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 2013  febbraio 10 Domenica calendario

CATAFALCHI, ARMATURE E PIZZI

L’immagine di Carmelo Bene consegnata alle storie del teatro è quella, ormai decantata, degli anni più maturi: il volto pallido di biacca, gli occhi bistrati, la camicia bianca con pizzi e jabot. Anche sul piano scenografico il suo percorso è passato dall’accumulo barocco di materiali e oggetti a un progressivo svuotamento dello spazio. Soprattutto la fase dei grandi concerti poetici non richiedeva che la sua presenza carismatica e un sofisticato impianto di amplificazione: l’idea stessa di phonè escludeva qualunque altro apparato esteriore.
Proprio questo, però, rende ancora più interessante un ipotetico viaggio tra gli strumenti di lavoro dell’artista. Vorrei quindi tentare qui una sommaria catalogazione degli arredi, delle suppellettili, dei travestimenti che hanno segnato l’avventura teatrale di Carmelo. Vado a memoria, un po’ alla rinfusa: ma per dare un qualche significato a questa elencazione tento di suddividerli in gruppi o categorie ricorrenti, nella speranza che questi accostamenti possano suggerire dei concetti, dei temi portanti del suo tumultuoso immaginario teatrale.
Il trucco: fra le invenzioni del passato, non si possono dimenticare le perle, le pietre splendenti fittamente incastonate, come sontuose decorazioni barbariche, nei lineamenti di Carmelo e degli altri attori de Il rosa e il nero, adattamento del romanzo gotico Il monaco di G.M. Lewis. Non si possono dimenticare i nasi finti un po’ mostruosi dei vari Pinocchi che ha via via affrontato, non delle mere escrescenze, ma un’autentica frontiera tra l’umano e il disumano. Folgorante, nello svuotamento delle convenzioni rappresentative, era la trovata per cui nell’Otello lui, bianco, era truccato da nero, e Jago era un nero truccato da bianco, ma nel corso dell’azione si scambiavano a poco a poco il colore, e macchie scure dilagavano come per contagio sulla pelle di tutti gli altri.
I costumi: negli anni, ce n’è stati di ogni foggia e stile, raffinatissimi o straccioni, dagli esotici mantelli optical di Erode nella Salomè al debordante corsetto tutto sete e gorgiere e riflessi argentei e grappoli di medaglie appuntate al petto dell’Otello. Fra i tanti, spiccano quelli con strane forme geometriche inserite nelle maniche o nelle spalle, cubi, parallelepipedi di impronta vagamente costruttivista, di certi personaggi dell’Amleto, forme che tornano poi enfatizzate nelle rigide tenute da giocatori di football americano indossate dagli attori della prima edizione de La cena delle beffe. Un caso a sé sono le splendide maschere da animali degli ultimi Pinocchi.
Le armature: a Carmelo è sempre piaciuto tutto ciò che impaccia, che toglie naturalezza ai movimenti del corpo. Ricorrono dunque spesso le armature medioevali, talora in uno stridente contrasto tra la nudità femminile e il corpo maschile imprigionato nel metallo. Leggendaria la scena di Nostra signora dei Turchi in cui tenta invano un frustrante amplesso con una serva, senza togliersi il suo rivestimento di ferro. Una situazione analoga viene sfiorata nel livido Macbeth Horror Suite, dove lui si china sulla Lady con una corazza tutta aculei e spuntoni, e impugna poi una pesante mazza che rimbalzando sul pavimento produce un rimbombo finto, amplificato, come finti sono i lampi, e il vento che solleva le tendine degli armadi-loculi ai lati del palco. Lo scudo di latta e il grottesco elmo con corna vichinghe sono anche gli attributi dello spettro dell’Amleto, dove a chiudere la vicenda è tuttavia l’altra e ben più minacciosa armatura vuota che evoca un cigolante Fortebraccio-robot.
Le bare, le croci, le decorazioni floreali esagerate dell’Otello o del Riccardo III, i sontuosi feretri dorati su cui si apre come un rito funebre quest’ultimo spettacolo, i candelabri, le fiammelle dei ceri fra cui gli appaiono le dolenti vedove del testo shakespeariano, nude e tentatrici, emblemi di una religiosità mediterranea funerea, esagitata, divisa tra le tentazioni della carne e i richiami dello spirito. Nello stesso ambito si collocano i bauli da viaggio in cui, alla fine, vengono sepolti tutti i personaggi dell’Amleto, e più ancora il paesaggio cimiteriale di marmorei angeli berniniani e monumentali tombe e statue di defunte che languidamente si rialzano nello straordinario Hommelette for Hamlet.
