VARIE 10/2/2013, 10 febbraio 2013
ROMA - Il barometro dei rapporti tra Mario Monti e il Pd in queste ore segna tempesta. Il professore dedica la domenica a diverse interviste tv e usa parole dure per il partito di Bersani
ROMA - Il barometro dei rapporti tra Mario Monti e il Pd in queste ore segna tempesta. Il professore dedica la domenica a diverse interviste tv e usa parole dure per il partito di Bersani. Innanzitutto sul caso Lombardia, dove alcuni montiani sostengono il candidato del centrosinistra Ambrosoli. Il premier dimissionario nega divisioni nella sua componente e dice no al voto disgiunto. "Non c’è alcuna spaccatura", ha detto a TgCom24, "siamo persone che pensano con la propria testa", ma l’opinione del presidente del Consiglio è che "coloro che votano per la Scelta Civica votino Albertini in Lombardia". Il professore ammette di considerare Maroni un pericolo per la Lombardia, ma aggiunge: "E’ stato molto coraggioso Albertini a mantenere la propria candidatura, malgrado le fortissime pressioni di Berlusconi. Credo che tolga più voti a destra che a sinistra, e aiuti a impedire che la civilissima Lombardia finisca nelle mani di Maroni. Albertini ha un’esperienza amministrativa e politica sicuramente superiore a quella di Ambrosoli che è certamente persona apprezzabile e apprezzata". Tornando sull’endorsement dei suoi candidati ad Ambrosoli, il professore ha aggiunto: "Votare, ciascuno può farlo come crede; quanto a pronunciarsi lo possono fare a titolo personale se ritengono che la loro posizione possa illuminare altre persone; ma se qualcuno vuole conoscere la posizione del responsabile di questo movimento politico questa è la posizione che ho enunciato". "Dignità al paese". Poi ricostruisce i giorni in cui è sceso in campo e lancia qualche attacco ai suoi avversari politici. "Quando sono stato chiamato non c’era grande volontà di occupare quel posto e chi c’era si era ritirato - dice - . Credo che come italiani abbiamo ritrovato dignità e credo l’orgoglio di essere italiani". Poi attacca gli altri leader che giudica "capaci di attacchi giornalieri che attirano l’attenzione, di affrontare problemi importanti con slogan brevi e incisivi non guardando alla sostanza, facendo promesse che sono accattivanti, ma che non saranno mantenute e se lo fossero renderebbero la situazione ancora più grave". "Non posso permettere, o meglio devo fare tutto ciò che posso per evitare, che sacrifici fatti siano bruciati da un falò di promesse elettorali". E attacca Berlusconi: "Il mio predecessore, che ritiene di essere anche il mio successore, continua a fare promesse, cercando di comperare i voti degli italiani con i soldi degli italiani". "Disponibile a un confronto tv". Sulla questione del confronto con i suoi avversari politici Monti dice: "Ho sempre detto che ero disponibile a ogni tipo di confronto, ma finora, non si sa per quale motivo, non è stato possibile, nessuno vuole questo incontro, eppure sono sicuro che i miei avversari eccellerebbero". Europa, "Per Bersani infantile dire vittoria di Pirro". Monti mostra di non aver gradito le parole pronunciate ieri da Bersani, sul vertice di Bruxelles sul bilancio. Così il suo commento è stato lapidario: "E’ stato infantile Bersani a dire che è una vittoria di Pirro, quella ottenuta sul bilancio Ue, se festeggia Cameron. Non lo è perché siamo l’unico Paese, con il Belgio, che ha visto ridursi di 5 miliardi in 5 anni il suo contributo", ha detto. Poi una stoccata al Cavaliere. "I risultati in Europa dello statista Berlusconi li conosciamo", ha detto Monti, "quelli di Bersani non ancora". E ancora: "E’ verissimo che in Europa temono il ritorno di Silvio Berlusconi, perché "ne hanno avuto abbastanza di un’Italia che rischia, con la fragilità politica, l’incapacità di decidere e l’indisciplina finanziaria, di mettere ancora a rischio se stessa, l’Eurozona e l’Europa". Quella del professore è una "grande delusione" per "la leadership politica di Berlusconi, che ha mancato tutti gli appuntamenti e ha tradito la rivoluzione liberale". "Nessuna affinità con Vendola". La critica al Pd oggi è andata avanti con nuove bordate a Vendola: "Non sento nessuna affinità