Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 10/2/2013, 10 febbraio 2013
“IO, INVIATO AL FRONTE, VOLEVO FARE IL CANTANTE LIRICO”
Vocalmente non sto molto bene. Vuole registrare lo stesso?”: la domanda non arriva da un tenore. Bensì da un giornalista, il più grande inviato di guerra tuttora in attività nonostante le ottanta primavere. Un cronista con un avventuroso passato da raccontare in tre lingue, le arie di Verdi come colonna sonora. Tutto accade tra vecchie Ministeriali americane – le lampade verdi da scrivania – e i legni della Sala Albertini di via Sol-ferino, dopo un giro nei corridoi dove chi lo incrocia lo chiama “maestro”. Ettore Mo è al Corriere della Sera da tutta la vita, senza esser-ci stato quasi mai: mappamondo stampato in testa, non è certo un giornalista “da tavolino”. Moglie inglese, tre figli, due nipoti, si divide tra la casa di Arona e Londra, naturalmente quando non è in viaggio: “Ho sempre avuto un’ottima salute”.
Voleva davvero fare il cantante lirico?
Allora, allora... Io sono nato a Borgomanero, in una famiglia povera: mio papà faceva l’operaio. Da ragazzo ero molto interessato all’opera, avevo anche una discreta voce tenorile, sa? Andai da un maestro a Padova: “Te gai una bela voce”. Così mi misi a studiare e contemporaneamente m’iscrissi all’Università: Lingue a Ca’ Foscari. Ma non avevo una lira, per mantenermi facevo l’accompagnatore in un istituto per ciechi. D’estate andavo a fare il barista in Inghilterra. Finché non mi sono reso conto che la mia voce non era eccezionale, come dev’essere per qualsiasi cantante. Ho cambiato piani e ho deciso che scrivere era il mio mestiere. Ho abbandonato l’università, ma intuivo che le lingue erano importanti così mi sono messo a viaggiare. Sono stato al Nord: a Stoccolma e perfino al Circolo polare artico. In Svezia facevo il lavapiatti, come tutti gli italiani. Ma anche il cantante in un night club...
Come Berlusconi!
Esatto. Nell’albergo dove lavoravo c’era un pianista siciliano che suonava, una sera accanto al piano ho accennato qualche romanza napoletana. E così mi ha portato nel suo club: avevo ben due lavori. Lì ho incontrato il proprietario di un albergo di Piteå, nel nord del paese: mi ha assunto per cantare.
Che canzoni erano?
Napoletane, tipo Funiculi funicula. Dopo un po’ le autorità svedesi mi hanno rimandato a casa perché non avevo il permesso di lavoro. A Parigi invece sono stato quasi un anno e ho fatto il cameriere, a Place de la Sorbonne. Andavo quasi tutte le sere a Montparnasse in un café dove c’erano Juliette Greco, Yves Montand e Sartre. Non potevo entrare, costava molto: li guardavo dalla vetrina.
Esordio giornalistico?
Letterario, più che altro: al Corriere dei piccoli, diretto da Mosca. Mi pubblicò due racconti, che facevo vedere a tutti per dimostrare che ero uno scrittore. A quel punto ho pensato seriamente di fare il giornalista. Leggevo il Corriere della Sera e mi piacevano molto i pezzi di Piero Ottone, allora era corrispondente da Londra. Lo chiamai. “Senta io vorrei fare il giornalista”. “Bene, bene. Vorrei sapere come scrive e cosa ha fatto”. “Ho fatto il liceo, mi sono iscritto all’Università, ho viaggiato tanto ma non mi sono laureato”. “Male, male. Scriva qualcosa sui suoi viaggi e me lo spedisca”. Mandai questi scritti insieme al mio itinerario, prima di imbarcarmi.
Imbarcarsi per dove?
A Londra non mi davano più il permesso di lavoro. L’unica possibilità era salire su una nave della marina mercantile britannica che faceva il giro del mondo. Quando sbarcai a Hong Kong trovai la risposta.
Se la ricorda?
La so ancora ancora a memoria: “Caro Mo, ho letto le sue cose. Lei sa tenere la penna in mano. Vedo che nel suo viaggio di ritorno c’è Napoli. Quando passa di lì vada a trovare il mio amico Giovanni Ansaldo, direttore del Mattino”. Scendo a Napoli, mi metto il vestito della festa e saluto i miei colleghi dicendo “Io vado a fare il giornalista”. Ma Ansaldo non c’è. Altro giro per il mondo, finché non torno a Londra dove mi aspetta una lettera di Alfredo Pironi che nel frattempo era diventato corrispondente al posto di Ottone. Vado da lui in Fleet street, alla sede del Corriere. Avevo 29 anni.
