Mario Deaglio, La Stampa 9/2/2013, 9 febbraio 2013
UN’OCCASIONE CHE DOBBIAMO COGLIERE
Dopo oltre ventiquattr’ore filate di trattative difficili, l’Europa ha raggiunto un accordo non scontato in partenza. Il che è certamente positivo. Si è però scoperta sempre più pragmatica e sempre meno idealista, potremmo dire sempre più «democristiana» nel senso che nessuno esulta e nessuno piange, nessuno ha stravinto e nessuno esce da questo confronto veramente sconfitto. Tranne, forse, l’idea stessa d’Europa ormai piuttosto lontana da quest’Unione Europea nella quale il compromesso sembra regnare sovrano, con tutti gli svantaggi che questo comporta in un momento di crisi quando sarebbero necessarie scelte di alto profilo.
I rigoristi tedeschi, per una volta d’accordo con i britannici (un asse BerlinoLondra che di fatto ha sostituito, almeno in quest’occasione, il tradizionale asse Berlino-Parigi) e con l’aiuto di qualche paese nordico, hanno fatto passare il principio che anche il bilancio dell’Unione Europea si può tagliare: la parola «austerità», finora sconosciuta, comincerà ad aleggiare nei palazzi di Bruxelles. I non rigoristi, ossia i francesi, gli italiani, gli spagnoli e molti altri hanno ottenuto che i tagli vengano effettuati in modo da non danneggiare le loro economie.
Si dovrebbe anzi, in molti casi, verificare un miglioramento nel rapporto tra i contributi che questi paesi versano e i fondi che questi paesi ricevono dall’Europa.
Per ottenere questo risultato, per accontentare tutti, almeno un poco si sono fatte due operazioni distinte: la prima è consistita nel trasferimento a un nuovo fondo, dedicato alla lotta contro la disoccupazione giovanile, di una parte dei fondi per lo sviluppo, il che significa che ciascun paese dovrà contare, più che in passato, sulle proprie forze per far crescere l’economia. Se non si farà attenzione, potremmo avere minore crescita e più assistenzialismo. Non è detto che questo sia necessariamente un male dato l’emergere di dure condizioni di povertà non solo in Italia o in Spagna ma nell’intera Unione, ma sicuramente non aiuta gli europei a cercare di mantenere il peso dell’Europa nel mondo.
La seconda operazione chiama in causa i «residui», ossia il fatto che non tutti i fondi stanziati per i prossimi cinque anni (la rispettabile somma di 960 miliardi di euro, contro 994 del quinquennio 2007-13) saranno effettivamente spesi (il tetto è stato posto a 908 miliardi, il 3 per cento in meno del quinquennio precedente). Che cosa effettivamente sarà speso e che cosa sarà rinviato, lo si vedrà in seguito. Per intanto, l’annuncio del taglio degli impegni fa contenti i rigoristi, la possibilità che i tagli alla spesa effettiva siano minori fa contenti i non rigoristi; e tutti possono tornare a casa con almeno mezza vittoria in tasca. Inoltre, la cancelliera Merkel può segnare al proprio attivo di aver fatto da mediatrice tra il primo ministro britannico Cameron e il presidente francese Hollande. Non a caso, la cancelliera Merkel è leader della democrazia cristiana tedesca.
Sembra far capolino, dietro ai grandi principi, l’esigenza di economie nelle «spese generali» dell’Unione, una vera e propria svolta culturale che coinvolgerà sia la burocrazia europea, molto efficace ma non certo a buon mercato, sia il Parlamento Europeo, piuttosto costoso, con la sua sede «staccata» di Strasburgo, e alla ricerca di un vero ruolo deliberante. Precisamente da questo Parlamento potrebbero derivare ostacoli all’approvazione o quanto meno un senso di fastidio nel dover approvare un accordo in cui non ha avuto molta parte: i leader dei quattro principali gruppi politici (popolari, socialisti, liberali ed ecologisti) hanno subito espresso forti critiche. Ben al di là delle semplici critiche potrebbero spingersi le modifiche quando dai grandi principi si passerà alle disposizioni attuative, scritte in carattere più piccolo: il diavolo, come dicono gli inglesi, potrebbe annidarsi nei dettagli ancora da mettere a punto.
Per l’Italia i risultati sulla carta sono positivi, in quanto il rapporto tra quanto il Paese versa a Bruxelles e quando riceve da Bruxelles pare destinato a migliorare sensibilmente. Attualmente siamo il Paese che contribuisce di più in percentuale del proprio reddito nazionale lordo (0,38 per cento, contro 0,34 per cento di paesi più ricchi e più rigoristi, come Germania e Finlandia) al bilancio dell’Unione e uno di quelli che ricevono di meno. Nel prossimo quinquennio, questo divario dovrebbe essere attenuato o annullato, un successo da non sottovalutare. Anche qui, però, il diavolo si anniderà nei dettagli: l’Italia dovrà «guadagnarsi» i fondi europei. Questa attività compete soprattutto alle Regioni che dovranno presentare progetti e rendiconti adeguatamente documentati secondo le minuziose regole dell’Unione che molte regioni italiane proprio non riescono a seguire. In sostanza, anche in quest’Europa dei compromessi c’è qualche buona occasione per l’Italia. Sempre che l’Italia la sappia cogliere.