Steffen Winter, il Fatto Quotidiano 10/2/2013, 10 febbraio 2013
QUADRI E GIOIELLI IL BOTTINO NAZISTA NASCOSTO NEI MUSEI [20
mila oggetti trafugati dal 3° Reich. Un braque comprato con i proventi di altre opere riciclate] –
L’oggetto numero 471/96 del Museo di arte moderna di Monaco di Baviera ha visto la luce del sole in pochissime occasioni speciali. È un orologio di platino tempestato di pietre preziose che sulla cassa reca la scritta “6 febbraio 1939. Con tutto il mio cuore A. Hitler”. Quel giorno Eva Braun, l’amante del Fuhrer, compiva 27 anni. Il prezioso orologio è registrato come “proprietà di Eva Hitler, nata Braun”. Il museo di Monaco ha in custodia una vasta collezione di preziosi appartenuti a Hitler e ad altri gerarchi nazisti.
Quello delle opere d’arte e dei preziosi accumulati dal Terzo Reich e di cui spesso non si conosce l’origine sta diventando per la moderna Germania un problema imbarazzante. Subito dopo la guerra la scelta fu quella di imballarli e dimenticarli in qualche magazzino.
Gli oggetti conservati nel museo di Monaco sono una minuscola parte dell’eredità lasciata dai nazisti alla Germania del dopoguerra. A settanta anni di distanza dalla fine del nazismo, lo Stato tedesco continua a detenere dipinti, tappeti, mobili, opere grafiche, sculture, argenteria, arazzi, libri e pietre preziose trafugati dalle truppe naziste. Secondo una stima si tratterebbe di circa 20.000 oggetti tra cui 2.300 dipinti senza contare le opere d’arte conservate nei magazzini dei musei di tutto il paese di cui non è mai stato fatto un censimento.
Non tutte le opere sono nascoste negli scantinati. Alcune fanno bella mostra nei musei, nelle collezioni private, nell’ufficio del presidente della Repubblica, negli uffici della Cancelleria a Berlino e nelle ambasciate tedesche. La realtà è che per quasi 68 anni i responsabili delle belle arti hanno fatto poco o nulla per risalire alla provenienza delle opere e restituirle ai legittimi proprietari.
Le reticenze dei cancellieri e i risarcimenti negati agli ebrei
Nessun cancelliere – da Adenauer ad Angela Merkel – è mai andato al di là dei rituali discorsi di commemorazione che si tengono ogni 9 novembre per ricordare “la notte dei cristalli” e nessuno ha mai fatto alcunché per restituire il bottino di guerra del regime nazista.
Ma c’è di più e di peggio: risulta che negli anni ’60 e ’70 sia il governo tedesco che il governo della Baviera misero in vendita opere d’arte della collezione di Hitler e di quella di Goering guardandosi bene dal far avere il ricavato ai proprietari o, quanto meno, alle organizzazioni ebraiche delle vittime della Shoah.
La conclusione è semplice: il modo in cui è stato affrontato il problema del bottino ammassato dai nazisti è stato e continua ad essere moralmente disastroso. Cinque anni fa è stato costituito un gruppo di lavoro con lo scopo di accertare la provenienza delle opere d’arte. Ma il gruppo – che riceve 2 milioni di euro l’anno di finanziamenti – ha solo quattro addetti e finora ha concluso ben poco.
Dal canto suo la “Jewish Claims Conference” (JCC) sottolinea che “c’è ancora molto da fare” in Germania. Ma come si è arrivati a questo punto? Gli alleati sapevano benissimo che c’erano cinque milioni di opere d’arte che dovevano essere restituite, tanto vero che nel 1945 costituirono un punto di raccolta a Monaco. Nel punto di raccolta cominciarono ad affluire opere d’arte, preziosi, gioielli, libri antichi. Gli americani catalogarono e registrarono tutto. Nei casi in cui la provenienza era facilmente determinabile, le opere vennero riconsegnate immediatamente. Ma nell’estate del 1948 gli americani incaricarono di proseguire il lavoro di catalogazione l’allora governatore della Baviera Hans Ehard che in seguito passò la mano al ministero degli Esteri a Bonn che prese l’impegno di risolvere il problema delle restituzioni entro la fine degli anni ’60. Impegno ovviamente disatteso.
