Giordano Tedoldi, Libero 10/2/2013, 10 febbraio 2013
IN «A SANGUE FREDDO» CAPOTE MANIPOLÒ I FATTI
Come si sa la non-fiction novel, cioè il romanzo della realtà, basata su fatti veramente accaduti, ha un celebre padre: A sangue freddo, il capolavoro di Truman Capote uscito nel 1966. Capote raccontava il massacro, avvenuto sette anni prima, della famiglia Clutter, nel cui ranch penetrarono Richard Hickock e Perry Smith per rubare i soldi che credevano contenuti in una cassaforte. La dritta era arrivata a Hickock da Floyd Wells, un compagno di cella che aveva lavorato dai Clutter, e non era vera. Non trovando la cassaforte, Smith e Hickock ritennero di non lasciare testimoni: i quattro Clutter vennero freddati. Sul caso indagò il detective Alvin Dewey, che nel libro figura come un eroe senza macchia. Ma lo era davvero? E Capote raccontò tutta la verità, come disse sempre?
No. Un articolo uscito sul Wall Street Journal dimostra che, come tanti altri scrittori di non-fiction venuti dopo di lui, manipolò i fatti, fu parziale, e chiese persino, per la moglie del detective Dewey, un ricco contratto di consulenza con la Columbia, la casa cinematografica che adattò il film con la regia di Richard Brooks. Capote scrive che 19 giorni dopo il delitto,non appena un informatore fa i nomi di Hickock e Smith, il detective Dewey la notte stessa manda un agente nella fattoria dove uno dei sospetti vive con dei parenti. Ma un ex agente del dipartimento che lavorò al caso, Harold Nye, ora deceduto, ha lasciato scritto nelle sue memorie, custodite dal figlio (che è in causa col dipartimento che le ritiene di sua pertinenza) che questa è una balla. In realtà passarono cinque giorni prima che Dewey si convincesse che l’informatore diceva la verità: la sua teoria era che gli assassini (o l’assassino) fossero di Holcomb, la cittadina dei Clutter, e che si trattasse di una vendetta o di un regolamento di conti. Il procuratore Duane West, oggi 81enne, che ottenne la condanna a morte di Smith e Hickock, non è stupito dalla rivelazione; e ricorda che la prima volta che sentì parlare dei due sospettati, nell’ufficio dello sceriffo della contea, quando un dipendente dei Clutter che si trovava in carcere indicò la fotografia di Hickock, Dewey ribadì che «quelli non c’entravano niente», sempre convinto dell’idea di una ruggine tra abitanti di Holcomb.
Non è la prima volta che si mette in questione la veridicità del libro di Capote, ma i documenti ora emersi danneggiano non solo lo scrittore, al quale si perdona la libertà di presentare i fatti nel modo artisticamente più riuscito, ma il Kansas Bureau of Investigation, il dipartimento governativo che svolse le indagini che ha sempre sostenuto che In cold blood è tutto vero. Una copia del libro è persino esposta in una teca nel quartier generale del dipartimento, accanto alla pistola con cui vennero commessi i delitti. Inoltre, il Bureau ha sempre smentito di aver aiutato Capote nella stesura del libro, per accreditare l’idea che gli elogi che lo scrittore rivolge sia all’ufficio che al detective Dewey fossero disinteressati. Ma quando mai: Dewey girò a Capote un documento esplosivo come il diario della 16enne figlia dei Clutter, Nancy, con l’ultima annotazione pochi minuti prima che gli assassini facessero irruzione. E in una cartolina conservata nella New York Public Library, Capote chiede a Dewey (chiamato «Alvin») di inviargli alcune parti mancanti del diario, e «Alvin» subito esegue, come dimostra una successiva lettera di ringraziamento di Capote. I documenti dell’ex agente Nye confermano il trattamento di riguardo: Capote e la sua assistente, la scrittrice Harper Lee, poterono consultare i documenti sul caso per una settimana e intervistare gli assassini, cosa che Dewey di fronte ai media aveva escluso. In altre circostanze Dewey persuase testimoni cruciali a parlare con Capote. A quel punto sarebbe stato impossibile per lo scrittore dire che il detective Dewey all’inizio seguiva una pista falsa.