Gianfranco Ravasi, Il Sole 24 Ore 10/2/2013, 10 febbraio 2013
LA GOLA UCCIDE PIÙ DELLA FAME [
Oggi il digiuno è stato ridotto, da atto spirituale, a semplice dieta. L’astinenza dal cibo serve invece a esprimere autodisciplina e purificazione dello spirito da false necessità ] –
Lo scorso novembre un vescovo francese – a Roma per la cosiddetta visita ad limina coi suoi colleghi dal Papa – mi ha raccontato questo episodio. Invitato in una scuola durante una serie di presentazioni delle varie religioni, aveva aperto il suo intervento con una domanda rivolta ai ragazzi: «Che cos’è la Quaresima?» (era marzo e la domenica prima era iniziato appunto questo periodo liturgico che prepara alla Pasqua, la solennità centrale dell’anno cristiano). Si leva un mormorio tra gli alunni a prevalenza francese, ma con presenze di altre etnie. Alla fine un francese si fa coraggio e spiega: «È il Ramadan dei cristiani!».
L’episodio è emblematico di un’evoluzione socio-culturale: il paradigma di riferimento, in questa Europa snervata e smemorata, diventa esterno ed estrinseco, la comparazione che decifra la realtà non è più autoctona ma allogena. Proprio per questo, dato che i calendari rubricano ancora il prossimo 13 febbraio come il giorno delle Ceneri, l’inizio della Quaresima, vorrei proporre una libera considerazione non tanto su questo severo tempo liturgico prepasquale di quaranta giorni («quaresima» deriva dal latino quadragesima, «quarantesima»), ma su un aspetto che in passato ne era una componente significativa e, come vedremo, fa parte di un retaggio quasi universale, indipendentemente dalle specifiche confessioni religiose.
Intendiamo riferirci al digiuno, un vocabolo di matrice latina, jejunus, «affamato», dal quale deriva anche il suo antipodo «desinare» che è appunto disjejunare (si pensi al francese déjeuner, «far colazione»), cioè «rompere il digiuno». Nei Vangeli si ricorda che, alla vigilia dell’entrata in scena per il suo ministero pubblico, Gesù «digiuna quaranta giorni e quaranta notti» (Matteo 4,2), vivendo quindi una sua quaresima. Il verbo greco usato è nestéuein che ricorre 20 volte nel Nuovo Testamento, accanto a due sostantivi derivati, nestéia e néstis, presenti rispettivamente 5 e 2 volte. Nell’altra lingua biblica, l’ebraico, si usa invece la radice tzum che, come verbo e sostantivo, ricorre nell’Antico Testamento 47 volte e che è passata anche nell’arabo e all’etiopico come termine di uso solo religioso. Ma passiamo ora al merito del tema.
«Abbà Eulogio diceva al suo discepolo: Figlio, poco alla volta, esercitati a restringere il tuo ventre, grazie al digiuno. Infatti, come un otre disteso diventa più sottile, così ugualmente il ventre quando riceve molto cibo. Ma se ne riceve poco, si riduce ed esige sempre poco». Questa parabola dei Padri del deserto egiziano illustra in modo pittoresco la genesi ascetica del digiuno. Da questa che, come dicevamo, è una prassi universale si è ramificata una scelta religiosa che ha i suoi vertici sia nel Kippur ebraico, la grande giornata penitenziale dell’Espiazione, comprendente una totale astensione alimentare, sessuale e lavorativa, sia nel Ramadan islamico, uno dei «cinque pilastri» della fede musulmana, sia nell’interrotta tradizione cristiana.
La secolarizzazione moderna ha ridotto questo atto spirituale (prima ancora che corporale) alla dieta o, purtroppo, al dramma dell’anoressia. In realtà, tutte le grandi religioni sono fermamente convinte che digiunare è un atto di sua natura simbolico, nel senso più genuino del termine. Pensiamo solo alla lapidaria e incisiva dichiarazione del profeta Isaia: «È questo il digiuno che il Signore vuole: sciogliere le catene inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne» (58,6-7).