Nel 1966 il ministro del Tesoro, Werner Dollinger, annunciò alla stampa che quasi 2.000 opere erano state distribuite a 112 musei tedeschi e che 660 dipinti erano stati affidati ad uffici pubblici e rappresentanze consolari all’estero. Così oggi negli uffici del presidente della Repubblica si può ammirare un secretaire della collezione Posse appartenuto personalmente a Hitler e in Parlamento fa bella mostra un Canaletto appartenuto al Fuhrer.
All’epoca il governo tedesco fece credere ai cittadini che il problema della restituzione era stato risolto. La realtà era ben diversa. Le varie commissioni non avevano mai svolto indagini accurate per risalire alla proprietà delle opere trafugate. Ma forse per capire l’origine del più grande furto di opere d’arte del secolo scorso è necessario riflettere sulla mania che i nazisti avevano per il collezionismo. Nel maggio del 1945 gli Alleati trovarono a Berchtesgaden, sulla Alpi bavaresi, due treni strapieni di opere d’arte. I treni erano stati costituiti su ordine di Goering che in questo campo gareggiava con Hitler. Sui treni scoperti a Berchtesgaden c’erano opere per un valore di oltre 600 milioni di marchi. In virtù di un accordo con gli Alleati, i patrimoni personali dei gerarchi nazisti andarono al Land nel quale erano stati rinvenuti e a fare la parte del leone fu la Baviera dove avevano nascosto i loro averi pezzi grossi come Goering, Rudolf Hess, Heinrich Himmler e Julius Streicher.
Il comportamento del governo della Baviera fu estremamente discutibile e censurabile. Pochissime opere d’arte furono restituite ai proprietari o alla Fondazione per il risarcimento delle ingiustizie naziste, come in teoria prevedeva la legge. Esemplare in tal senso il caso Auerbach. Phillip Auerbach, presidente dell’Associazioni comunità ebraiche della Baviera, era sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald e si occupava di risarcimento delle vittime della Shoah. Il 10 marzo del 1951 fu arrestato e accusato di truffa, interesse in atti di ufficio e corruzione. Un tribunale composto da magistrati che erano stati membri del partito nazista lo condannò a due anni e mezzo di reclusione. Due giorni dopo il 45enne Auerbach si suicidò. Una commissione di inchiesta del Parlamento lo riabilitò due anni dopo. Oggi sulla sua tomba si legge “ha aiutato i più poveri dei poveri ed è caduto vittima del suo dovere”.
Il patrimonio di Baviera e la cleptocrazia hitleriana
Come emerge da una mole di documenti, il Land della Baviera – cosa questa denunciata da numerose organizzazioni ebraiche – ostacolò deliberatamente la restituzione dei preziosi e delle opere d’arte e in questo quadro vanno inserite le false accuse mosse ad Auerbach. Basti un dato: dal 1953 al 1957 Conservatore dei beni culturali della Baviera fu la stessa persona che aveva ricoperto quella carica prima del 1945: Ernst Buchner, definito dallo storico americano Petropoulos “esponente della cleptocrazia hitleriana”.
Il governatore della Baviera Alfons Goppel, già membro delle SA, fece vendere 106 dipinti di dubbia provenienza. E il ricavato? Fu investito nell’acquisto di altre opere d’arte. Una vera e propria operazione di riciclaggio non di denaro ma di opere d’arte. Esattamente in questa maniera il Museo d’arte moderna di Monaco acquistò “la donna col mandolino “ di Georges Braque.
Emblematico il caso di Heinrich Hoffmann, fotografo personale di Hitler dal 1923. Grazie ai suoi rapporti con Hitler entrò in possesso di un ricco patrimonio di opere d’arte. Dopo la guerra Hoffmann trascorse cinque anni in prigione. Fino al 1956 si batté contro il provvedimento di confisca delle sue proprietà e alla fine gli fu permesso di conservare il20% del suo patrimonio. Ma nell’ottobre del 1956, con una decisione che definire sorprendente è il minimo , il ministero delle Finanze della Baviera ordinò “di restituire a Heinrich Hoffmann tutte le opere d’arte che gli erano state illegittimamente confiscate”.
I tedeschi potrebbero fare ancora oggi quello che a suo tempo fecero gli austriaci: vendere all’asta tutti i beni di incerta provenienza e distribuire il ricavato alle vittime del nazismo. È una ipotesi che merita di essere discussa.