per una sinistra che abbia una coalizione che includa questi elementi. Non credo siano a favore degli interessi dei lavoratori", ha sottolineato Monti tornando a escludere alleanze con Sel, perché le sue "rigidità" condannano "i giovani o alla disoccupazione o all’emigrazione". Poi, ancora più netto, rivolto al Pd: "Non sono sicuro che tocchi a me convincere Fassina o Vendola, ma quella coalizione può scordarsi che noi possiamo dare un apporto a una maggioranza e a un governo se non prevarranno posizioni di riforma e di proseguimento delle riforme anche nel mercato del lavoro". Insulti. Monti si è poi lamentato del clima della campagna elettorale. "Mi è capitato in questa campagna elettorale di essere insultato e aggredito. Mi dicono che sia normale. E’ una cosa che tempra il carattere. Cerco di non rispondere agli insulti, anche se talvolta mi sono lasciato prendere un po’ troppo da verve polemica, nella quale peraltro non eccello". Quanto al suo futuro politico, "manca poco tempo al voto, poi si vedrà", ha detto l’ex premier. "Escludo che il mio gruppo partecipi a operazioni che siano diverse dalla vocazione originaria", ha aggiunto, "cioè unire i riformatori". Infine, gioca sulle metafore da bestiario medievale dei giaguari e dei leoni (VIDEO): "Rendiamo trasparenti i camaleonti", ha detto inserendosi nella querelle tra Bersani e Berlusconi sul famoso giaguaro da smacchiare (VIDEO). SCALFARI SU REPUBBLICA MENTRE cominciavo a scrivere queste note mi sono arrivate due notizie: la prima è una dichiarazione effettuata da un gruppo di candidati nelle liste civiche di Monti che fa capo a Lorenzo Dellai, ex presidente della Provincia autonoma di Trento, che suggerisce agli elettori di votare Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombardia anziché il candidato montiano Albertini; uno stesso suggerimento era già stato dato da Ilaria Borletti Buitoni, capolista montiano in Lombardia per la Camera dei deputati. La seconda notizia è che Monti ha da parte sua espresso un parere contrario rilanciando la candidatura di Albertini alla Regione, anche se non ha alcuna possibilità di riuscita e giova soltanto alla eventuale vittoria di Maroni. Non è un bell’esempio di coerenza con gli interessi generali della democrazia e del paese. Ma veniamo ora ad un quadro più generale della situazione. Mancano 14 giorni al voto e la gente si è stufata della politica e di questa campagna elettorale. Lo leggo su molti giornali, ma è proprio così? A me non pare. Gli ascolti dei dibattiti televisivi sono alti; piazze e teatri dove parlano i protagonisti politici sono pieni; slogan, proposte, invettive, programmi, si incrociano; gli aspiranti a governare elencano i provvedimenti che intendono prendere nei primi cento giorni di governo. Le tifoserie sono mobilitate. Le persone che si incontrano si scambiano tra loro la domanda: come pensi che andrà a finire? E poi ci sono gli arrabbiati. La rabbia sociale non è un fenomeno soltanto italiano, c’è in tutta Europa, la rabbia, perché l’intero continente è in recessione, la recessione impone sacrifici, i sacrifici provocano sofferenza e rabbia, gli arrabbiati cercano i colpevoli, ma i colpevoli sono tanti e ciascuno sceglie il suo bersaglio. Vi sembra che tutti questi fenomeni diano un quadro di indifferenza? Gli indecisi sono ancora molti ma negli ultimi sondaggi risultano in diminuzione. L’astensionismo è valutato tra il 20 e il 25 per cento, più o meno come da molti anni in qua. Quindi non è vero che la gente si è stufata. è vero invece che questa campagna elettorale è tra le più agitate e confuse dell’Italia repubblicana. La conclusione è questa: il bipolarismo semplifica, il multipolarismo complica e la gente si disorienta. Non è indifferenza ma disorientamento, perciò la gente cerca a suo modo di semplificare. Il populismo è certamente una semplificazione. Avreste mai pensato un anno fa che sommando insieme Berlusconi e Grillo si arrivasse almeno al 40 per cento dei consensi registrati dagli ultimi sondaggi? Se non addirittura al 50? Berlusconi ormai promette la luna a ruota libera; Grillo lancia il suo "vaffa" in tutte le direzioni, sui partiti, sulla