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 2013  febbraio 11 Lunedì calendario

1963, LA MONTAGNA PARTORISCE LO PNEUMATICO

Saltavano giù dalle vallate, uno dopo l’altro. I primi erano andati in perlustrazione, con quello sguardo dei montanari che non credono alle favole, ma era vero: 8 ore al giorno, 60 mila lire al mese, la pensione, le ferie e la mutua; e cercavano proprio loro, proprio i contadini dei fondovalle, come fossero speciali! Così, a turno finito, potevi ancora dare una mano ai vecchi, aggrappati a quei declivi sempre più aspri con pecora e vacca nella stalla, i fieni ripidi da portare sul mulo e le galline da ingrassare per i signori. Ma d’ora in poi, altro che transumanze e acciughe sotto sale e parrucche da lavorare, per venderle alla corte d’Inghilterra! Altro che pascoli in alta quota, giorno e notte con le vacche degli altri, a contare le nuvole del cielo, aggiustati per due lire, fin da ragazzi! Otto ore e stop. Arriva la Michelin! E le ragazze ti sposeranno, adesso, che non ce n’è più nessuna che vuole starci a quella vita.

La favola della Michelin era cominciata così, mezzo secolo fa in provincia di Cuneo, una fabbrica grande come un paese, cento giornate di capannoni, con le villette dei dirigenti raggruppate tra gli alberi lungo la strada e il bar e la mensa come nei film.

Forse, nel piazzarla lì, i grandi capi non sapevano tutto. Non sapevano ad esempio che quella provincia era speciale, anzi unica: in cento anni, dal primo censimento all’ultimo, aveva a mala pena tenuto i suoi 500 mila abitanti, mentre l’Italia era aumentata di tre volte e persino i paesi più poveri del Sud avevano raddoppiato. Qui, invece, le bocche da sfamare erano rimaste quelle, perché, quando non bastava il pane, non si andava a protestare in piazza, ma si emigrava: in Francia o nella Merica, a cercare fortuna. Poi le guerre avevano completato la falcidie. E la Russia si era portata via una intera generazione. Per niente!

A Clermont Ferrand, forse, Robert Daubrée, erede di mezzo della dinastia proprietaria, non sapeva tutta questa storia, ma sapeva che gente attaccata al lavoro e senza grilli per la testa come a Cuneo non ne avrebbe trovata da nessuna altra parte. E questo gli era bastato.

Poi, il sindaco di Cuneo gli aveva spiegato che la politica parlava solo democristiano, che i comunisti erano «un corpo estraneo» e che quella era «l’isola felice», con le sue sei diocesi a far da salvaguardia morale e la campagna educata da Einaudi ai conti precisi e a spaccarsi la schiena sulla terra, magra o grassa che fosse. Ce n’era d’avanzo per i francesi, un po’ stufi degli scioperi di Torino Dora, il loro primo bastione italiano, chiuso, infatti, di lì a poco. Tutto bene, dunque? Tutti d’accordo? Per la verità, nella classe dirigente cuneese, un po’ di dibattito ci fu. Era proprio ilcasodidiresì?Enonsifacevailgiocodei comunisti a portarsi in casa i 5 mila operai previsti che, prima o poi, avrebbero potutointaccarelefedeltàconsolidatenel tempo? E l’isola felice avrebbe retto comunque o quell’offerta era un cavallo di Troia che l’avrebbe omologata ai ritmi e ai costumi disordinati degli altri? Poco prima, quei dubbi erano stati determinanti per respingere la proposta della Indesit,a Cavallermaggiore. Ma adesso, a favore del sì, giocò il patriottismo del capoluogo. Gli altri poli prosperavano: ad Alba, i Ferrero e i Miroglio stavano esplodendo, in pianura c’eranoleofficinediSavigliano,aMondovìsorgeva un’area industriale attrezzata, a due passi dalla Torino-Savona in costruzione. Cuneo non poteva permettersi di esser solo capoluogo istituzionale, chiusa nel cul di sacco delle Alpi, difficile da raggiungere, appena sopportata dalle sette città che per storia avrebbero potuto contenderle quel titolo, datole da Napoleone d’imperio, senza che nessuno, a quei tempi, potesse fiatare.

E bisognava rispondere alla fortuna e calare l’asso, perché quella fabbrica li avrebbe stesi tutti e avrebbe soffocato sul nascere le ambizioni egemoniche di chicchessia. Così si decise di partire e la scelta confermò le ragioni di chi ci aveva creduto: una pioggia di 5 mila miliardi di stipendi sarebbe calata su quelle terre, nel mezzo secolo di vita, e oltre mille miliardi sarebbero andati ai fornitori locali.

A perderci fu solo (solo?) la montagna e quel profilo di vecchia provincia che se ne andava.

In effetti, quando il primo pneumatico uscì dalla fabbrica, nel 1963, fu come uno spartiacque. Einaudi era morto da due anni nella sua Dogliani e Fenoglio da poche settimane, appena in tempo per lasciarci Una questione privata , il romanzo circolare perfetto della sua Resistenza. Cambiava un’epoca, ma a Cuneo in maniera speciale.

Proprio nel ’63, un Giolitti, non più Giovanni ma Antonio, stesso sangue, altro carattere, tornava a sedere al ministero del Bilancio. Continuità e novità, come nella vocazione vera della provincia. E a rimpiazzare Fenoglio si presentava Arpino che nell’ Ombra delle colline , proprio nel ’63, captava una sottile aria di colpa e di fine. Cui Lalla Romano, un anno dopo, dava un senso preciso: «il tempo meraviglioso era

quello di prima» ( La penombra che abbiamo attraversato ). Semplici coincidenze?

Nostalgia di un’arcadia immaginaria, o lamento plausibile? E le vallate avrebbero resistito se non fosse arrivata la Michelin?

Nuto Revelli non avrebbe avuto dubbi. C’era una colpa della politica nella resa di quei montanari che avevano sfidato i secoli. Ma non considerava che si era nel mezzo della più grande rivoluzione economico-sociale mai verificatasi: quella che avrebbe ridotto in poco più di vent’anni dal 56% al 6% gli agricoltori in provincia. Era già tanto che non scorresse sangue per le strade. E infatti il suo amico Manlio Rossi Doria osservava che, senza una agricoltura da reddito civile, nessuno avrebbe potuto bloccare quell’esodo. Semmai la Michelin aveva fermato i fuggiaschi a pochi chilometri da casa, operando da ammortizzatore sociale. Storia passata. Ora, le terre alte, come le chiamano, si sono un po’ risistemate e per fortuna niente della memoria di un tempo è stato perso. Perciò forse, nella crisi, ci sono le premesse per ripensare a un nuovo ruolo dell’agricoltura. E a Cuneo più che altrove.