Le protesi: come non essere colpiti dall’ingessatura del polso, dalla finta gobba, dagli orridi guanti di lattice che rendono sempre più deforme un Riccardo III all’inizio normale? Come non cogliere un senso profondo nell’interminabile benda, dapprima insanguinata, poi via via sempre più pulita ("ferita era la benda e non il braccio") che si srotola nel Macbeth e ritorna in Macbeth Horror Suite? Un trionfo di protesi era la seconda, feroce edizione della Cena delle beffe, dove, fra carrozzelle da invalidi e busti ortopedici, un’attrice si spogliava svelando una falsa epidermide di plastica, che svelava a sua volta una falsa epidermide di plastica, e così via, senza mai arrivare al corpo vero: un’agghiacciante metafora dell’eclisse dell’umano, sostituito da bambole sinistre e ottusi androidi.
I letti, i catafalchi, i giacigli-sepoltura: sia Romeo e Giulietta che Otello e Riccardo III e Macbeth Horror Suite si svolgono ossessivamente attorno a talami più o meno infiorati e coperti di drappi.
Sono luoghi destinati a un rituale di vita e di sesso che, fatalmente, diventa sempre rito di morte, espressione di una contiguità non tanto fra eros e thanatos quanto tra pulsione e repulsione, tra desiderio e divieto di metterlo in atto.


L’ULTIMO DOMATORE DELLA TECNICA [ Seminava in chi lo ascoltava panico e rivolta. Senza le sue rotture non ci sarebbe stato il ’68. Lo ricordiamo per il teatro ma era geniale anche alla radio, al cinema, in televisione] –
Cosa mi/ci attrasse del suo lavoro, le prime volte che lo vidi/vedemmo, noi che eravamo suoi coetanei? La diversità, l’originalità, la bizzarria, l’irriverenza, la provocazione? Sì, ma c’era molto di più, rispetto alla curiosità che il suo teatro provocò nei migliori tra i suoi spettatori. Parlo per me, ma credo di interpretare la reazione di molti della mia/nostra generazione. C’era il panico, e c’era la rivolta.
Il panico: la capacità di Carmelo di costringerci alle domande ultime, nel rumoroso contesto degli anni del "miracolo" e della fine della civiltà contadina, dell’esplosione della modernità in un Paese ancora "arretrato" ma "in via di sviluppo". Il panico del Pinocchio beniano di fronte alla vita, all’umanità, alla società, alla Storia era anche il panico di chi accettava il nuovo ma faceva molta fatica ad appropriarsene, e in qualche modo ne diffidava. Era di chi cercava disordinatamente l’equilibrio tra il bene e il male, tra l’istinto e la ragione, tra le pulsioni distruttive e quelle costruttive dell’individuo, ma noi ci vedemmo anche il panico di chi voleva stare dentro il nuovo però indirizzandolo o sfidandolo. C’era in Carmelo molto di più, il panico di chi si affaccia alla Vita e alla Storia ponendosi quei "perché" dell’infanzia di cui solo i grandi hanno saputo e sanno ancora accogliere la sfida. C’era il panico, ma c’era anche la rivolta, la non-accettazione delle risposte convenzionali che ci venivano date nell’Italia del tempo, una non-accettazione che riguardava contemporaneamente uno stato delle cose "concreto" e uno stato delle cose "astratto", metafisico. È questo secondo aspetto quello più duraturo dell’opera di Carmelo, una sorta di inesausta interrogazione che collegammo senza sforzo a un’atmosfera generazionale internazionale.
Quando uscirono le memorie di Carmelo raccolte da Dotto, interruppi una sua invettiva contro il ’68 dicendo che non ci sarebbe stato il ’68 senza Carmelo, senza Godard, senza Julian Beck, senza la rottura portata prima nelle arti che nella società da una generazione stanca di inquadramenti ideologici, stanca dei super-io di un dover-essere tutto ideologico. La novità del ’68 durò poco, nel ritorno ai modelli partitici leninisti (e il ’77 fu un ritorno alla soggettività troppo tardivo per poter essere efficace). Carmelo era dentro la Storia e contemporaneamente se ne tirava fuori: si confrontava con la morte del soggetto, con un soggetto, se si può dire, assoggettato e perduto. In quegli anni è stato forse più avanti di tutti, vedendo più lontano, già avvertendo le mutazioni a venire, nel disfacimento delle speranze collettive in cui non aveva mai creduto.
