Gilberto Corbellini, Il Sole 24 Ore 10/2/2013, 10 febbraio 2013
DARWIN, EVOLUZIONE E COLLEZIONE [
Si stima che siano circa 3 miliardi, in tutto il mondo, i pezzi catalogati nei musei naturalistici. Non sono solo oggetti da osservare: hanno un valore economico e, a volte, aiutano i ricercatori nel progresso scientifico] –
L’autobiografia e la biografia, ricostruita ormai condettagli quasi quotidiani, di Charles Darwin lo descrivono da ragazzo come avido collezionista di coleotteri, nonché appassionato cacciatore di uccelli. A livelli talmente ossessivi da esser protagonista di episodi esilaranti, come quando perse tre preziosi esemplari perché, allo scopo di liberarsi una mano, se ne mise uno tra i denti, che gli spruzzò in bocca una sostanza acre, per cui il giovane Darwin lo sputò e nella concitazione perse tutte e tre le prede.
Il profilo comportamentale del nostro coincide quasi alla lettera (inclusa la passione per la caccia) con la caratterizzazione psicologica del collezionismo (in generale) come attività motivata da una pulsione incoercibile, spesso borderline, per il possesso e l’accumulo, che può essere fatta risalire a tratti atavici che predisponevano alle pratiche di caccia e raccolta funzionali alla sopravvivenza nel mondo pleistocenico. La collezione di coleotteri di Darwin si trova al Museo di zoologia dell’Università di Cambridge, insieme ad altri famosi esemplari che studiò per confermare la sua ipotesi della selezione naturale, tra cui i fringuelli delle Galapagos e i cirripedi. Il lavoro su quest’ultima, cioè la raccolta, pulizia e osservazione di cirripedi fossili e viventi lo indusse a dare un nuovo significato alla variazione individuale a livello fenotipico nel l’economia del cambiamento evolutivo.
L’esperienza di Darwin con le collezioni naturalistiche segna una svolta concettuale e metodologica radicale nel pensiero evoluzionistico, e rimane istruttiva rispetto al valore conoscitivo dei 3 miliardi di campioni ed esemplari che si stima siano raccolti nelle centinaia di musei naturalistici sparsi per il mondo. Collezioni che da alcuni decenni rischiano di andare perdute a causa dei tagli di finanziamenti e personale praticati da politici e amministratori poco lungimiranti.
I musei naturalistici con una grande tradizione scientifica, e che sono riusciti ad affrancarsi dal controllo universitario, cioè da una concezione purista e anticommerciale dell’uso delle collezioni, sono diventati sane imprese economiche. Si sono cioè ripensati in funzione di visitatori dei musei non più interessati a contemplare chilometri di vetrine che espongono un bottino che si apprezza soprattutto sul piano quantitativo o per l’esclusività, ma che risulta del tutto decontestualizzato e quindi privo di significati culturali qualitativamente esplicativi. Alcuni campioni delle collezioni possono essere usati per allestire scenari e percorsi teorici, cioè per raccontare storie, piuttosto che per illustrare a mo’ di catalogo la varietà e gli eccessi della natura vivente. Con il ricavato della vendita dei biglietti per visitare questi allestimenti, che si rinnovano continuamente, suscitano maggior interesse nel pubblico e sono più educativi, si possono mantenere gli immensi depositi che conservano i campioni per motivi di studio.
Così ha avuto luogo la metamorfosi a cui è andato incontro il Muséum national d’histoire naturelle di Parigi con l’apertura nel 1994 della Grande Galerie de l’Evolution. Le collezioni del museo sono tra le più ricche al mondo, con 75 milioni di campioni, di cui 40 milioni sono insetti. La Grande Galerie espone nella navata centrale e su tre livelli, per un totale di 6mila metri quadri, 10mila esemplari (di cui 3mila nella sola navata che illustra la diversità della vita a mo’ di scena da arca di Noè), attraverso i quali racconta l’evoluzione della vita sulla Terra e i meccanismi che ne hanno prodotto le diversificazioni e complessificazioni adattative.
L’uso delle collezioni per raccontare storie è ormai la regola nei musei naturalistici: dallo Smithsonian National Museum Natural History di Washington DC, che detiene il primato dei campioni conservati, cioè 124 milioni, al Natural History Museum di Londra con i suoi 70 milioni di campioni, al Naturhistorisches Museum di Vienna, fermo, ma perché gran parte della collezione zoologica degli Asburgo andò distrutta in un incendio nel 1848, a 40 milioni di campioni. Al di là delle storie che permettono di raccontare, le collezioni naturalistiche sono un patrimonio immenso di potenziali conoscenze di base e applicative. Si tratta di una realtà che discende filogeneticamente sia dalla tradizione delle «camere delle meraviglie» che alcuni monarchi rinascimentali – lo Studiolo delle meraviglie di Palazzo Vecchio, che Francesco I de’ Medici si costruì nel 1570 fu il prototipo – cominciarono ad allestire accumulando collezioni personali di stranezze esotiche che usavano per piacere personale o per sorprendere gli ospiti, sia da parallele collezioni create negli ultimi decenni del Cinquecento da autentici e ossessivi collezionisti, come Ulisse Aldovrandi a Bologna o Ferrante Imperato a Napoli, che erano già dei musei di storia naturale benché costituiti da oggetti eterogenei e da mirabilia. Aldovrandi ricreò un «microcosmo» o «teatro» della natura fatto di 18mila «diversità di cose naturali». L’aumento dei viaggi e degli scambi tra l’Europa e il resto del pianeta consentì ad alcune figure predisposte al collezionismo di creare delle vere e proprie biblioteche della natura attraverso l’accumulo di ogni genere di prodotti naturali o artificiali. Per avere un’idea di quei musei, si possono sfogliare i primi cataloghi: come Dell’historia naturale di Ferrante Imperato del 1599, o il Musaeum Septalianum (1664), che elenca i 3mila campioni del museo milanese di Manfredo Settala, o il Museum Wormianun seu historia rerum rariorum pubblicato nel 1665 dall’anatomista e antiquario danese Ole Worm. I cataloghi sono oggi consultabili nella biblioteca digitale di Googlebooks: un’opportunità da non sottovalutare, dato che una copia della prima edizione del Museum Wormianun è stata battuta all’asta da Christie’s sei anni fa per 3.600 sterline, mentre Dell’historia naturale costava 15.000 euro in una libreria antiquaria milanese qualche anno fa.
