, a importarne tante altre dal Brasile, avvertendo le aziende in loco, grazie a satelliti e algoritmi, del miglior momento per la raccolta. Ancora lei, a stoccare il succo fino a otto mesi servendosi di silos immensi, capaci di contenere 8 milioni di litri, a una temperatura tra -1 e +1 gradi centigradi, stando attenta a non far ristagnare il liquido sul fondo e a ricoprirne la superficie con una coltre di azoto.
Infine è lei, la Cutrale, a mandare attraverso una pipeline lunga due chilometri il giusto mix di succhi – quelli appena spremuti e quelli conservati, quelli della Florida e quelli brasiliani – nel maxiimpianto di imbottigliamento di Auburndale, da dove poi i cartoni della Coca-Cola si dirigono in centinaia di migliaia di supermercati degli States.