La critica si è interessata al teatro di Carmelo più che al suo cinema, alla sua radio, alla sua televisione, campi in cui fu ugualmente geniale. Si combatte la tecnica con la tecnica, ci ha detto Carmelo, padroneggiandola e letteralmente domandola, non facendosene domare. La sua grandezza stava anche in questo, e non va dimenticato, in un mondo che allora e dopo ha idolatrato la tecnica nel suo asservimento al mercato (alla "comunicazione", alla "rappresentazione"), e non nella sua possibilità di venire invece asservita all’arte, alla ricerca e identificazione dei nodi irrisolti della condizione umana e, aggiungo oltre Carmelo, del peso dell’economia e della politica sulla vita dei singoli e delle comunità.
Mentre nel cinema la tecnica è diventata "effetti speciali", in teatro ha soppiantato l’attore, mettendosi ancora una volta a servizio della rappresentazione invece che applicarsi al suo smontaggio, alla sua distruzione, e un nuovo conformismo sembra attraversare oggi il teatro, anche quello che dall’ardimento di Carmelo aveva preso la forza per una ricerca e sperimentazione che ha avuto una grande storia negli ultimi lustri del ventesimo secolo. La sua dimostrazione che ben altro teatro da quello esistente si poteva fare ha liberato per un tempo molte energie in molte direzioni, ma non più in quella della ricerca sull’attore, dell’attore. L’attore è finito, o meglio: è finito l’individuo, sostituito nel mondo contemporaneo dall’automa, dalla marionetta. Ed è forse a questa coscienza, già intuita ed esplorata tanti anni fa da Pirandello, che bisognerebbe oggi tornare.
Una storia si è chiusa e ha vinto una post-modernità post-umana, alla cui impresa Carmelo – che era più "sociale" e "storico" di quanto non credesse e volesse – avrebbe forse saputo resistere proponendo una diversa post-umanità o ultra-umanità.
Questo non ha riguardato solo il teatro. Penso ai grandi personaggi della nostra cultura la cui scomparsa non è stata sostituita da nessun nuovo. Di questa storia restano nell’occhio, nell’orecchio, nella mente le opere che sono state una sorta di testamento per i loro autori, e la dimostrazione più acuta della difficoltà del presente, del mondo come abbiamo permesso che diventasse: la cupezza suicida di Salò e Petrolio, l’apocalisse discreta del Palomar, la sconsolata disperazione di Aracoeli contrapposta all’invito in Alonso e i visionari a tentare nuove frontiere aperte alla creaturale meraviglia del pianeta che è nostro, gli incitamenti ecologici degli ultimi versi di Zanzotto, l’invito ad ascoltare La voce della luna contro le chiassose "sagre dello gnocco" e della cultura. E l’ultimo lavoro teatrale di Carmelo, L’in-vulnerabilità di Achille: la tecnica asservita alla voce ma anche la voce che rischia di tacersi, la solitudine e il sentimento opprimente dell’assenza che premono per il silenzio. Il teatro (l’arte) pur sempre come filosofia e come religione. L’attore e infine la volontaria scomparsa dell’attore. L’inanità di ogni rivolta. Il buco nero di un linguaggio che non può o non sa più dire. Una lucidità agghiacciante e però malinconica. Il panico.


MA LUI ERA ANCOR PIÙ TRASGRESSIVO [ Grazie agli scatti di Abate, l’artista fu assolto dall’accusa, che era già leggenda, di aver orinato durante uno spettacolo sull’ambasciatore argentino] –
È proprio una delle foto inedite di Claudio Abate con le quali è stata costruita la mostra di Roma dedicata a Carmelo Bene – che si è chiusa domenica scorsa al Palazzo delle esposizioni di Roma – a sfatare (purtroppo) una delle leggende più radicate intorno alla figura di questo artista. Non era stato lui a fare pipì sul pubblico nel corso di uno dei suoi primi spettacoli in una saletta romana. A sentirsi colpiti dal getto del liquido organico erano stati l’ambasciatore argentino con la moglie e l’addetto culturale, ma l’azione irriverente era avvenuta in un momento di buio, e proprio quell’immagine, scattata col flash, rivelò in sede processuale che la responsabilità era di un altro attore, Alberto Greco, conterraneo degli spettatori irrorati.
