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 2013  febbraio 10 Domenica calendario

MAIORCA, IL ROSSO E IL MARE “NON SONO UN SUPERUOMO”

Nemmeno Luc Besson nel suo Le grand bleu ha saputo tradurre la straordinarietà di un uomo come tanti. Lui dice che è stato fortunato anche, che non era invincibile, che sarebbe stato un rischio altrimenti. Lui dice che è stato consapevole, che si trattava di limiti e basta. Lui crede di essere un uomo comune, dentro una storia speciale. Lui è Enzo Maiorca.
L’UOMO dei record. Immobile, fissa oltraggiato il profilo della città, oltre le mura del poggio, il Castello di Eurialo, da cui ogni tanto le cime della grande montagna, i contrafforti dell’Etna, la costa , il mare a nord delle ciminiere, si lasciano scrutare, quando i veleni delle fabbriche di Siracusa lo permettono. Una volta il mare non era di nessuno (e dunque era nostro era di tutti), nemmeno dei pescatori, dei marinai, quelli che raggiungevano le lontananze turchine, “i mari ri fora a fora”, i marinai che “guardavano verso la terra, che la intuivano guidati dal fuoco del Mongibello, la fiamma contro le nuvole”, dice il subman. Il mare è un tempio, il tempio di colui che il mondo ha chiamato superuomo, sul quale lo studioso Fraser concepì la teoria del blood shift: scivolamento ematico, lo scudo capace di proteggere dalla pressione idrostatica l’uomo in apnea; pressione pesante come una macina, un giogo, che aumenta di una atmosfera ogni 10 metri, che stritola uno squalo di acciaio come un sommergibile, ma non l’uomo in apnea. Scivolamento del sangue, liquido ematico che confluisce dalle estremità periferiche, mani e gambe, al cuore, ai polmoni. E’ la soluzione, non un battito che l’Altissimo non voglia, una lacrima, una gioia. “Non ci sono superuomini – dice – Io non lo sono stato, non lo sono. Il superuomo casomai vola da una vetta all’altra, soffrendo. L’uomo comune no, io sono un uomo comune”. Un uomo comune che ha battuto i 100 metri di immersione in apnea a 58 anni. Era il 1989, a largo della costa di Fontane Bianche.
Quest’uomo comune ha salvato il mondo, salvando un delfino, ad esempio. Acque del Porto Grande, primi anni ‘80, giù di lì. In barca ci sono Enzo Maiorca e le figlie Patrizia, l’amata Rossana, l’amico di sempre, il pescatore detto “Pippo ventidue”. Il delfino avvicina l’imbarcazione, appare abbastanza agitato, sembra invitarli a seguirlo, si allontana, poi si ferma e aspetta. Maiorca e le figlie, pinne e maschera, decidono di andare, lo seguono, fino ad un punto preciso, lì il delfino si immerge, Maiorca e le figlie fanno lo stesso. A circa quindici metri di profondità, Maiorca individua un piccolo fagotto grigio, incastrato nella maglie terribili della cosiddetta spadara (un tipo di rete fuorilegge), mentre accanto palpita il delfino che fermo rimane in quota, fluttuando con le pinne pettorali. Il fagotto è la sua compagna, Maiorca taglia la rete, riesce a liberarla, come barellieri, la conducono in superficie, il delfino non li perde d’occhio . In superficie, il fagottino continua a fremere, con il cuoricino che ansima, ai limiti dell’asfissia, quindi sbuffa un getto di acqua mista col sangue e in quello stesso momento partorisce il piccolo delfino. La famiglia è salva, anche il mondo. Enzo Maiorca non vuole smettere di salvarlo. Oggi con la figlia Patrizia vorrebbe liberare da altre reti insidiose la costa che contiene la riserva marina del Plemmirio. Un francese, spiega Maiorca, voleva costruirci sopra un megavillaggio. Forse la loro battaglia ha sortito un qualche effetto, il marchese, cioè il francese, dice Maiorca, si sente gabbato, gli hanno venduto un terreno agricolo spacciandolo per edificabile. Le macchine del cemento non sono ancora entrate in riserva, sicché. La riserva è la madre di ogni equilibrio, non solo marino, finanche terrestre, vaglielo a spiegare al marchese. I sentieri di vegetazione nella rarissima roccia sono esemplari da World Heritage List, se ne sono accorti? Maiorca spiega che nell’idea originale, il Marchese avrebbe realizzato (perché no) un’isola artificiale, nel bel mezzo dell’oasi. In riserva, certo. E’ uno scherzo? No, affatto. Salvare il mondo così non è più solo affare personale, con Maiorca arriva una vera e propria sollevazione popolare. Sapete perché? Perché i siracusani vorrebbero andare al mare, quando c’è bel tempo magari, senza vincoli di vassallaggio con bei pedaggi da pagare ai signori dei resort del relax e del divertimento.
IL DELFINO è stato liberato, la riserva non è ancor detto. “Non sono disarmati, non del tutto” riflette il subman. Quando quest’uomo comune, che molta scienza ha voluto straordinario oltre ogni ragionevole dubbio, infilò gli abissi per la prima volta, accadde in una grotta, che chiamavano la Grotta del Sole, allora quest’uomo inforcò gli abissi in cerca degli altari segreti del Supremo Architetto, cercava Dio e trovò due coni di luce che erano fori frastagliati sulla volta della caverna, dentro cui giacevano i raggi del sole, una lama dentro il blu più denso e misterioso che avesse mai visto.
E DIO era in quei colori, nella veemenza di un silenzio. Due coni di luce intatta e ripida tagliavano il buio di netto. Era la metafora della vita stessa, il trionfo del bene sul male, della resurrezione sulla morte. La luce era Dio. La grotta non era così lontana dalla riserva marina, la grotta è franata, consumata dagli acidi riversati in mare dai cospiratori del progresso. Forse la vita di quest’uomo è una lunga liturgia, è sì la storia di un uomo speciale, a lui è stata offerta la possibilità di intercettare nel-l’infinitamente piccolo, negli abissi e nelle lontananze turchine, una lezione intima e morale, il mare, la via sull’infinito. Dio.