Maria Pia Fusco, la Repubblica 10/2/2013, 10 febbraio 2013
CASA SORDI
Un vero teatro, una sala da barbiere, un’austera camera da letto. E poi crocifissi e madonne, quadri del ’600 e ’700, un De Chirico unica concessione alla modernità, quasi neppure la foto di un’attrice. La villa di via Druso all’Aventino, dove Alberto Sordi ha vissuto dalla fine degli anni ’50, era come una fortezza inviolabile, guardata dai romani con curiosità e rispetto. Pochi i privilegiati cui l’attore, scomparso dieci anni fa, dischiudeva il cancello del suo mondo segreto. La sua collaboratrice Paola Comin racconta che dovette aspettare un paio d’anni prima che Sordi, anziché farla attendere davanti al cancello per recarsi insieme agli appuntamenti di lavoro, la invitasse «su per un caffettino ». Ora la signorina Aurelia, come tutti chiamano la sorella del-l’attore, classe 1917, per la prima volta ha aperto la porta di quella casa perché Carlo e Luca Verdone vi girassero un documentario.
Alberto il Grande, questo il titolo del documentario, verrà proiettato a giorni. Quanto a noi lasciamo che le immagini inedite di quelle stanze, lo sfarzo degli arredi, la particolarità degli ambienti aiutino a restituire, insieme al racconto di chi nella vita dell’attore è stato a lungo presente, la complessità del Sordi più privato: quello che persiane quasi sempre abbassate lasciavano intravedere a pochi.
Arturo, l’autista
Ad accudire la signorina Aurelia e occuparsi di problemi domestici è rimasto Arturo Artadi. Aveva diciott’anni quando, appena arrivato dal Perù, entrò in casa Sordi. «Me ne stavo intimidito davanti alla cucina. “Sei Arturo?
Sicuro che sei peruviano?”, mi chiese per via del fatto che sono alto. A quei tempi portavo anche l’orecchino: “Che, sei recchione?”. Lo tolsi subito, lui apprezzò con un buffetto sulla guancia». Il lavoro era quello di autista: «Ma non sapevo guidare. “Ci penso io”, e per tre mesi mi diede lui lezioni di guida. Mi sgridava se sbagliavo, pacche affettuose se facevo giusto. Parlavo ancora poco italiano, ma una volta lo mandai a quel paese. La signorina Aurelia intervenne preoccupata. “Che è successo?”. “È successo che Arturo ha imparato l’italiano”, disse Alberto ridendo. Lo chiamavo Alberto, ma gli davo del lei». Si commuove Arturo quando pensa agli ultimi giorni trascorsi da Sordi nel letto di una clinica: «Mi prese la mano e mi guardò con affetto, come si fa con un figlio. Poi mi disse: “So’ stato bambino, uomo, e ora anziano. Fra un po’ me ne vado su. Pensa tu a mia sorella”. Ed è quello che ho fatto».
