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 2013  febbraio 10 Domenica calendario

MALATI D’ERGASTOLO

Il mondo oltre le sbarre di un ospedale psichiatrico giudiziario è un mondo che ha perso il tempo. Anche lo spazio, certo, ma quello non esiste in alcun luogo di detenzione. Il tempo invece sì. In ogni cella di ogni carcere ci sono uomini o donne cui non resta molto altro che contare il tempo che li separa da quando passeranno dall’altra parte del cancello. Negli Opg non è mai stato così. Si entra per un minimo di sei mesi, un anno, due o cinque o dieci, ma il fine pena non è scritto. E certe volte non viene scritto mai.
In Italia ce ne sono sei (Barcellona Pozzo di Gotto, Napoli, Aversa, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere) e stanno per chiudere. O così dovrebbe essere. La legge è stata fatta, la data fissata. Entro il 31 marzo 2013 nessuna delle strutture dovrà più essere in funzione, e gli internati dovranno essere trasferiti in parte in speciali sezioni carcerarie e in parte in case di cura e custodia da venti posti al massimo e controllate dalle Asl.
Il rischio di una proroga però incombe perché, come spesso succede, quello che sta scritto non corrisponde a quello che avviene nella realtà. E, infatti, le case di cura e custodia non sono ancora pronte, e nemmeno si è ancora capito bene come e da chi sarà gestita la custodia, perché la legge non annulla il concetto di carcere, ma si limita a presumere di umanizzarlo attraverso l’istituzione di strutture dai numeri molto più contenuti di quelli attuali.
Furono il presidente della commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale, Ignazio Marino, e due componenti dello stesso organismo, Daniele Bosone e Michele Saccomanno, a firmare il testo poi approvato in Parlamento. Cominciarono a girare per gli Opg dopo le ispezioni e i successivi allarmi della Commissione europea per la prevenzione della tortura, e scoprirono lo scempio che i giornali già raccontavano da tempo. Ne venne fuori un video agghiacciante, il sequestro parziale di quasi tutte le strutture e una legge appunto che, al di là delle buone intenzioni, risolve la questione degli Opg soprattutto dal punto di vista edilizio. Che certo rappresenta almeno il cinquanta per cento del fallimento di questa esperienza cominciata in Italia formalmente a metà degli anni Settanta, ma in realtà molto prima. Perché la legge che apriva i manicomi criminali è del febbraio 1904, poi sono cambiati i nomi: prima manicomio giudiziario e poi — con italica ipocrisia e nel pieno della battaglia di Franco Basaglia che avrebbe portato all’istituzione della legge 180 e alla chiusura dei manicomi — ospedale psichiatrico giudiziario. Ma la sostanza fino a oggi non è mai cambiata: gli Opg sono posti dove vengono rinchiuse persone ritenute socialmente pericolose. I manicomi criminali avevano le celle, le sbarre, i letti di contenzione, le cinghie e tutto quell’orrore lì, e gli Opg hanno le celle, le sbarre, i letti di contenzione col buco al centro del materasso, perché ci si finisce legati e nudi, e quel buco serve per farla in un secchio messo sotto, e poi si resta così, immobilizzati e sporchi, umiliati anche dalla propria puzza.
Qualche direttore li ha fatti eliminare, i letti di contenzione (a Napoli non li usano più), altri invece no. Qualche direttore ha scelto anche la custodia attenuata, che consiste nel tenere le celle aperte per gran parte della giornata, in modo che i reclusi possano camminare per i corridoi quando è finito il tempo dell’aria all’aperto e possano incontrarsi e stare insieme. Tentativi di umanizzare ciò che umanizzabile non è. Perché l’obbrobrio degli Opg è giuridico e si chiama ergastolo bianco. Per qualunque reato si entri lì dentro — che sia una strage o un’ubriachezza molesta — se ne esce soltanto quando una perizia psichiatrica stabilirà che non si è più socialmente pericolosi, e sempre che ci sia una struttura sanitaria pubblica cui far capo per continuare il percorso terapeutico. Altrimenti si resta dentro. Il magistrato di sorveglianza stabilisce una proroga che solitamente è di due anni e se ne riparlerà alla scadenza. Quando, con due anni in più passati in Opg, ci saranno ottime probabilità di aver accumulato frustrazioni e aggressività tali da essere ritenuti ancora socialmente pericolosi. E si può andare avanti così all’infinito.