Oppure si pensi all’ironia di Gesù nei confronti di un’astinenza meramente ritualistica che ti fa «assumere un’aria malinconica, sfigurare la faccia». Ad essa egli oppone paradossalmente «il profumarsi la testa e il lavarsi il viso» (Matteo 6, 16-17), perché il digiuno non sia farsa, ma decisione intima che esprime autodisciplina, liberazione dal consumismo, dall’egoismo, dalla logica del possesso, dalle false necessità, ma anche purificazione dello spirito, controllo di sé, dominio dei sensi. Gli stessi Padri del deserto non esitavano a dichiarare che «è meglio bere vino con umiltà che bere acqua con orgoglio».
Anche l’Islam, con la voce di uno dei suoi grandi maestri mistici, al-Ghazali (1058- 1111), ammoniva che il vero digiuno è astenersi dai peccati della lingua e degli altri membri, anzi è liberarsi da «tutto ciò che non è Dio». Persino la tradizione indù con Gandhi – che aveva dimostrato anche l’efficacia "politica" del digiuno – si muoveva in questa linea: «Il digiuno non ha senso se non educa alla sobrietà e se non è accompagnato da un costante desiderio di autodisciplina. Colui che ha soggiogato i sensi è il primo e più importante tra gli uomini. Tutte le virtù risiedono in lui».
Come corollario, si dovrebbe rispolverare quella quarta virtù «cardinale» che è la temperanza: è interessante notare che nella tradizione cristiana (ma già nell’etica stoica si registrava un’analoga scelta) questa virtù era chiamata enkráteia, cioè «dominio di sé, autocontrollo», oppure sophrosýne, «saggezza, moderazione», esercizio corretto dei pensieri e delle passioni. La perversione del corretto uso del cibo è, comunque, la connotazione più popolare della temperanza. Il pensiero corre a quel film potente e funereo che Marco Ferreri ha girato nel 1973, La grande abbuffata, riedizione più pesante della cena di Trimalcione del Satyricon di Petronio.
Quattro amici si avviano verso un cupo suicidio attraverso un’orgia di cibo e di sesso, consumata in una sorta di "ritiro" (non certo spirituale) in una vecchia villa parigina. Moriranno affogati da carni, dolci e vini uno dopo l’altro (gli attori Tognazzi, Mastroianni, Piccoli, Noiret) in un macabro rituale officiato dalla "sacerdotessa" Andréa Ferréol.
Ebbene, la temperanza alimentare è, certo, sobrietà, controllo delle pulsioni, dominio dei sensi e dignità personale, ma deve diventare soprattutto espressione positiva della carità, come ammoniva nella sua Lettera san Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi! ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?» (2,15-16). L’appello alla moderazione è, dunque, necessario, come appare dalla consegna che san Paolo rivolge al discepolo Tito: «Esorta i più giovani a essere sobri, offrendo te stesso come esempio...» (2,6-7).
Ma non si tratta che di una prima tappa interiore, come aggiunge san Pietro: «Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pietro 4,7). All’ascesi personale della sobrietà si devono associare la carità fraterna e la spiritualità. Proprio per questa sua dimensione positiva implicita, la temperanza non è masochismo, né ascetismo acido e cupo.
Essa partecipa più dell’equilibrio generale della persona, è segno di sereno distacco e di dignità interiore e comportamentale ed è per questo che nel Talmud, la grande raccolta delle tradizioni giudaiche, si legge che «la gola ha ucciso più uomini che non la fame», nella consapevolezza di essere di fronte a una degenerazione morale più che a un fenomeno fisiologico quando si viola la temperanza. Non per nulla il cristianesimo autentico – non quello fortemente influenzato da prospettive platoniche – ignora il disprezzo del corpo e del cibo, tant’è vero che Gesù è ritratto spesso dagli evangelisti mentre è a mensa, a tal punto da essere bollato dai suoi avversari come «un mangione e un beone» (Matteo 11,19). E san Paolo non esitava a suggerire al discepolo Timoteo di non rinunciare a «un po’ di vino a causa dello stomaco e delle frequenti indisposizioni» (1 Timoteo 5,23).