Marco Panara, Affari&Finanza, la Repubblica 11/2/2013, 11 febbraio 2013
MPS, TRE SCENARI PER IL DOPO-CRISI
Con i Monti Bond arriviamo a 11,2 miliardi raccolti dal Monte dei Paschi dal 2008 ad oggi, essenzialmente per coprire l’infelice acquisizione di Antonveneta e i buchi lasciati dagli investimenti miliardari in Btp e dalle varie operazioni Alexandria, Santorini e Nota Italia. E’ la somma dei 5 miliardi dell’aumento di capitale del 2008, dei 2,15 miliardi dell’aumento di capitale del 2011 e dei 4 miliardi delle obbligazioni che Mps si appresta ad emettere e che saranno sottoscritte dal Tesoro. Sinteticamente si potrebbe dire che questo è il costo di una stagione dissennata che ci si augura si sia conclusa con il consiglio di amministrazione di mercoledì scorso.
Che ha deciso di iscrivere a bilancio i 730 milioni di perdite dovute alle operazioni Santorini, Alexandria e Nota Italia.
Il costo di questa infelice stagione è stato coperto, ma il conto si potrà dire pagato solo quando l’amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola dice nel 2016, con gli utili prodotti di qui ad allora e un aumento di capitale da un miliardo già approvato dall’assemblea e da varare nei prossimi quattro anni - i Monti Bond saranno stati integralmente rimborsati.
Fatti i conti, resta da rispondere a quattro domande chiave: cosa ha determinato questo buco? Perché? Chi ne sono i responsabili? Come ne uscirà la banca? La risposta a quest’ultima domanda l’avremo tra qualche anno. Stando a quanto assicurano i vertici dell’istituto e le autorità di vigilanza la banca è patrimonialmente solida e tranquilla sul piano della liquidità, è quindi in grado di camminare. Quanto al futuro, oggi le ipotesi sono tre: ne uscirà da sola, realizzando il piano industriale ambizioso che è stato già avviato e ottenendo i risultati previsti nonostante il contesto difficile dell’economia italiana. Se così fosse, e in seguito all’aumento di capitale da un miliardo senza diritto di opzione, alla fine del percorso potremmo trovarci un Monte dei Paschi autonomo, con un azionariato in cui la Fondazione avrà una quota minoritaria e sarà affiancata da investitori finanziari internazionali. È l’obiettivo al quale puntano il presidente Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Viola, convinti che realizzare il piano industriale è possibile quanto consapevoli del fatto che non sarà facile.
La seconda ipotesi è quella dell’arrivo di un partner non finanziario ma industriale, ovvero di una banca con le spalle larghe (l’ufficio studi di Mediobanca fa il nome di Bnp Paribas, che è già presente in Italia con Bnl) che si compri tutto, o si fonda con il Monte. Per Siena sarebbe la soluzione meno felice perché potrebbe perdere il quartier generale della banca che è la maggior fonte di reddito della città.
Terza ipotesi è la nazionalizzazione, se non si riuscisse a rimborsare le obbligazioni. Una nazionalizzazione probabilmente temporanea il cui esito finale potrebbe essere solo la cessione ad un altro gruppo bancario italiano o estero. La possibilità concreta di una cordata stabile di azionisti italiani industriali sembra poco probabile (viste le esperienze recenti) e anche poco auspicabile, perché in generale non è bene che chi fa industria controlli le banche.
Ma veniamo alle altre domande. La risposta alla prima (come si è creato questo buco?) è relativamente semplice. Alcune operazioni finanziarie avviate all’inizio degli anni duemila si sono chiuse con perdite che invece di essere iscritte in bilancio (perché avrebbero mangiato capitale), sono state coperte con altre operazioni finanziarie che avrebbero dovuto spalmare le perdite in un arco temporale lungo ma che anch’esse si sono rivelate molto costose per la banca. A queste si somma l’acquisto di 25 miliardi di titoli di stato italiani a lunga scadenza, il cui valore è crollato con la crisi dei debiti sovrani.
In un istituto in cui il presidente dell’epoca Giuseppe Mussari ha candidamente dichiarato “Non sono un banchiere sono un avvocato” e il cui direttore generale dell’epoca, Antonio Vigni, interrogato dalla Procura di Siena, ha impostato la sua difesa sul concetto “sono un uomo di banca, della finanza si occupavano altri”, che le cose siano andate così non deve stupire. Stupisce semmai che in una banca con una governance siffatta si facessero operazioni finanziarie così complesse.
Le operazioni finanziarie sono quelle che stanno dando più lavoro ai magistrati per i numerosi risvolti penalmente rilevanti, ma la parte più imponente del buco deriva dall’acquisizione di Antonveneta. Sbagliata nell’oggetto: una banca fragile patrimonialmente e con problemi enormi di liquidità (secondo quanto documentato dalla vigilanza aveva debiti interbancari con Abn Amro e Bav per 9,5 miliardi da rimborsare entro 12 mesi). Sbagliata nel modo: è stata comprata senza fare una due diligencee senza clausole di salvaguardia, come comprare una scatola, pagandola oltre 10 miliardi di euro, senza sapere cosa c’è dentro. Sbagliata nel prezzo: 9 miliardi, di cui 6 di avviamento, più un altro e poco più di interessi e costi aggiuntivi. Sbagliata nel momento: Bear Stearns era già andata a gambe all’aria mentre si lavorava all’operazione e si stava per scatenare la più grande crisi dal ’29 in poi. Di quei 10 miliardi pagati tutti in contanti, 6 (l’avviamento) sono poi stati svalutati.