Ad Aversa c’era un recluso che era entrato a vent’anni e dopo altri venti stava ancora là. Si chiamava Luigi, un marcantonio che non faceva altro che chiedere sigarette e fumarne una dopo l’altra. Non aveva mica ammazzato nessuno, Luigi. Solo che quand’era ragazzino al suo paese gli amici lo sfottevano perché tutte le ragazze gli dicevano di no. E lui, che era già bello grosso e aveva le mani pesanti, reagiva a schiaffoni. Alla fine se lo tolsero di torno con una denuncia, e lui ormai non si ricordava più nemmeno qual era il suo paese e perché stesse all’Opg.
La storia di Vito De Rosa è diventata invece un libro, Vito il recluso (Sensibili alle foglie, 2005) scritta da Francesco Maranta, ex consigliere regionale della Campania, di Rifondazione, in collaborazione con Dario Stefano Dell’Aquila, dell’associazione Antigone, uno degli operatori sociali più impegnati nel denunciare la barbarie degli Opg, su cui ha scritto una documentatissima inchiesta (Se non ti importa il colore degli occhi, edizioni Filema, 2009). Vito era stato arrestato nel 1951 perché aveva ucciso il padre a colpi di scure. Condannato all’ergastolo, un anno dopo è sottoposto a perizia psichiatrica e trasferito in Opg, o come si chiamava all’epoca. C’è rimasto per cinquant’anni, completamente dimenticato. E mai ne sarebbe uscito vivo se nel 2003 il presidente della Repubblica non gli avesse concesso la grazia. Arrestato a 24 anni, Vito De Rosa ha riottenuto la libertà a 76: nessuno in Italia ha passato tanto tempo privato della libertà.
Ma pure i tre anni di reclusione di Antonio Provenzano sono emblematici. Lui non era uno abbandonato da tutto e tutti come tanti reclusi in Opg. Aveva una famiglia che gli stava accanto e che si sarebbe fatta carico di seguirlo una volta tornato a casa. E però nemmeno questo è bastato a fargli riottenere la libertà allo scadere dei sei mesi fissati dal giudice. Antonio fu denunciato perché girava armato di bastone (era stato aggredito e seviziato e da allora se lo portava appresso per difendersi nel caso gli fosse capitato ancora), però anziché essere lasciato libero, come chiunque venga denunciato per una cosa così, venne rinchiuso a Montelupo Fiorentino (e successivamente ad Aversa) perché in passato gli era stata diagnosticata una lieve forma di psicosi schizofrenica di tipo paranoide. Sono sei mesi duri, che però passano. Ma poi nelle pratiche burocratiche che dovrebbero rimandarlo a casa, qualcosa non funziona. Ci vuole una Asl che stili per lui un progetto terapeutico e quella di Ostia, dove Antonio abita insieme alla sorella Elisabetta, la tira per le lunghe. Tra un intoppo e l’altro passano altri due anni e mezzo ed Elisabetta deve accamparsi con una tenda sul tetto del palazzo della Asl per ottenere che la situazione si sblocchi.
Ma quanti reclusi, invece, nemmeno le famiglie hanno avuto accanto. Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono il mondo di disperati che hanno storie disperate e famiglie disperate. Oppure impaurite. Come quella di uno finito dentro per aver dato ventiquattro coltellate alla madre, senza peraltro ucciderla. Quando lo psichiatra ha stabilito che poteva uscire e il giudice ha firmato l’ordine di scarcerazione, l’avvocato è corso dal direttore a pregarlo di tenerselo ancora perché a casa erano terrorizzati dal suo ritorno.