politica, sull’Europa, sullo "spread", sull’euro. Se sapesse che Aristotele enunciò la primazia della politica su tutte le altre attività dello spirito, il "vaffa" colpirebbe sicuramente anche lui. È possibile che metà degli elettori possano affidarsi a questi Dulcamara? È una semplificazione del tipo "fai da te"; gli schieramenti in campo sono troppi, le differenze tra loro sono sofisticate, il "fai da te" sceglie i due populismi che, ovviamente, sono contrapposti tra loro. Aggiungeteci la Lega che ha un solo obiettivo: conquistare la regione Lombardia e contrapporre la macro-Regione padana al resto d’Italia. Piemonte-Lombardia-Veneto detteranno legge al governo nazionale, quale che sia il suo colore. Ma aggiungeteci anche Ingroia che guida una lista molto minoritaria ma che può essere determinante in alcune Regioni, tra le quali la Lombardia, la Sicilia, la Campania. Determinante non per vincere ma per far vincere Berlusconi e la Lega. Analoga in quelle Regioni è la posizione di Monti. A chi contesta ad Ingroia questo gioco a perdere per far vincere il peggiore, la risposta l’ha data Marco Travaglio venerdì scorso a "Otto e mezzo": il risultato sarà un Parlamento ingovernabile e quindi una legislatura che durerà pochi mesi. Poi si tornerà a votare; forse allora saranno nate una nuova sinistra e una nuova destra, formate tutte e due da gente nuova, anzi nuovissima, alla politica. Dopo 70 giorni di campagna elettorale che sta per chiudersi, queste belle menti auspicano altri cinque mesi di paese ingovernato e altri tre mesi di campagna elettorale. L’Italia resterà dunque senza guida fino al prossimo ottobre con la prospettiva che nasca a quel punto una maggioranza Ingroia-Grillo. Nel frattempo il mercato avrà messo in mutande la nostra economia e quello che avanza di industria e occupazione. Complimenti di tutto cuore. * * * Per completare lo scenario che sta davanti ai nostri occhi bisogna ora spostarsi dall’Italia all’Europa di cui siamo parte integrante. Ci sono stati in questi giorni due fatti nuovi: il Consiglio dei primi ministri dei 27 Paesi aderenti all’Unione europea e il Consiglio d’amministrazione della Banca centrale (Bce). Il Consiglio dei ministri e la Commissione si sono incontrati a Bruxelles e hanno discusso per 25 ore di seguito, senza dormire e mangiando qualche panino. Anche lì c’era molta confusione, ciascuno aveva i propri interessi da difendere, magari a scapito dell’interesse generale europeo. Alla fine è stato trovato un compromesso che si può riassumere così: gli interessi dei singoli Paesi membri sono stati tutti parzialmente soddisfatti e, infatti, le decisioni sono state votate all’unanimità come è previsto poiché ciascun Paese ha un diritto di veto e l’unanimità è quindi indispensabile. Ma sono stati pagati due prezzi molto alti per ottenere questo risultato: il bilancio europeo, che avrebbe dovuto essere largamente aumentato, è stato invece tagliato rispetto al bilancio in vigore da sette anni. Il Parlamento europeo, anch’esso quasi all’unanimità, si è però opposto a questo taglio e ha messo il veto a quel compromesso. La questione è dunque aperta ed è della massima importanza. Basteranno due cifre per dare l’idea concreta del problema: il bilancio federale degli Usa rappresenta il 22 per cento del Pil americano, il bilancio dell’Unione europea rappresenta invece l’1 per cento del Pil dei Paesi confederati. Il secondo prezzo pagato a Bruxelles riguarda la politica di crescita economica, per altro da tutti auspicata a parole però, perché non un centesimo, non un provvedimento, non un’idea che rilanci la creatività è stata messa sul tavolo, se non la raccomandazione ad accrescere la flessibilità dei sistemi economici. Monti è tornato a casa con un piccolo tesoretto di quasi quattro miliardi di euro. Non è molto ma nemmeno poco. Sul resto nulla poteva fare da solo e nulla ha fatto. * * * Mentre queste cose accadevano a Bruxelles, a Francoforte Mario Draghi ha messo a fuoco una questione della massima importanza. Riguarda il tasso di cambio euro-dollaro che ormai da molti mesi si è apprezzato a favore dell’euro toccando il suo massimo di 1,36 dollari per euro giovedì scorso. Ma