Fino a quando non è stata definita una nomenclatura in grado di generare un qualche ordine nelle collezioni, cioè fino a inizi Settecento, queste erano raccolte senza un senso conoscitivo generalizzabile, ovvero un misto di realtà e fantasie: delle cronache, piuttosto che storie del mondo naturale. La nascita di una tassonomia delle specie aveva come conseguenza che i musei diventavano cruciali per preservare gli esemplari originali, cioè i tipi che i naturalisti usavano come riferimento per dare il nome alle specie. Il numero più cospicuo di type specimens o tipi nomenclaturali lo possiede il National History Museum, che conserva ben 850mila esemplari.
Da metà Settecento i naturalisti cominciano a usare le collezioni di fossili per studiare la storia della Terra, rivoluzionando, cioè smantellando via via le credenze religiose e di senso comune sull’età del nostro pianeta e la fissità delle specie. L’osservazione delle collezioni di specie fossili e viventi aiutarono Darwin a immaginare il meccanismo dell’evoluzione biologica, e fu lavorando al riordino delle collezioni di uccelli al l’American Museum of Natural History di New York che Ernst Mayr concepì negli anni Trenta la teoria della nascita di nuove specie per isolamento geografico. Non è un compito facile estrarre le informazioni incorporate nei tessuti e nelle pietre dei campioni, nel senso che servono complessi apparati concettuali e tecnologici per produrre a partire dalle collezioni conoscenze astratte e digitalizzabili che possono essere elaborate e messe in circolazione. Da alcuni decenni si lavora a definire gli standard di catalogazione e raccolta di dati che consentano di integrare tutte le informazioni disponibili e ricavabili da collezioni naturalistiche pubbliche e private. Nel 1996 è nato il Consortium of European Taxonomy Facilities per sfruttare a scopi conoscitivi e pratici i 500 milioni di oggetti posseduti dai musei naturalistici europei. Da questo lavoro è nato nel 2001 il progetto Biocase (The Biological Collection Access Service for Europe, http://www.biocase.org/whats_ biocase/index.shtml), che cerca di unificare i dati distribuiti nelle collezioni e che interfaccia con la banca dati di Global Biodiversity Information Facility (http://www.gbif.org/). Dal 2008 è online l’Encyclopedia of Life (http://eol.org/) che idealmente aspira ad accumulare tutte le informazioni estraibili dalle collezioni naturalistiche per creare una pagina web per ognuna delle circa 1,9 milioni di specie biologiche conosciute, integrando fra loro ogni genere di dati: sequenze genomiche, risonanze magnetiche, filmati, disegni eccetera.
Sarebbe una catastrofe se i musei si liberassero dei loro animali tassidermizzati o tenuti «sotto spirito», anche quando tutte le informazioni zoologiche fossero catalogate in un formato digitale. Perché con lo sviluppo di nuove teorie e nuove tecnologie le informazioni potenzialmente significative e acquisibili aumentano. Per capire questo concetto si può pensare al fatto che da un reperto osseo di Neanderthal, scoperto nel 1856 e conservato al Rheinisches Landesmuseum in Bonn, qualche anno fa è stato possibile estrarre del Dna e dimostrare che Neanderthal fa parte di una linea evolutiva separatasi da Sapiens almeno 600mila anni fa.
Al di là del valore conoscitivo, le collezioni naturalistiche hanno un valore economico straordinario, come spiega la Society for the Preservation of Natural History Collection nata nel 1985 proprio per combattere il rischio di estinzione che stanno correndo importanti collezioni a causa dei tagli finanziari e di personale che quasi tutti i Paesi fanno. Quando circa trent’anni fa si cominciò a vedere che le collezioni naturalistiche erano percepite politicamente solo come costi, i britannici fecero una stima del valore commerciale delle loro collezioni naturalistiche, che ammontava a 370 milioni di sterline (al tempo il cambio sterlina/lira era intorno a 2.450). Le collezioni sono oggetto di scambi e prestiti e producono centinaia di pubblicazioni. Consentono inoltre di esaminare e capire i cambiamenti ambientali, incluso il clima, sul piano anche degli effetti che possono avere sull’evoluzione delle specie biologiche d’interesse per l’agricoltura. E possono, soprattutto, fornire informazioni utili per migliorare ambiente, alimentazione e salute. Cioè il benessere umano.