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 2013  febbraio 10 Domenica calendario

NAUFRAGARE NELLA LUCE

Daniele Del Giudice ama essere scrittore, solo scrittore, nient’altro che scrittore: senza nessun desiderio di addossarsi vocazioni ideologiche o politiche. Essere solo scrittore gli sembra una condizione bellissima e felicissima, che non si esaurisce mai e gli apre porte e sbocchi da tutte le parti. Come Gadda e Calvino, legge libri di filosofia e di scienza, vi riflette, se ne lascia compenetrare: non per accrescere la sua esperienza sensibile, ma, proprio al contrario, perché la scienza parla di cose che sono al di fuori della nostra esperienza, spalanca le porte dell’immaginazione e della fantasia, e ci fa entrare in un mondo completamente irreale. Per la stessa ragione, oggi, molti appassionati di teologia leggono con passione libri di fisica, sul big-bang e sui buchi neri. Così Del Giudice vorrebbe scrivere una letteratura non antropocentrica, dove non parli il sentimento umano dell’universo, ma il sole, la luna, le stelle, gli aerei, le automobili, le città, le porte, l’inchiostro, la penna. È un’impresa immensa che Del Giudice, quasi solo, ha cominciato fin dall’inizio (In questa luce, Einaudi, pagine 192, 18,50).
In questa impresa, Del Giudice è dominato e soggiogato dallo spirito di contraddizione. Con assoluta esattezza, sostiene che la patria dello spirito di contraddizione è l’Europa: essa ha sviluppato tutte le antitesi possibili; le ha fatte vorticare e le ha messe in rapporto. «L’Europa ha vinto tutto e ha perso tutto, e in questo senso è unica: nell’aver conosciuto sino in fondo il diritto e il rovescio delle cose». Oggi, sostiene, questo spirito grandioso e paradossale è stato sostituito dalla semplice competizione. Non c’è più vera antitesi né vero conflitto. Ma io credo che Del Giudice abbia torto: oggi lo spirito di contraddizione continua ad inquietare l’Europa nelle sue maggiori esperienze.
Da un lato, Del Giudice fa progetti: dichiara le proprie intenzioni; fa considerazioni sull’atto di narrare; abbozza sistemi, che sembrerebbero possedere una consistenza. Ma, al tempo stesso, si augura che questi progetti falliscano, e con una fantasia precisa e meticolosa cancella quello che fa, distrugge il libro che con tanta pazienza ha costruito. Sabota la sua narrazione; o, per meglio dire, la circuisce; segue tutte le strade e tutte le possibilità, arrivando a risultati bellissimi. Mentre scrive, dice più cose contemporaneamente: appartiene a più tempi, ognuno dei quali quasi impercettibile, un nanosecondo, un miliardesimo di secondo, e distingue e riunisce tra loro tutti questi miliardesimi di secondo. Confronta la realtà e l’irrealtà, la possibilità e l’impossibilità, l’ombra e la luce, la quiete e l’inquietudine, la pace e la violenza, il movimento e la stasi. Ogni momento è sul punto di perdersi: salvo che unifica le contraddizioni e le antitesi in una sintassi malleabile e immobile.
* * *
Nel nostro mondo moderno, dove le cose sembrano accumularsi e accatastarsi — dice Del Giudice —, non ci sono più cose. Tutto quello che vediamo, tocchiamo, odoriamo, oggi è divenuto luce: una incessante irradiazione o fibrillazione. Un tempo, la luce cadeva dall’alto sul mondo, e lo illuminava come un faro, con le verità della filosofia e della teologia. Oggi le cose che teniamo in mano, o che vediamo in lontananza, sono sempre più fatte di quella sostanza primigenia, che è sempre stata considerata la luce. Quando vediamo un albero, un’automobile, una pietra, vediamo luce. E sono egualmente luce le idee, le sensazioni, i sentimenti, le parole che in questo momento Del Giudice adopera: la storia che sta raccontando, e i personaggi che a poco a poco fa uscire dal nulla. Ora essa è vibrazione indefinita, una architettura robustissima, ora l’empireo moderno.
La luce di ieri, la vedevamo brillare sul mondo: era il plein air impressionista, che i pittori inseguivano con migliaia di infimi tocchi, che alla fine si fondevano componendo un quadro unitario. La luce di oggi la scorgiamo solo in piccolissima parte: perché si nasconde gelosamente dentro le cose, forma la loro essenza e la loro sostanza. Per questo è così difficile rappresentarla, e Del Giudice è uno dei rari maestri del nuovo plein air. Solo una cosa si oppone e resiste a questa luce: il mondo subatomico, che coincide con la materia non rappresentabile. A meno che domani, alla fine di una grande rivoluzione conoscitiva, possiamo vedere anche lì, facendo scaturire la luce che emana dall’antimateria.
Del Giudice ama e venera la metamorfosi. Egli cambia pelle, muore, diventa il seme di grano che diventa spiga e, a sua volta, si trasforma in nuovo seme. È cangiante, volubile, molteplice: il suo volto guarda verso tutte le direzioni contemporaneamente: mai di faccia, sempre di profilo, secondo infiniti profili, che si rincorrono e si elidono a vicenda. Non ha nessun bisogno di esaltare il proprio spirito di fuga: così profondamente ne è prigioniero e vittima. Se lascia un luogo, lo tiene nella memoria: i momenti della memoria si inseguono senza fine, e corrono il rischio, a volte, di diventare un solo momento indefinito.
Mentre scrive, Del Giudice leva la terra sotto i piedi a ciascuna frase: la lascia aleggiare nel vuoto, come una specie di dirigibile, abolendo qualsiasi fondamento, riducendo la prosa a pura leggerezza: ma ciò significa, al tempo stesso, trovare un fondamento stabile e immobile. Così scrivere è fare continuamente naufragio; solo chi ha commesso naufragio arriva in porto. Nel secolo scorso, sono avvenuti grandissimi naufragi, nei quali si sono perduti il racconto, il periodo, la parola: enormi transatlantici verbali sono colati a picco. Secondo Daniele Del Giudice, a lui è rimasto da compiere solo qualche modesto naufragio; ed egli lo compie con scrupolosa coscienza, uno stile e una sintassi personalissime.
Del Giudice ha due passioni: quella dello sguardo e quella del volo. Ama lo sguardo dall’alto, sia da una fortezza del Rinascimento sia da una mongolfiera. E poi vola: si direbbe che scriva portando sempre le ali ai piedi, come Ermes, il suo archetipo e il suo antenato. Insiste su due fatti: niente è più innaturale e irreale e stravagante del volo: se vuole arrivare, il pilota deve mettere la prua dell’aereo in una direzione che lo porterebbe da tutt’altra parte; per non cadere, egli deve buttare giù il muso dell’aereo e farlo precipitare, controllando e accompagnando la caduta, in modo da riprendere velocità e riportare il velivolo in volo orizzontale. Volare non gli consente la pur amata visione dall’alto; ma soltanto la visione obliqua o prospettica o periferica, che egli tenta di imitare con l’andamento della sua prosa.
Infine, c’è un’ultima parola: il mistero. Tutti questi movimenti e queste visioni e queste contraddizioni devono produrre enigma, che il racconto rivela alla superficie, e insieme custodisce, avvolge nel nascosto, come se fosse la sua più grande ricchezza. Di un vero racconto, non possiamo mai esprimere il significato; e questa — pensa Daniele Del Giudice — è la sua più profonda bellezza.
Pietro Citati