Antonio Gnoli, la Repubblica 10/2/2013, 10 febbraio 2013
UGO GREGORETTI
[“Ero pigro e pluriraccomandato ma ho cambiato la storia della tv”] –
Ugo Gregoretti è il signor perbene. Lo ascolti parlare e hai l’impressione di un uomo accarezzato da una strana compattezza. Da una solidità che non confisca, non penalizza, non incute paura né provoca ansia. Qualcosa, per intenderci, che sfugge alle regole della pesantezza. È vaga, problematica, mite. E penso che l’ossimoro — ossia quella condizione un po’ paradossale per cui si è preda di una palese ma feconda contraddizione — abbia segnato la vita di quest’uomo del quale ho appena finito di leggere un intrigante zibaldone: Scritti scostumati (appena apparso da Guida editore).
Gregoretti è stato la televisione intelligente e ironica. Dice di non esserne pienamente convinto. E che quella nomea di garbo e finezza che si è trascinato appresso non l’abbia poi così aiutato: «Avrei dovuto essere più cattivo, più truce, non trova?». E non è un rimpianto, ma una leggera e divertita constatazione.
Che fa rigetta l’immagine di buono e ironico dello spettacolo?
«Buono, non direi proprio. Ironico, lascerei che siano gli altri a dirlo».
Come si definirebbe?
«Sono uno che non ha mai preso troppo sul serio quello che ha fatto. Che ha evitato, a differenza di tanti colleghi, il rischio dell’autocelebrazione. Anche se la cosa che riesco a fare meglio è parlare di me».
Anni di introspezione?
«Anni di parole inseguite e pronunciate. Ma la psicoanalisi non è la mia tazzina da tè, come dicono gli inglesi».
Non crede nell’inconscio?
«Non ci credo. E mi comporto come con Dio. Se lui c’è, faccia il suo corso. Nessun bisogno che lo preghi o lo adori».
Un moderato ateismo.
«Ho frequentato per 13 anni le scuole dei gesuiti e qualche scheggia della morale cattolica si è conficcata nelle mie carni. Le confesso che non mi dispiace».
Quando è nato?
«Nel 1930. Fino a 14 anni a Roma. Poi, con la famiglia, ci trasferimmo a Napoli. Città affascinante, misteriosa, corrotta».
Anche agli occhi di un ragazzo?
«Soprattutto. Ero sedotto dagli aspetti loschi, dalla cultura del basso, umanissima e truffaldina, da quei cappotti confezionati con le coperte americane, ma tagliati da grandi sarti. Era la “Napoli milionaria”, raccontata da Eduardo. Comunque, qui finii il liceo e poi andai all’università».
Laureandosi in cosa?
«Mai arrivato alla laurea. Ho cambiato tre facoltà — architettura, giurisprudenza, lettere — e alla fine mio padre, ingegnere ed ex ufficiale di marina, una persona seria, come può immaginare, verificò la mia inconsistenza agli studi e decise che avrei dovuto trovarmi un lavoro».
Fu preso dallo sconforto, suppongo.
«Ero pigro e infingardo, ma anche lucidamente concreto. Dissi che se lavoro doveva essere che fosse almeno un’occupazione intellettuale. Papà parlò con il Coman-
dante Lauro, allora sindaco di Napoli e proprietario del quotidiano il Roma».
E che accadde?
«Mi spedì a Milano, dove aveva fondato un giornaletto analogo — La Patria — con un biglietto che sembrava quello scritto da Richelieu per Milady: “Assumete il latore della presente”. Per tutto l’inverno fui occupato come correttore di bozze. Poi, con l’arrivo dell’estate, il richiamo di Capri fu forte. Mollai tutto e tra un tuffo e l’altro cominciai a vagheggiare sulla mia vera vocazione: un posto in televisione ».
Non ho mai visto uno più spudoratamente candido di lei.
«Sono stato il prodotto di irresistibili raccomandazioni. Anche in Rai, nel lontano 1953, quando ancora la televisione era nella fase sperimentale e avevano chiuso le assunzioni, fui — grazie sempre a mio padre — messo al servizio del direttore generale di allora».
Lavoro intellettuale?
«Di segreteria. Poi riuscii a passare ai servizi giornalistici. E qui avvenne la svolta. Giro un documentario sulla Sicilia del Gattopardo e vinco il Premio Italia».
Sotto la scorza molle del raccomandato c’era il letterato sensibile.
«Molto più onestamente c’era una persona che non si vergognava più di quello che faceva. Anche se, devo confessare, di “marchette” ne ho fatte».
Un’affermazione rara. A quali pensa?
«Alludo principalmente alla pubblicità, ai Caroselli, di cui tutti i registi si vergognavano. Credo di essere stato tra i pochi a metterci la faccia. Del resto, la famiglia cresceva, occorrevano soldi e a quel tempo mi ero dedicato al cinema con risultati incerti».
Non era quel regista che avrebbe voluto essere?
«L’esordio fu incoraggiante. Girai I nuovi angeli.
Il film piacque a Rossellini che volle presentarlo a Cannes. Roberto era adorato dalla Nouvelle Vague. E in quel lontano 1961 beneficiai del clima positivo che si era creato attorno a noi. Pensi che un giorno arrivò a pranzo, invitato da Rossellini, un ometto vestito di nero, gli occhiali scuri e la barba mal rasata. Che si mostrò deferentissimo alle richieste di Roberto. Era Jean-Luc Godard».
Fu un battesimo sotto i migliori auspici.
