Agnese Codignola, Nova, Il Sole 24 Ore 10/2/2013, 10 febbraio 2013
BIOBANCHE, UN DISCOUNT DI TESSUTI? [
Primo censimento su oltre 600 centri statunitensi: non hanno standard vincolanti a livello federale, eppure sono il cuore di un’industria in rapida ascesa] –
Una specie di discount dove si può trovare qualunque tipo di merce alle condizioni più disparate. Così appare il quadro di insieme delle biobanche statunitensi censite da uno dei primi studi sistematici mai compiuti sull’argomento, condotto dai genetisti dell’Università del North Carolina di Chapell Hill, e pubblicato su «Genome Medicine». I centri individuati su tutto il territorio nazionale sono infatti più di 600, ciascuno dei quali si regola come può o come ritiene opportuno, senza che vi siano standard da rispettare a livello federale.
Le biobanche esistono da alcuni decenni, ma la loro diffusione e diversificazione ha avuto un enorme impulso nell’ultimo decennio, da quando la decrittazione del genoma umano ha iniziato a far ritenere concretamente realizzabili le correzioni terapeutiche dei difetti individuati; da quel momento, è partita una vera e propria corsa all’immagazzinamento di pezzi e campioni di ogni genere, da utilizzare sia a scopi di ricerca sia per finalità curative (e spesso, negli Usa, commerciali, presenti o future). Così i ricercatori guidati da Gail Henderson hanno preso il telefono e chiamato 636 biobanche, intervistando per oltre mezz’ora i responsabili. Hanno così scoperto che circa due terzi dei centri sono stati fondati negli ultimi 10 anni, mentre solo il 17% ha più di venti anni di vita e può quindi garantire maggiore esperienza nella conservazione e nel trattamento di quanto custodito. Tra le biobanche, poi, cambia la finalità: più della metà è stata istituita per la ricerca o la cura di una specifica malattia, mentre una su tre non ha uno scopo specifico e immagazzina campioni per motivi vari che vanno dall’aver ricevuto un finanziamento ad hoc alla necessità di funzionare da centro servizi per un’università o un ospedale ai puri fini commerciali.
Altro elemento di estrema variabilità sono le dimensioni: si va da quelle che tengono meno di 500 campioni a quelle che ne hanno più di 500.000 (la media è 8.000), mentre per quanto riguarda questi ultimi, si può dire che non c’è pezzo del corpo umano che non sia rappresentato: oltre a sangue, plasma, urina e feci si conservano reperti solidi congelati o pronti per l’esame istologico, cellule di vari tessuti, il liquido cerebrospinale, il midollo osseo, unghie, capelli e, naturalmente, ogni genere di cellule staminali, in primis quelle derivate dal cordone ombelicale e ogni tipo di colture di linee cellulari, sane e no.
Uno dei dati più importanti, poi, riguarda il modo in cui sono stati ottenuti i campioni, perché è su questo punto che si concentrano molte delle discussioni in corso sulle biobanche e sulle norme che dovrebbero regolarne il funzionamento. Se infatti tre quarti dei reperti è stato donato spontaneamente, più della metà arriva direttamente dagli ospedali o dai centri di salute pubblica, è cioè quanto resta dopo un percorso di cura o una partecipazione a una sperimentazione (con il consenso di chi vi è stato sottoposto), mentre il 2% giunge da pratiche commerciali, ossia da "venditori" e una percentuale identica da associazioni di volontariato per la donazione di organi e tessuti. Infine, i finanziamenti per il mantenimento di strutture che sono molto costose arrivano da più fonti: il 57% dal governo, una percentuale simile dalle università cui le biobanche fanno capo, più del 60% dal pagamento richiesto per il servizio, dalla vendita di prodotti a esso collegati o di campioni e il 40% dal non profit.
La natura delle biobanche targate Usa è quindi ibrida sia per modalità di funzionamento che per finalità, e riflette l’organizzazione privatistica del circuito della salute. Secondo Henderson «le biobanche sono il cuore di un’industria nuova e in rapida crescita, il cui ruolo continua ad aumentare nell’ambito della ricerca biomedica, e sono collegate a ospedali e centri di ricerca in modi vari. Ciò rende la situazione molto complessa: ognuna di esse si è sviluppata in tempi e contesti diversi e ha una sua natura specifica, di cui non si può non tenere conto pensando a una maggiore standardizzazione, che pure è necessaria. È improbabile che si giunga a un unico standard, ma bisogna comunque intensificare le ricerche sui modelli più adattabili alle realtà esistenti, e implementarli». Ma questo non è l’unico aspetto da tenere in considerazione. Secondo il bioeticista Tom Tomlinson, della Michigan State University, bisogna pensare anche ai donatori. In un articolo pubblicato su «Hastings center Report», Tomlinson sottolinea infatti che chi vuole donare una parte del proprio corpo deve ricevere una documentazione esauriente e chiara sulle ricerche cui essa sarà destinata, soprattutto se si tratta di studi che possono suscitare controversie etiche e legali, e che chi dona deve essere messo nella condizione di poter ritirare il campione in qualunque momento, qualora si accorgesse che esso venga utilizzato per scopi che non considera opportuni.