Gli Opg sono pieni di storie come quella di Luigi, di Vito o di Antonio. O come quelle degli internati provvisori, gente che vive reclusa in una dimensione giuridica al di là di ogni immaginazione. Sono quelli che in Opg fanno una sorta di custodia cautelare, senza però scadenza dei termini. Li chiamano gli improcessabili, perché una perizia psichiatrica ha stabilito che non sono in grado di comprendere nemmeno la dinamica processuale, e quello è invece un diritto che spetta a qualsiasi imputato. Così il dibattimento non viene fissato finché la diagnosi non cambia, e non c’è limite di tempo. All’Opg di Napoli — che dall’antico convento di Sant’Eframo è stato trasferito qualche anno fa nella mai aperta sezione femminile del carcere di Secondigliano — ce ne sono due. Uno da dieci anni e un altro da quattro. E la loro storia di reclusi psichiatrici — fatta di diagnosi, di terapie e di un programma di recupero — non è nemmeno cominciata.
Ecco che cosa sono gli Opg e che cosa continueranno a essere fino a quando esisterà il concetto di pericolosità sociale e la relativa applicazione di misure di sicurezza. Le storie dei grandi boss che truccavano le carte per essere trasferiti dal carcere all’ospedale psichiatrico giudiziario per stare meglio e poter uscire prima sono vere ma non indicano niente. Nel suo libro Materiali dispersi (Tullio Pironti, 2010) l’ex direttore di Aversa, lo psichiatra Adolfo Ferraro, racconta, tra vari episodi, quello relativo alla reclusione di Raffaele Cutolo, e altri nomi famosi della storia criminale italiana sono passati per gli Opg, come per esempio Marcello Colafigli, della banda della Magliana, quello che nella fiction televisiva di Romanzo criminale corrispondeva al personaggio di Bufalo.
Poi ci sono le tragedie emerse, quelle che la cronaca ha molto raccontato. La tragedia di Antonia Bernardini, morta bruciata nel 1975 mentre è legata a un letto di contenzione nell’allora manicomio giudiziario di Pozzuoli. I suicidi ravvicinati, nel 1978, del direttore di Aversa, Domenico Ragozzino, e di quello di Napoli, Giacomo Rosapepe, entrambi coinvolti in inchieste sulla gestione dei manicomi. E ancora la morte di Giovanni Taras (1975) militante dei Nuclei armati proletari dilaniato dall’ordigno che stava mettendo sul tetto del manicomio di Aversa per attirare l’attenzione sulle condizioni inumane dei reclusi. E poi i suicidi degli internati: 44 in dieci anni, i più recenti a Barcellona Pozzo di Gotto, l’Opg che insieme ad Aversa sconvolse maggiormente prima la Commissione europea e poi quella del Senato.
Suicidi che solo letture superficiali o di comodo possono attribuire al disagio psichico di chi ha scelto la morte. In realtà atti di disperazione di uomini che, per quanto psicopatici, hanno ben chiaro di essere finiti nel luogo destinato agli ultimi degli ultimi. E, per quanto magari ignoranti di questioni giudiziarie, hanno chiaro anche che da lì non sanno, e nessun avvocato o familiare o direttore o guardia potrà dir loro, se e quando verranno mai fuori. E se ora gli Opg chiuderanno davvero, cambieranno le strutture, e sicuramente saranno più umane, ma a chi gestirà le case di cura e custodia ogni internato frutterà circa 100 euro al giorno, e quindi il rischio che la cura e custodia diventino un business non si può escludere. E allora non si può escludere nemmeno che l’ergastolo bianco, magari un po’ più bianco e meno puzzolente, continui ancora. E che per chi finisce in Opg continui a valere la logica del «fine pena forse». Ma forse anche no.
Fulvio Bufi