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 2013  febbraio 10 Domenica calendario

IL TOTÒ DELLA BOCCONI E GLI AFFARI CON IL MONTE

[Proto, l’ex venditore di enciclopedie che annuncia acquisti di giornali e grandi investimenti, è inseguito dalle indagini] –

Milano
Finalmente un’operazione, tra le tante annunciate e non realizzate, in cui ha messo davvero le mani. Peccato che sia una brutta faccenda di intermediazioni (anche) con Montepaschi, che gli è già costata un’indagine per riciclaggio in Svizzera. Alessandro Proto, trentottenne milanese che esibisce studi in Bocconi e sedi a Milano, Lugano, Londra e New York, secondo i magistrati elvetici aveva strani conti, alimentati “mediante bonifici di terzi, con la specifica ’acquisto azioni Mps’”.
DA MESI Proto spunta in ogni operazione finanziaria. Dice di aver rastrellato il 2,8 per cento di Rcs-Corriere della sera. Dice di aver fatto un’incursione in Unicredit. Dice di avere acquisito azioni Fiat, Tod’s, L’Espresso, Mediaset. Dice di aver provato a comprare il quotidiano il Tempo e di aver messo sul piatto 150 milioni di euro per acquistare La7. Si era presentato come il cavaliere bianco pronto a risolvere i problemi della Fonsai di Salvatore Ligresti. Ha detto di aver ricevuto da Silvio Berlusconi il mandato a vendere una villa a Cannes. E nel suo sito sciorina foto di ville da sogno e immobili di lusso che sarebbero nel suo portafoglio.
Sempre pronto a salire sull’onda mediatico-giudiziaria del momento, in passato ha fatto trapelare di essere in gara per comprare il San Raffaele. E ora sostiene di essere interessato a una quota di Montepaschi, tanto da aver proposto alla Fondazione di Siena un piano per diluire il suo controllo sulla banca. Abituato a stupire con effetti speciali e sempre alla ricerca di stratagemmi per far parlare di sé, ha annunciato anche di voler comprare il quotidiano Pubblico di Luca Telese e perfino una fettina del Fatto quotidiano, quella messa in vendita dall’azionista-editore Francesco Aliberti. Per ampliare l’effetto mediatico, nel dicembre scorso ha provato anche a candidarsi alle primarie del Pdl, poi tramontate.
LA PARLANTINA non gli manca. Ha fatto il venditore di enciclopedie Garzanti e sa come convincere il cliente. Peccato che i soldi per fare tutte le mirabolanti operazioni annunciate non li ha mai fatti vedere. Dice: “Non sono soldi miei. Io gestisco il denaro di importanti investitori italiani e stranieri”. Ma anche qui, mai un nome. Fantasmi. Per l’operazione Rcs, nel-l’ottobre scorso ha detto di aver riunito quattro finanzieri esteri che gli avrebbero affidato 30 milioni di euro. Chi sono, non l’ha mai comunicato, eppure per entrare in società quotate in Borsa la trasparenza non è un optional. Di solito annuncia di restare sotto il 2 per cento, proprio per non essere obbligato alle comunicazioni Consob. Si è comunque attirato una lunga serie di esposti e denunce, tra cui quelli di Consob e di Mediobanca. La procura di Milano sta indagando da tempo per una sfilza di reati che fanno sembrare Proto, più che un finanziere rampante di Wall Street, un Totò che vuol vendere il Colosseo. Lui si presenta così: “Vendo la mia persona ad altre persone che cercano buoni investimenti. Vuoi costituire società all’estero? Vuoi aprire un trust? Vuoi investire in società quotate, in imprese, in immobili? Noi siamo qua”.
La mirabolante Proto Organization, la Proto Consulting e i suoi uffici all’estero restano un castello di carte. L’unica cosa certa sono le ipotesi d’accusa su cui sta indagando il pm milanese Isidoro Palma: truffa, aggiotaggio, bancarotta. Le indagini stanno cercando di verificare non soltanto le sue comunicazioni al mercato, ma anche l’unico business vero che Proto sta facendo: il fondo Caronte, lanciato nel 2010. Il nome non è proprio scaramantico, ma evoca bene la realtà. È un fondo “salvaziende”, va predicando Proto, capace di far arrivare soldi freschi e sonanti nelle casse di imprenditori in difficoltà. Quelli che ci sono cascati non solo non hanno visto il becco di un quattrino, ma hanno dovuto loro sborsare soldi, incamerati e fatti sparire da Proto. “Spese per avviare le pratiche dei finanziamenti”, dice il Totò della Bocconi. Alcuni gli hanno consegnato poche migliaia di euro, 5 mila, 7 mila, altri si sono svenati consegnandogli anche 2 o 3 cento mila euro. Quattro imprenditori che si sono sentiti truffati hanno presentato denuncia alla procura di Milano, ma ce ne sono altre decine che stanno decidendo se credergli ancora, sperando di essere salvati dalle sue fantastiche promesse. Lui però esibisce una corposa rassegna stampa, con articoli tratti dai più grandi quotidiani italiani, che lo consacrano finanziere forse discutibile, ma alle prese con i più grandi affari italiani. Come non credergli? Proto fa circolare la voce di avere tanti soldi e di essere pronto con questi a comprare di tutto. In realtà, non paga neppure la pubblicità dei suoi prodotti finanziari. I soldi, lui, non li dà. Li prende.