il giorno dopo è intervenuto Draghi ricordando che la Bce non può intervenire sul mercato dei cambi perché il suo statuto non lo prevede. La Bce ha due soli compiti: garantire la stabilità dei prezzi e assicurare al sistema bancario la necessaria liquidità. L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro - ha detto Draghi - è un fatto positivo in questa fase di crisi economica perché è il segno che molti investitori acquistano euro dimostrando con ciò di avere fiducia nella moneta europea piuttosto che in altre valute. Tuttavia - ha proseguito - un eccessivo apprezzamento dell’euro potrebbe abbassare il tasso di inflazione al di sotto dell’attuale livello del 2 per cento che è ritenuto ottimale per la stabilità dei prezzi. Se da questo livello si dovesse scendere nei prossimi mesi verso l’1 per cento, ci si avvierebbe verso una fase di deflazione con un mutamento negativo nella stabilità dei prezzi. In questo caso, intervenire sul cambio estero rientrerebbe nei compiti statutari della Bce che è pronta a farvi fronte. Risultato: dopo quell’intervento puramente verbale, venerdì il cambio è sceso all’1,33 rispetto al dollaro. Draghi ha confermato così la sua capacità tattica e strategica per salvaguardare il sistema dal punto di vista della politica monetaria, tenendo aperta la porta ai governi affinché prendano le necessarie decisioni per rilanciare l’economia reale. Purtroppo alla sagacia di Draghi non fa riscontro una altrettanto viva sensibilità dei governi per l’interesse generale dell’Europa. * * * Mi permetto di suggerire ai lettori il film dedicato a Lincoln: racconta come e con quali prezzi la confederazione degli Stati Uniti d’America diventò uno Stato federale. Per realizzare quest’obiettivo, senza il quale la storia del mondo sarebbe stata completamente diversa, fu necessaria una guerra civile durata quattro anni con seicentomila morti, più della somma dei morti americani nelle due guerre mondiali del Novecento. E, come non bastasse, anche l’assassinio dello stesso Lincoln tre giorni dopo la vittoria e la firma della pace. L’Europa ha già pagato un prezzo altissimo di sangue, versato in secoli di guerre tra gli Stati europei. L’ultima di esse ha fatto addirittura 41 milioni di morti tra militari, civili e genocidi orrendi. Da questo punto di vista abbiamo larghissimamente pagato e infatti da allora l’Europa ha trascorso quasi 70 anni in pace. Ma l’Europa federale ancora non è nata. Non abbiamo molto tempo per farla nascere; l’economia globale prevede confronti tra continenti. L’Europa ha più di mezzo miliardo di abitanti, possiede un’antica ricchezza, un’alta vocazione tecnologica e scientifica, è bagnata da tre mari e confina con l’Asia e con l’Africa. Ha una forza potenziale enorme, l’Europa, ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più della metà di essi. Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d’un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L’Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all’unanimità o con maggioranze altissime dell’80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più. P. S. È stato detto tutto il dicibile sulla proposta berlusconiana di abolire l’Imu sulla prima casa rimborsandone entro un mese l’ammontare pagato dai contribuenti. Ma non è stato ancora ricordato un punto di fondo: l’Imu varata nel dicembre 2011 è un’imposta patrimoniale progressiva: i proprietari d’una casa di lusso, con più elevata rendita catastale, situata in quartieri di prestigio, hanno pagato con aliquote progressive. Su 3,9 miliardi di gettito l’abolizione prospettata da Berlusconi sarebbe un grosso regalo ai proprietari di reddito medio alto e altissimo e un’elemosina di pochi spiccioli alla massa dei contribuenti. L’imposta progressiva una volta abolita si trasforma in un beneficio "regressivo" che premia pochi ricchi e fa elemosina a molti poveri. Questo è il vero e maggior difetto della velleitaria proposta berlusconiana. (10 febbraio 2013) MONTANARI SU REPUBBLICA DI STAMATTINA ROMA — I montiani “aprono” al voto disgiunto in Lombardia: una iniziativa di un gruppo di centristi a favore di Ambrosoli che, però, verrebbe “stoppata” dal