Alessandro Penati, la Repubblica 9/2/2013, 9 febbraio 2013
SE BANCHE E FINANZA BLOCCANO LA CRESCITA
IL PROBLEMA è la crescita.
Ma non c’è crescita senza un sistema finanziario che la sostenga e indirizzi il risparmio verso il capitale più produttivo. Eppure le riforme del sistema finanziario non sono sull’agenda di nessuno. Tengono banco i casi di mala gestione (Bpm, Mps, Fonsai) e il dibattito sulla responsabilità della stretta creditizia. Non si parla, invece, del problema delle banche italiane nell’ambito più ampio del funzionamento del sistema finanziario.
Il sistema finanziario deve incanalare le risorse alle imprese: per capirne il funzionamento bisogna osservare la composizione delle passività delle imprese. Nella tabella spiccano tre elementi, che danno la dimensione di una arretratezza che costituisce un vero tappo per la crescita.
Primo: meno di metà delle risorse che affluiscono alle imprese passano per il mercato finanziario (banche, intermediari, borsa, titoli di debito). Un quinto dei finanziamenti viene da fornitori e dipendenti (Tfr); un terzo sono capitali immessi nelle aziende dagli imprenditori stessi. Il nostro è ancora un mercato finanziario interno alle imprese, immagine speculare di un capitalismo privato a stretto controllo familiare e sottodimensionato. Il rapporto capitalizzazione/ Pil della Borsa (22%) è ai livelli del 1995; e di quelle azioni, meno della metà è flottante. Parmalat e Cirio hanno distrutto il mercato dei corporate bond; Lehman quello delle cartolarizzazioni.
La scarsa permeabilità dell’imprenditoria al capitale di rischio esterno, l’ossessione per il controllo, l’avversione a disciplina e trasparenza imposti dai titoli di debito, e la diffidenza nei confronti delle banche (che si manifesta nella prassi del multi-affidamento), limita le risorse disponibili alla crescita e le opportunità di investimento. Gli imprenditori, a ragione, lamentano l’inefficienza del mercato finanziario.
Ma viene prima l’uovo o la gallina?
Secondo: nonostante euro e globalizzazione, che hanno aperto le porte ai capitali stranieri, restiamo un’economia chiusa. L’afflusso di capitali è andato prevalentemente a finanziare lo Stato a basso costo (500 miliardi di Btp collocati all’estero dal 1999). Per investimenti esteri diretti siamo agli ultimi posti nelle classifiche internazionali. Ma invece di considerarlo una preziosa fonte di risorse, lo straniero è visto come colonizzatore che vuole arraffare le nostre aziende a prezzi di saldo.
Terzo: si è dato alle banche il quasi monopolio dell’intermediazione dei flussi finanziari, proprio quando il settore è entrato in un duraturo declino, amplificando così gli effetti della crisi sulla crescita economica. I rendimenti delle banche sono stati a lungo drogati da una leva eccessiva che ora il mercato e la regolamentazione impongono di ridurre. Un delevering che durerà a lungo. Inoltre, si è pensato di ridurre il rischio degli attivi bancari imbottendoli di titoli di Stato; col risultato di esporsi alla crisi del debito pubblico.
Le banche hanno investito massicciamente su una rete di sportelli capillare, che l’avvento di Internet ha però reso obsoleta. E puntano ancora sugli alti margini dei prodotti per i risparmiatori quando la stagnazione sta falcidiando il saggio di risparmio. Per potersi assumere il rischio di un’espansione del credito, dovrebbero recuperare rapidamente redditività con un drastico taglio di costi e sportelli. E accettare la disintermediazione (quindi un ridimensionamento), sostenendo la creazione di un mercato del credito non bancario attraverso cartolarizzazioni, cessioni di prestiti, e co-finanziamenti di bond alle imprese. È nel loro interesse, oltre che del paese. Ma non ne hanno il coraggio, la determinazione, i mezzi. Forse neanche la capacità.