E qui finalmente i sogni si avverano?
Mah, veramente facevo il vice del vice del vice. Tanto che, per cinque anni, i miei pezzi erano quasi sempre firmati “v.” Una volta Gianni Brera, leggendo un mio articolo chiese in milanese: “Ma chi l’è chel fiol lì che scrive inscì ben...?”. Ma non me ne fregava niente della firma. Trovavo le notizie e gli altri le scrivevano. La prima volta che firmai feci comprare il giornale a tutti. Mio padre che andava in giro a dire che io facevo il giornalista e nessuno gli credeva, finalmente era felice.
Un abusivo come tanti?
In quegli anni, visto che me ne intendevo, andavo a intervistare i grandi della musica: Palcido Do-mingo e Pavarotti, di cui poi sono diventato amico fraterno, la Divina Callas, che però al Covent Garden mi rifiutò l’intervista. Dovevo fare l’esame e allora mi mandarono a Roma. Anche qui son rimasto quasi cinque anni.
Non male, la redazione romana del
Corriere...
Ma no! Mi avevano messo in esilio al Messaggero con cui c’era una specie di accordo: la seconda umiliazione. Telefonavo le ultime notizie della notte, come accadde nel 1970 per il delitto Casati Stampa. A Milano non volevano capire che era una notizia importante, ma certo allora mica potevo telefonare al direttore... Nemmeno quella volta ho scritto.
Poi, la sospirata Milano?
Sì, ma agli spettacoli, il direttore era Franco Di Bella. La mia firma saliva di prestigio con le interviste. Una volta arriva Richard Burton, vado al Grand hotel et De Milan. Chiedo alla reception di chiamarlo, ma lui risponde, come aveva già fatto con tutti, “niente interviste”. Me lo faccio passare: “So che lei è un grande amante di Dylan Thomas, come me”. E lui: “Please, come”. Salgo al terzo piano: alloggiava nella stanza dove era morto Verdi. Glielo dico. E lui: “Do you know the Quartet of Rigoletto?”. Ci mettiamo a cantare.
E quando diventa Ettore Mo?
Nell’estate del ’78 il direttore mi chiamò: “Hai il passaporto, vero? Lo sai che c’è la guerra civile in Libano? Abbiamo un corrispondente che non manda grandi notizie. Vai a dare un’occhiata”. Gli chiesi se era sicuro: “Io butto nell’acqua solo chi so che sa nuotare”. Partii. A Beirut cercai il corrispondente del Guardian. Gli confessai la verità: era la mia prima volta in guerra, lui mi aiutò moltissimo.
E poi?
Ci fu l’Afghanistan, il vero esordio. Da lì non ho mai smesso di girare. Questa settimana parto per l’Africa, ma devo ancora parlare con il direttore.
La volta che ha avuto più paura?
Sempre in Afghanistan, anni più tardi: andai a trovare Massoud, che in quel momento era ministro della Difesa, perché volevo intervistare Hekmatyar, il sanguinario capo dei mujahidin, suo acerrimo nemico. Massoud mi disse che non poteva darmi nessuna scorta. Vicino c’era un giovane giornalista afgano, mi chiese se poteva accompagnarmi. Quando arrivammo da Hekmatyar io e il ragazzo afgano facciamo due interviste separate e sulla strada del ritorno il giovane mi racconta che Hekmatyar gli aveva chiesto: “Chi ti paga per scrivere contro di me?” Lì comincio a preoccuparmi. Siamo quasi a Kabul, quando la nostra auto viene bloccata da due grandi jeep. Scendono uomini mascherati, prendono il mio amico afgano. Lui mi guarda e dice: “Ettore, this is the end”. In albergo scopro che è stato ammazzato (gli occhi azzurri si riempiono di lacrime, ndr). Sua sorella mi scrive ancora.
Conosceva la Fallaci?
L’ho conosciuta durante la guerra del Golfo. Era così odiata che quando entrò nella hall dell’albergo i giornalisti italiani, le voltarono le spalle. Era una donna indisponente, ma era la più brava: aveva due palle così. E che scrittura! C’era poco da fare con Oriana, quando arrivava lei in un posto fregava tutti.