Professore. Sul fronte Pd, ieri Bersani a Torino ha intascato l’endorsement dei socialisti europei. Hollande in video: «No ai populisti, la Ue vuole credibilità». Berlusconi rilancia l’ipotesi del condono e invoca il dittatore romeno Ceausescu. «Io come lui? Magari». Dopo l’endorsement su Umberto Ambrosoli in Lombardia di Ilaria Borletti Buitoni, altri montiani seguono l’esempio della capolista alla Camera di Scelta civica per Monti. E invitano gli elettori lombardi a fare il voto disgiunto a favore del candidato del centrosinistra al Pirellone. Tra questi, Lorenzo Dellai, capolista della lista Monti alla Camera in Trentino e i candidati al Montecitorio Alessandro Soncino, Gregorio Gitti, Milena Santerini ed Emanuela Baio. Il messaggio è chiaro: «Votare Ambrosoli in Lombardia e Monti al Senato e alla Camera — sostengono — è un atto di coraggio, che va nell’interesse di tutta la Lombardia». L’occasione è l’assemblea dei candidati del Centro popolare lombardo di Enrico Marcora ieri a Milano. La nuova sigla nata da una costola dell’Udc, dopo la scissione provocata dalla decisione del partito di Pierferdinando Casini di appoggiare in Lombardia la candidatura di Gabriele Albertini. Presenti, tra gli altri, anche Roberto Mazzotta, l’ex Idv Franco Spada, il repubblicano Giorgio La Malfa, Ombretta Fumagalli Carulli, la finiana di ferro Maria Ilda Germontani, l’ex Pd Achille Serra e Savino Pezzotta. L’ex sindacalista che l’Udc candidò nel 2010 contro Roberto Formigoni. Pezzotta scalda subito la platea. «Monti ha sbagliato ad appoggiare Albertini. Perché Albertini è un candidato a perdere e il voto disgiunto è una necessità per la Lombardia e per l’Italia». Dellai lo definisce «voto congiunto» e non disgiunto. «Per Ambrosoli in Lombardia, per Monti in Parlamento». L’obiettivo dichiarato di tutti è sbarrare la strada al candidato di Lega e Pdl Roberto Maroni. Lo spiega con forza Gregorio Gitti: «In Lombardia ci vuole discontinuità. È assurdo che un partito che ha solo il 4 per cento a livello nazionale possa avere la guida delle tre regioni più importanti per popolazione e realtà economica ». Anche Ambrosoli rivolge un breve saluto all’assemblea collegato in videoconferenza. L’ex sindaco di Milano Albertini, capolista al Senato per Monti e appoggiato dal Professore anche per la sfida in Lombardia, si infuria. Definisce i montiani che hanno scelto di appoggiare Ambrosoli «pseudomontiani ». Pronostica che «se con questo pensano di dare una spinta in avanti ad Ambrosoli temo che l’unica loro spinta al candidato sarà verso il burrone ». Anche il Professore che oggi sarà a Milano per un incontro con i giovani fa sapere attraverso il suo spin doctor Mario Sechi di essere contrario al voto disgiunto. Che bolla come una «alchimia ». Chi dichiara di aver sentito ieri Monti assicura che il premier avrebbe definito questa strategia «un suicidio». Per il momento, Monti si limita a precisare su twitter: «Non sono preoccupato della perdita di seggi dei due poli, ma che i giovani italiani trovino lavoro». L’ex Pdl ora montiano Giuliano Cazzola si preoccupa: «In Lombardia la lista Monti si gioca gran parte della sua credibilità, se dovesse prendere corpo la teoria del voto disgiunto». Gli risponde Ilaria Borletti Buitoni: «In Lombardia è diverso. Ambrosoli rappresenta una lista civica e in Lombardia non esiste una linea prettamente montiana». Lorenzo Dellai precisa di aver parlato a Milano «solo a titolo personale». Anche la Santerini chiarisce: «Non ho partecipato alla riunione e non ho mai firmato l’invito pro Ambrosoli». Oggi la parola passa direttamente a Monti. ICHINO SU REP DI STAMATTINA MILANO — Pietro Ichino, numero due della lista Scelta civica con Monti al Senato in Lombardia e capolista in Toscana, alle elezioni regionali in Lombardia lei voterà Gabriele Albertini o Umberto Ambrosoli? «Non voglio rispondere a questa domanda oggi; e le spiego perché. Le figure di Albertini e Ambrosoli rappresentano due aspetti e due tendenze di una stessa società civile ambrosiana, onesta, laboriosa, europeista, convinta della necessità di riformare profondamente il nostro paese per fargli raggiungere i migliori parametri