Siamo così giunti alla domanda delle domande: perché? Come è possibile inanellare in pochi anni una serie simile di ‘ infortuni’ e mettere in ginocchio la banca più antica del mondo, con cinque secoli di storia alle spalle e che sino alla fine degli anni ’80 era uno degli istituti più ricchi d’Italia?
La proprietà semipubblica (è controllata dalla Fondazione Montepaschi che aveva la maggioranza assoluta) non è una spiegazione sufficiente. Lehman Brothers, Bear Stearns, Countrywide Financial non risulta che fossero pubbliche o avessero rapporti con la politica, così come non erano pubbliche la Royal Bank of Scotland, le banche irlandesi e quelle islandesi, le banche olandesi e le tante americane che sono saltate o sono state nazionalizzate in questi anni. La natura della proprietà, pubblica o privata o delle fondazioni che sia, non garantisce nulla né nel bene né nel male. Né è uno scandalo che il Monte abbia distribuito in quindici anni 2 miliardi di dividendi alla città, finiti nell’università, nel policlinico, in centri di ricerca, mense scolastiche e anche tanti sprechi. Le summenzionate istituzioni private avevano anch’esse distribuito fior di miliardi ai loro azionisti e di bonus ai loro amministratori, finiti in meno nobili cause.
La storia, lasciando da parte le ideologie, è un’altra. Quando la legge Amato aprì la via alla trasformazione delle casse di risparmio e degli istituti di diritto pubblico (come il Monte dei Paschi) in spa, Siena si ribellò. Non voleva che il Monte diventasse una spa. Erano contro tutti i partiti cittadini, la deputazione (si chiamava così il consiglio di amministrazione della banca), la cittadinanza. In una di quelle strane contraddizioni della storia per cui un partito di sinistra fa cose che si ritenevano di destra, fu il Pds (ex Pci) nazionale a intervenire e a convincere Siena che quella trasformazione in spa si doveva fare. Siena subì, ma la Fondazione appositamente creata non rispettò i dettami della legge Ciampi, che aveva completato quella di Amato prevedendo la discesa delle fondazioni nel capitale delle banche fino a lasciarne il controllo. Siena voleva mantenere il controllo della “sua” banca e il 51 per cento è stata fino all’anno scorso considerata la soglia minima invalicabile. Questa ossessione del controllo della città sulla banca, che passava attraverso il dominio degli enti locali sulla Fondazione, aveva due ragioni: certo i soldi, tanti, che in termini di dividendi arrivavano alla Fondazione e quindi alla città. Ma soprattutto il controllo dei meccanismi interni della banca stessa, attraverso una strana alleanza tra il sindacato (potentissimo: tre sindaci, Mazzoni Della Stella, Piccini e Cenni erano stati segretari della Fisac Cgil) e i (molto massonici) centri di potere cittadini. Nomine, promozioni, assunzioni, l’ipertrofia stessa della direzione generale, tutto quello che ha portato il cost/ income ratio del Monte ad essere tra i più alti del sistema, è frutto di questo rapporto tra la città e la banca. Con un effetto collaterale rilevante: una classe dirigente dell’istituto non all’altezza delle sue ambizioni.
L’ossessione del controllo azionario e operativo ha portato a rinunciare all’acquisizione della Bnl, che era stata offerta su un piatto d’argento e che avrebbe portato al Monte quello che il Monte non aveva: clientela corporate, competenze finanziarie, rete internazionale. Detto no alla Bnl e al salto di qualità che avrebbe comportato, fu scelta un’altra strada, quella del “polo aggregante federativo”. Una scelta legittima, basata sul concetto rispettabile “facciamo quello che sappiamo fare” ma facciamolo più in grande, non solo in Toscana ma su tutto il territorio nazionale. Di qui l’acquisto della Banca 121 (pagata cara, ma carta contro carta) per coprire la Puglia, poi della Banca Agricola Mantovana in Lombardia e nel Nordovest di Biverbanca. Mancava il Nordest e arrivò Antonveneta. Un’operazione coerente con la strategia del polo federativo aggregante, ma che, a causa dei propri limiti, il gruppo dirigente della banca e della città non seppe valutare nei suoi rischi e nelle sue implicazioni. E che, per quell’ossessione del controllo azionario, ha portato anche a minare il patrimonio della Fondazione.
Chi è responsabile di tutto ciò? La magistratura ci darà le risposte sotto i profili penali. La lista degli indagati, dall’ex presidente Mussari all’ex direttore generale Vigni, ai vertici del settore finanza, è già abbastanza lunga. Ma al di là degli aspetti penali la responsabilità è assai più larga, tocca chi ha guidato la città e la Fondazione, i gruppi dirigenti cittadini, il sindacato, anche la politica nazionale che forse, lo sapremo nei prossimi mesi, non ha messo le mani in pasta, ma ha lasciato che altri ce le mettessero. Nella migliore delle ipotesi per negligenza, più probabilmente per opportunismo.