«Ben presto cominciarono le difficoltà. La più grossa era dovuta alla mia origine televisiva. Tutti, o quasi, gli spocchiosi cineasti di allora consideravano la televisione un marchio infamante».
Chi non la riteneva degno?
«Mi vengono in mente Valerio Zurlini, Florestano Vancini,
Citto Maselli. Per anni mi hanno considerato un intruso, un abusivo. Una volta, pensi, ero al Rosati di via Veneto. Entra una comitiva e a un certo punto sento una frase che mi gela: “Ora fanno fare i film perfino a Gregoretti!”».
Chi la pronunciò?
«Fu Elio Petri».
Come reagì?
«Mi ferì moltissimo, ma feci finta di niente».
Con quale suo film se la prendevano?
«Con Omicron. La critica lo fece a pezzi. Il film tra l’altro era andato a Venezia. Per l’occasione il critico Giovanni Grazzini scrisse che erano 2.400 metri di pellicola da gettare nella laguna. L’altra fonte di sofferenza era il mercato. Al botteghino i miei film giacevano agli ultimi
posti».
Ha mai dubitato del suo talento di regista?
«Nel mio animo ho sempre pensato di averlo e lo penso tuttora. Ma mi sono anche chiesto se non sbagliavo. Alla fine ho smesso di fare cinema perché stoltamente ho creduto a critici e colleghi che, con maggiore o minore educazione, mi invitavano a tornare in televisione».
E lei tornò?
«Sì, e vissi questa scelta come una sconfitta. Una volta dissi scherzando a Corbucci, che era l’erede di un dinastia di salumieri, allora sbertucciato dalla critica e oggi riscoperto da Tarantino: Sergio, ma è possibile che nessuno ti dica ti tornare in pizzicheria?».
I suoi “spaghetti western” erano di grande successo.
«È vero, però la critica picchiò duro. Ad ogni modo torno in televisione e mi offrono di girare Il circolo Pickwick.
E realizzo una cosa in netta controtendenza con gli sceneggiati di allora».
Di nuovo lo spettro della stroncatura?
«In questo caso ci furono pareri contrastanti. Il più divertente, ma anche il più cattivo, fu quello espresso da Achille Campanile che svolgeva le sue critiche televisive su L’Europeo».
E cosa scrisse?
«Che aveva sognato Dickens che mi inseguiva con un randello nei corridoi della Rai, mentre io mi rifugiavo nel bagno dei dirigenti. Al contempo il Time dedicò allo sceneggiato un’intera pagina di elogi. Ettore Bernabei, il vero padrone della televisione italiana di allora, decretò che per cinque anni non avrei più dovuto mettere piede nell’azienda. Ecco, perché cominciai a fare marchette con la pubblicità».
E poi cercò protezione nel Pci.
«Perché protezione?».
Lei era un liberale che non si era mai occupato di politica.
«Ero un liberale di sinistra in pieno Sessantotto, con il Pci in grande trasformazione. In quel periodo realizzo un lungo documentario su una fabbrica occupata: l’Apollon. Il mio diventa uno dei rari esempi di cinema operaista. Insomma prendo coscienza che esiste un mondo diverso da quello al quale mi ero sempre rivolto».
E si iscrive al partito con una lettera di adesione che a rileggerla oggi è piena dei luoghi comuni di allora.
«Me ne ricordi qualcuno».
L’intellettuale borghese che abbraccia la nobile causa operaia. L’autocritica per certi suoi interventi “qualunquistici”. Mi chiedo dov’era finita la sua ironia.
«Era il 1970, scrissi una lettera molto ideologica, me ne rendo conto. Oggi è facile vederne il lato ingenuo. Allora, ci sembrava di partecipare a un grande progetto di trasformazione sociale. Si può dire tranquillamente o amaramente, dipende dai punti di vista, che non ce l’abbiamo fatta».
Come vive questi anni recenti?
«Sono entrato nell’ottantatreesimo anno e mi chiedo, con stupore, è possibile che ci si sia ridotti in questo stato? Ecco, qui ci vorrebbe l’ironia di Nanni».
Intende Nanni Loy?
«Sì, dietro un certo disincanto c’era in lui una vera passione civile. Quella dello scugnizzo un po’ attempato».
Viene da pensare che per molti versi eravate simili.
«C’era una grande intesa, anche professionale. Entrambi esplorammo le potenzialità di una televisione, come si dice in modo un po’ banale, “intelligente”. Il suo
Specchio segreto e il mio Controfagottone furono la prova più evidente».
Come vorrà essere ricordato?
«Come uno al quale dire: c’eravamo sbagliati sul tuo cinema. E poi sarei curioso di leggere qualche necrologio. Ho una debolezza puerile per quel genere di retorica».
Come vive il rapporto con la morte?
«Come quello con il Padreterno. Facciano il loro corso. Ci penso spesso, è vero, ma senza pathos. Ogni tanto faccio ipotesi su come dividere le mie cose tra i quattro figli. E poi le malattie da rintuzzare. Ho un’infiammazione al nervo sciatico che mi costringe in questo momento a spostarmi in carrozzella. Il corridoio di casa sembra il set di Shining».
La franchezza con cui si racconta è molto rara. Cos’è un modo di espiare le colpe?
«La colpa è un retaggio dei gesuiti. È il nostro modo di piegarci a volontà misteriose».
Dove è finito il razionalista?
«Lo sono meno di quanto sembri. Fin da bambino il mio punto di vista privilegiato era sotto il tavolo».
Sentirsi protetti è importante?
«Per me è fondamentale. Amo starmene a casa. Esco sempre più di rado. La pena che gradirei maggiormente sono gli arresti domiciliari».