europei. La lista Monti vuole unire e rappresentare entrambe queste parti della società civile; cioè unire, sul piano nazionale, tutti gli europeisti riformatori, quale che sia la loro provenienza secondo le vecchie geometrie politiche». Albertini, però, sostiene che i montiani che votassero Ambrosoli lo spingerebbero nel burrone. «Non condivido questa affermazione. L’essenza stessa del regionalismo implica che ci sia uno spazio di possibile articolazione e di diversa combinazione tra le scelte che si compiono al livello nazionale e quelle al livello regionale. Proprio questo mi induce ad affermare che in Lombardia esistono, oggi, due opzioni sul piano regionale entrambe compatibili con una scelta politica sul piano nazionale per la Lista Monti». La scelta del voto disgiunto è compatibile con l’agenda Monti? «Proprio per il motivo che ho appena detto, non vedo una incompatibilità del voto per Ambrosoli in Lombardia con il voto per Monti sul piano nazionale. Non dimentichiamo che anche la lista Ambrosoli è una lista civica, non di partito ». Quando scioglierà la sua riserva? «Prima del voto; e non lo terrò per me. Ma ogni cosa a tempo debito ». Lei come giudica i montiani che hanno già annunciato il voto disgiunto? Così come molti altri hanno compiuto la scelta di voto per Albertini. Questo conferma quanto dicevo prima: non è affatto irrealistica la prospettiva strategica di unire gli europeisti riformatori da qualsiasi parte essi provengano». C’è una necessità di voto utile per battere Maroni? «Per me vale sempre il precetto kantiano: “Fai quello che riterresti giusto che fosse fatto da tutti coloro che si trovano nella tua condizione”. Ognuno deve compiere le proprie scelte pensando a ciò che accadrebbe se tutti gli altri si comportassero allo stesso modo. È una risposta aperta? Per ora sì». Chi rappresenta meglio il progetto riformista: Ambrosoli o Albertini? «Entrambi sono dalla parte giusta, che è quella legata alla strategia europea dell’Italia. È Roberto Maroni che è dalla parte sbagliata. La sua posizione è incompatibile non solo con l’agenda Monti , ma con la stessa Costituzione italiana». Perché? «Perché la sua rivendicazione di riservare alla Lombardia come ad ogni altra regione italiana il 75 per cento del gettito delle imposte implicherebbe l’abbandono del principio di progressività fiscale». (a.m.) DE MARCHIS SU REPUBBLICA DI STAMATTINA IN PRIVATO, le novità che arrivano dalla Lombardia lo spingono a immaginare un cambio di passo della campagna elettorale che va oltre le regionali e sposta gli equilibri delle elezioni politiche. «Bisogna far capire che la partita è tra il centrosinistra e Berlusconi. In Lombardia e in tutta Italia». Non solo la conquista del Pirellone. La questione cruciale è quella del Senato e dei premi di maggioranza regionali, soprattutto nelle regioni più popolose. Nel risiko democratico, infatti si guarda già alla prossima mossa: l’obiettivo è la Sicilia. Il governatore emiliano Vasco Errani ha convinto Matteo Renzi a scendere a Palermo, tappa non prevista inizialmente nel suo tour elettorale. Dove il sindaco di Firenze può drenare consensi ai centristi. E i sondaggi di Largo del Nazareno registrano qualche spostamento dal centrodestra al centrosinistra grazie alla lista Crocetta. Ma la Lombardia è più importante dell’isola. Non solo perché elegge ben 49 senatori, ma perché anche la battaglia ammini-strativa segnerà il destino della prossima legislatura. «Se vince Maroni — spiega Enrico Letta che segue la corsa di Umberto Ambrosoli molto da vicino — la Lega si prende tutto il Nord. Significa che il nuovo governo può avere contro la parte più produttiva del Paese. Sarebbe il colmo: un partito in declino che diventa la vera opposizione». Il segnale dei montiani però fa ben sperare. E ha significati superiori al gesto di qualche singolo candidato. Il premier, oggi, confermerà il no al voto disgiunto. Lo ha già annunciato ieri il suo spin doctor Mario Sechi. Ma tutto il gruppo di Italia Futura, spina dorsale del movimento del Professore, sottoscrive la scelta di Lorenzo Dellai, Borletti Buitoni, Achille Serra, Savinio Pezzotta (Udc), Emanuela Baio. «Il voto disgiunto