Carlo, l’allievo La casa di Sordi ha vissuto due vite, racconta Carlo Verdone: «Prima del ’72 era frequentata. Sergio Amidei, Sonego, Piero Piccioni, Fellini, la Masina, Monica Vitti, Franca Valeri: c’erano cene, incontri, proiezioni, sono stati invitati tutti i sindaci di Roma, tanti cardinali. Anche Walter Matthau e Jack Lemmon ci sono stati. Ma in quell’anno morì Savina, la sorella più grande, e da allora fine delle serate. La casa per Alberto diventò una rocca in cui rinchiudersi e isolarsi. Del resto, come tutti i grandi comici aveva un suo lato malinconico, e capisco anche il bisogno di silenzio per uno che per lavoro passa il tempo in mezzo alle cagnare. Io la sua casa la conoscevo solo in parte, il documentario è stata un’occasione per scoperte continue. Il teatro, per esempio, non sapevo nemmeno che ci fosse: una grande platea, un palco, la buca per il suggeritore, poltrone, luci, due proiettori. Ho scoperto la barberia: grande specchio, luci, poltrona da barbiere. E poi il roseto, la cucina immensa come quella di un hotel. La stanza in cui passava più tempo era lo studio. C’è la poltrona su cui, dopo la pennichella, leggeva i copioni. Mi ha raccontato Arturo, l’autista, che si precipitava nello studio ogni volta che sentiva un botto. Erano i copioni che Alberto buttava a terra: “Prendili, daje foco”, gli diceva. Serrande sempre abbassate e rigore: quella casa è il segno di quanto Sordi privato fosse diverso dall’immagine pubblica. Anche se, mi ha raccontato Pierina, la vecchia governante, la penombra era dovuta ai consigli dell’antiquario Apolloni, suo amico e insegnante d’arte. Gli aveva venduto molti degli arredi e dei quadri e diceva che per conservarli bene dovevano avere poca luce. Grandi quadri del Seicento e del Settecento, l’unico moderno è un De Chirico. Neppure una foto con le attrici, una sola di Soraya, con dedica. E poi immagini religiose, Giovanni Paolo II, crocifissi e tante Madonne. In giardino ce n’è una in una nicchia. Ogni mattina le portava una rosa, recitava una preghiera, poi andava a lavorare. La stanza da letto è la più spartana: il letto, una vecchia radio, niente televisore».
Ettore, l’amico «In quella stanza da letto tantissimi anni fa Sordi portò una ballerina delle Blue Bells, bellissima. E mi raccontò che la mattina la sorella Savina girava per casa ripetendo con intenzione “Lavarsi!”, “Lavarsi!”». È uno dei ricordi di Ettore Scola, che il primo incontro con l’attore lo ebbe nella casa più modesta di via dei Pettinari. «Solo dopo tanti film e tanto successo si comprò la grande villa con piscina di via Druso. Era una casa che incuteva rispetto». La leggenda narra che alla domanda “perché non ti sposi?” la risposta di Sordi fosse “ma che, ti vuoi mettere un’estranea per casa?”. «Era una frase che ripeteva spesso, lo divertiva. Faceva parte della sua personalità complessa, di una vita sempre in doppio gioco con se stessa. Tutto nasceva dalla consapevolezza di aver raggiunto successo e indipendenza economica eccezionali. Lo divertiva anche passare per avaro. Tutti, poi, abbiamo saputo della sua generosità e dei suoi lasciti. Ma quando uscivamo da un ristorante il suo gioco preferito era quello di aspettare che il guardiamacchine si stancasse di stargli davanti e rinunciasse alla mancia. Del suo successo anche economico voleva vederne i segni. La sontuosità della casa ne era una testimonianza. E così pure tutti quei quadri, quei mobili. Non ho mai capito se gli piacessero veramente o se appagassero solo quel desiderio di conferma».
Pierina, la governante
Nel 1953 Pierina Parenti aveva vent’anni e quando arrivò come governante a casa Sordi, ancora in via dei Pettinari, non sapeva in che modo avrebbe dovuto rivolgerglisi.
«Venivo dal paese, venivo da Piglio, nel Frusinate, e io il “lei” non l’avevo mai sentito. Alla fine Alberto mi disse “Fa’ come te pare, chiamami come ti viene”. Sono cresciuta con lui, e l’ho seguito con la sua famiglia nella villa di via Druso. Per le cene, ché all’inizio le faceva, avevo chiamato una cuoca del paese, ma quando stava da solo Sordi voleva soltanto gli spaghetti col sugo buono. Io gli tenevo in ordine i vestiti, le cravatte, le scarpette, gli stiravo le camicie. Era esigente, sì, ma con me aveva poco da ridire, neppure una grinza, e se mi faceva qualche rimprovero, offese mai, io comunque me lo prendevo. Tutto mi ricordo di lui, come parlava, come rideva, come certe volte gli piaceva di stare zitto. E tutto mi manca di lui, ma soprattutto che non lo vediamo più».