DOVE C’È MEDIOBANCA C’È UN GUAIO [Mps, Telecom, Fonsai: la via crucis dell’impero fondato da Cuccia] –
La riunione del cda Telecom Italia di giovedì scorso ha confermato che il potere di Mediobanca sul capitalismo italiano è in declino. Renato Pagliaro, presidente della banca d’affari fondata da Enrico Cuccia, è stato di fatto messo in minoranza da consiglieri in gran parte designati da lui: il presidente di Telecom Franco Bernabè è riuscito a far passare il dimezzamento del dividendo, cioè a far prevalere gli interessi dell’azienda su quelli dell’azionista dominante. E Mediobanca non è riuscita a fare fino in fondo i suoi interessi a danno di quelli generali.
UNA SVOLTA? Sì e no. Perché ormai da tempo Pagliaro e Alberto Nagel, i due dioscuri di piazzatta Cuccia, incassano una sconfitta dietro l’altra. Telecom, ma anche Monte dei Paschi, Unipol-Fonsai , Generali. Tutte le grane portano a Mediobanca. E l’antica stanza di compensazione della finanza italiana non ha ancora finito di soffrire. Con l’impatto devastante della crisi, che trasforma gli attori di sistema in grandi creditori a rischio rimborsi, il capitalismo di relazione si sta rivelando un boomerang per il principale crocevia di interessi e di potere.
I primi scricchiolii sono arrivati con la crisi di Fondiaria-Sai che ha messo in fortissimo allarme i vertici della banca per via del prestito da un miliardo concesso alla compagnia della famiglia Ligresti. Certo la fusione con Unipol, in cui Mediobanca ha fatto da regista, ha garantito il rientro dall’esposizione. Tradotto: ha salvato i quattrini. Ma non ha evitato all’amministratore delegato Nagel di finire indagato dalla Procura di Milano per un presunto accordo segreto sulla buonuscita milionaria promessa ai Ligresti.
“La vera storia e ricostruzione dei fatti e dei soggetti che hanno inciso sulla gestione di Fonsai ancora deve essere scritta”, ha detto qualche giorno fa il patron Salvatore Ligresti dopo l’azione di responsabilità decisa dalla compagnia nei confronti suoi e dei tre figli. Un messaggio che sembrava rivolto proprio al vertice di Piazzetta Cuccia. Segno che la telenovela delle nozze fra le due compagnie può riservare ancora dei colpi di scena.
Ma in queste settimane i nervi di Mediobanca sono scossi dalle notizie provenienti da Siena. Il terremoto giudiziario in casa del Monte dei Paschi viene seguito con estrema attenzione dai manager dell’istituto milanese, che nel 2011 ha messo sul piatto 60 milioni per partecipare, con un pool di altre dieci banche capitanato da Jp Morgan, al prestito in favore della Fondazione Mps. L’ente senese si è infatti indebitato per partecipare agli aumenti di capitale mantenendo il controllo sul Monte, di cui ha oggi poco poco più del 33%. Le azioni sono però in pegno allo stesso gruppo di banche creditrici, tra le quali Mediobanca. E la Fondazione non ha più niente da offrire in garanzia, tanto che sta per vendere un altro 10 per cento della sua partecipazione per fare contente le 11 banche che temono di rimanere col cerino in mano, cioè con il pegno di azioni che possono azzerarsi in caso di nazionalizzazione del Montepaschi.
NON È DUNQUE passato inosservato lo studio Mediobanca diffuso il 6 febbraio che analizza le opzioni strategiche delle big del credito francesi, compreso Bnp Paribas che in Italia opera attraverso la Bnl. Ecco il teorema: la Banca Nazionale del Lavoro al momento è troppo piccola per avere un impatto significativo sui profitti o sulle perdite della casa madre ma al contempo è anche grande abbastanza per incidere sulla qualità del profilo finanziario dell’istituto. Bnp, per Mediobanca, è dunque a un bivio: o vendere Bnl o crescere “per linee esterne” che, in questo momento, significa «comprare Mps». Il teorema è parso ad alcuni osservatori come il tentativo di spingere verso una soluzione di sistema, rispettando una vecchia tradizione italiana secondo cui è il sistema bancario che deve salvare se stesso. “Il ruolo di Mediobanca – spiega un banchiere - è cambiato rispetto al passato, prima rimetteva a posto i cocci e gestiva i problemi degli altri che ora sono diventati i suoi. Prima al massimo dava l’esempio, oggi non più. Salvando gli altri, cerca di salvare se stessa”.
Oggi la cosiddetta Galassia non basta più, anzi a volte diventa impegnativa, costosa, forse troppo. “Non è un caso – fa notare lo stesso banchiere – che quando Generali ha fatto capire che bisognava rafforzare il capitale e Mediobanca avrebbe dovuto metterci dei soldi, Pagliaro e Nagel si sono si sono opposti e l’aumento di capitale della compagnia ancora non si è fatto”. Proprio come in Tele-com Italia. Solo che il Leone di Trieste è stato per anni considerato il braccio armato di Piazzetta Cuccia.
IL NUOVO amministratore delegato Mario Greco, che dall’agosto scorso guida le Generali, vuole rilanciare la redditività del gruppo sciogliendo anche gli incroci azionari che lo legano invcestuosamente alle roccaforti del capitalismo: Pirelli, Telecom, Rcs e la stessa Medio-banca. Che con il suo 13,46% è il principale azionista della compagnia e sta diventando, in tempi di crisi, per Generali come per Telecom, un imbarazzante questuante di dividendi. Quelli che servono a Pagliaro e Nagel, nobiltà decadute, a far quadrare i conti di sistema.