non è un’alchimia — dicono i seguaci di Montezemolo —. Ambrosoli e Albertini sono due scelte civiche. Vanno bene allo stesso modo. Se si vota il primo si segue un orientamento naturale secondo noi». C’è anche di più. La medesima scelta potrebbe avvenire nel Lazio. I montiani saranno liberi di votare Zingaretti anziché Giulia Bongiorno, presto arriveranno indicazioni in questo senso. Lo faranno anche con il cuore più leggero, visto che l’avvocato non è candidata con la lista Monti. Sullo sfondo è chiaramente visibile una spaccatura nell’area del centro. Che può travolgere Albertini ma avere conseguenze sull’assetto dell’intero movimento. C’è la pretesa purezza dei montiani non politici contro il candidato “politico” che ha mollato Formigoni con grande ritardo. E c’è persino una faida cattolica se sono vere le voci che attribuiscono ad Andrea Riccardi, fondatore della comunita di Sant’Egidio, la decisione di “mollare” l’ex sindaco di Milano. Voci raccolte nel gruppo ciellino rappresentato, nella lista lombarda di Monti, dall’ex Pdl Mario Mauro. Gabriele Albertini sente di «godere della piena fiducia del premier». E se oggi non lo vedremo accanto a Monti in un appuntamento milanese è «perchè non ho nemmeno bisogno di tiragli la giacchetta». Fatto sta che ieri la sua corsa al Pirellone ha subito un durissimo colpo. Il Pd sta a guardare le “beghe” di Scelta civica. La novità della corsa lombarda alimenta l’ipotesi di un’alleanza post voto tra Bersani e Monti. Ma questo al candidato del centrosinistra non dispiace: «L’inciucio non esiste. Esiste l’idea di un governo stabile. Non perdiamo voti dicendo che allargheremo la maggioranza ». Ne ha avuto conferma ieri a Torino incontrando tutti i leader progressisti europei. Vogliono la vittoria del Pd senza buttare a mare il Professore. Monti però sappia che l’evoluzione del quadro in Lombardia non può prefigurare uno scambio. «Il nostro patto con Vendola non è revocabile — ripete il segretario democratico —. Nei colloqui privati che ho avuto con i leader europei e negli incontri con gli imprenditori nessuno pone delle pregiudiziali su Sel. Il problema non c’è». Ma il punto, secondo i più maliziosi, è un altro. «I montiani hanno capito che se vogliono un accordo istituzionale devono compiere atti concreti», dice Francesco Boccia. E per istituzionale s’intende la trattativa sulle presidenze di Camera e Senato e sul Quirinale. INGROIA SU REPUBBLICA DI STAMATTINA PALERMO — Ha stretto la mano al grande rivale Pietro Grasso, non ha teso la mano al Pd. «Desistenza? Macché. Sempre più convinto nel denunciare l’inciucio fra il partito democratico e Monti», dice Antonio Ingroia. Il candidato premier di Rivoluzione civile, al termine del primo (e ultimo) incontro elettorale con Grasso organizzato dai ragazzi di Addiopizzo, conferma tutte le distanze dal centrosinistra. E non lo invita a una riflessione, fa sapere Ingroia, neppure il dibattito in corso fra i montiani che in Lombardia valutano la possibilità di un voto disgiunto per non favorire il centrodestra al Senato. Nessun ripensamento, invece, nell’ex pm che guida la sinistra dei duri e puri. E che ieri pomeriggio nella sua Palermo ha alzato il tiro contro Bersani: «Rappresenta un partito vecchio - afferma Ingroia - che non ha saputo rinnovarsi, nulla ha fatto su proposte di legge sostenute anche da Grasso quali l’antiriciclaggio e il 416-ter. E assieme al Pdl, per convenienza, non ha voluto cambiare il Porcellum ». Ingroia, l’atteggiamento dei montiani in Lombardia non induce anche voi a un supplemento di riflessione? «No, affatto. Anzi ci rafforza nei nostri intendimenti. Quelle prese di posizione sono una dimostrazione che c’è un inciucio in corso fra Monti e il Pd. Lo stesso inciucio già manifestato dai democratici con il sostegno al governo. È un grave errore politico di cui il Pd porterà con se la responsabilità. Non potrà mai fare una politica di centrosinistra: ne farà una neo-liberista. Contro la quale ci opporremo con tutte le forze». In Regioni-chiave quali Lombardia e Sicilia, Rivoluzione civile rischia di dare un contributo alla vittoria del centrodestra. «Ci vedono come guastafeste perché portiamo