Lo stesso Bene davanti alla sentenza di assoluzione esclamò: «Benedette foto!», e questo è il titolo che si è voluto dare all’esposizione romana. Le immagini raccolte in mostra e nelle pagine del prezioso catalogo edito da Skira, se pur sottraendo al Divino Carmelo questo dettaglio di giocosa trasgressione, lo ricollocano pienamente nel suo spazio artistico più pertinente, che è quello di una violenta e assoluta mancanza di rispetto, ben più profonda e radicale, verso le strutture, le maniere, le abitudini intellettuali e formali del teatro di quegli anni.
Abate ha conservato nel suo studio le vecchie pellicole e i provini, accantonati tra migliaia di altri documenti, e li ha recuperati proprio in questa occasione su invito delle curatrici della mostra, Daniela Lancioni e Francesca Rachele Oppedisano, fornendoci così dettagli visivi davvero sorprendenti attraverso i quali si possono ricostruire i primi anni di lavoro dell’artista, proprio quelli di cui si sa meno. A partire dallo spettacolo incriminato, Cristo 63, una performance sulla quale non rimane altra memoria storica se non quelle immagini e qualche cronaca giornalistica. Il fotografo e l’attore si erano conosciuti nel 1959 in un bar romano frequentato dai giovani artisti, in via del Babbuino. Abate aveva sedici anni, ma già uno studio in via Margutta, ed era presente e attivo nella vivacissima vita artistica della Capitale, affascinato dal mondo dell’arte ma attratto anche da tutti i nuovi fermenti della ricerca teatrale.
Carmelo, ventiduenne, viveva in quell’anno il suo rapporto tempestoso con l’Accademia d’Arte Drammatica, istituzione che finirà col sospenderlo, spingendolo ad allontanarsene definitivamente. I due si frequenteranno per un po’ di tempo, e questo ci permette oggi di osservare, attraverso gli scatti realizzati in quel periodo, gli esordi dell’attore, gli spazi angusti in cui allestiva le prime coraggiose operazioni, il pubblico di curiosi e di intellettuali e i primi segni scenici con cui Bene si esprimeva, ma arrivano anche a farci vedere l’artista durante le prove a casa sua, e persino il suo volto fermato in alcuni efficaci ritratti, realizzati di nascosto, vista la ritrosia di Bene verso l’occhio della macchina fotografica. Ma la carrellata di fotografie consente soprattutto di seguire il progressivo formarsi della coscienza artistica del creatore teatrale, dai primi tentativi fino a formulazioni sempre più definite, coscienti e incisive. «Sfrondare e devastare, fare il vuoto», indica Jean Paul Manganaro come scopo del teatro di Bene nel saggio in catalogo. Certo, ce lo dimostrano proprio le immagini, dalle quali si avverte anche il parallelo tentativo e il bisogno di ricostruire, di dar vita a un nuovo universo di relazioni e figure, generato per accumuli o accostamenti indebiti e poi di nuovo destrutturato, con un lavoro capace di agire su gradi sovrapposti di finzione.
Nel fare questo Bene decide di attraversare anche i livelli della propria esperienza umana. Eccola l’attrice e per lunghi anni compagna di Bene Lydia Mancinelli, come una madonna degradata che fuma e legge un rotocalco, in Nostra signora dei turchi, parabola sofferta e grottesca delle relazioni dello stesso attore con le sue donne passate presenti, e future, ma certamente fuori da autobiografie consolatorie, semmai su piani multipli di rovesciamenti e spiazzamenti, per sé e per lo spettatore. Ma è evidente che gli spazi e le dinamiche costruttive di Bene sono per lo stesso fotografo l’esercizio di una continua ridefinizione dei propri mezzi e delle proprie possibilità. Come dimostrano le immagini della prima Salomè "da e di" Oscar Wilde nel ’64, dove l’obiettivo deve pescare nel buio di quello spettacolo e cogliere il senso del suo stesso farsi sera per sera, mentre per la versione cinematografica del ’72 si trova a esaltare la fastosa dimensione visiva di quella che è una vera è propria scommessa sul colore e sulla luce, giocata, come dirà lo stesso Bene, «come il caleidoscopio dei bambini».