proposte innovative e rivoluzionarie. Fra queste la legge Ingroia-La Torre che ho scritto con Franco La Torre, il figlio di Pio La Torre. L’obiettivo è quello di aggredire patrimoni della mafia ma anche dei corrotti e dei grandi evasori fiscali». Il voto a lei, ha detto Renzi, è un consenso buttato via. Nulla cambia neppure con la considerazione che al Senato Rivoluzione civile viene stimata ben lontano dalla soglia di sbarramento dell’8 per cento? «Il fatto che siano in tanti ad attaccare sempre Ingroia significa che hanno veramente paura. Io so una sola cosa: l’unico voto utile per una forza dalla parte dei cittadini è quello a Rivoluzione civile. Anziché per il Pd che va nelle braccia di Monti». Intanto ha stretto la mano a Grasso. Ma le distanze restano. «Avevo sempre detto che non mi sarei mai candidato sotto le bandiere di un partito. E infatti guido un movimento nuovo. Grasso ha invece scelto legittimamente di correre per un partito. Peccato che è un partito che non ha mai fatto la lotta alla mafia». (e.la.) VOTO DISGIUNTI PER I SUPPORTER DI INGROIA (REP DI STAMATTINA) ANTONIO FRASCHILLA EMANUELE LAURIA PALERMO — Votare Ingroia alla Camera e Bersani al Senato per evitare di far vincere Berlusconi in due regioni chiave, Lombardia e Sicilia. La base del movimento Rivoluzione civile comincia a scricchiolare sotto il peso degli ultimi sondaggi che danno un testa a testa tra azzurri e democratici per raggiungere il premio di maggioranza a Palazzo Madama. Sindacalisti della Fiom, leader storici della sinistra e sostenitori convinti del magistrato antimafia, da Milano a Palermo annunciano il loro «voto utile» per sconfiggere una volta per tutte la destra berlusconiana. Proprio in Sicilia, la terra di Ingroia e delle sue battaglie giudiziarie contro la mafia, in molti aprono al voto disgiunto. Anche in casa Fiom, nonostante tra i candidati ci sia la segretaria regionale uscente Giovanna Marano, in lista alla Camera con Rivoluzione civile. Roberto Mastrosimone, segretario provinciale della Fiom e tra i protagonisti delle battaglie degli operai Fiat a Termini Imerese, non ha dubbi: «Alla Camera voterò in maniera convinta la lista di Ingroia, credo nella sua battaglia e in questo progetto — dice — ma da sempre mi batto per sconfiggere la destra. E non possiamo dare alcuna chance di vittoria a Berlusconi, soprattutto in Sicilia dove il Pdl ha mal governato per anni. Per questo al Senato voterò Bersani e la sua colazione. Non voterò Pd, sia chiaro, ma l’unico centrosinistra che può evitare che Berlusconi torni al potere». Il dubbio in queste ore si insinua in diversi esponenti della base palermitana di Rivoluzione civile: «Voterò certamente Ingroia alla Camera, ma ci poniamo il problema del Senato, soprattutto qui in Sicilia dove il distacco tra Berlusconi e Bersani è molto risicato e pochi voti possono far vincere il pessimo centrodestra, io scioglierò questo dubbio solo alla vigilia del voto, non voglio che tornino a governare i berlusconiani », dice Giampiero Di Fiore, vecchio militante dell’estrema sinistra palermitana. A Milano ha fatto coming out il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo: non nasconde che voterà Ingroia alla Camera e centrosinistra al Senato. «Non è desistenza, è buon senso - dice -. I sondaggi non accreditano Rc di un risultato vicino all’8 per cento al Senato. Siamo molto più giù. E i voti espressi per una forza che resta sotto la soglia di sbarramento non vengono ridistribuiti su base nazionale: si perdono e basta. Questo, purtroppo, non tutti ancora lo sanno». Secondo Rizzo «il voto disgiunto non solo è utile ma è pure credibile: perché si consente al Pd di non essere condizionato da Monti e si evita di favorire la destra». Sulla stessa lunghezza d’onda Emilio Molinari, altro volto storico della sinistra milanese, ex eurodeputato di Democrazia Proletaria e attivista delle battaglie per l’acqua pubblica: «Alla Camera voto Ingroia perché serve un cuneo per far saltare il dialogo fra il Pd e Monti. Al Senato per il centrosinistra perché l’imperativo è non far prevalere il tentativo di Berlusconi di rendere ingovernabile il Paese». Dalle pagine di Micromega anche dom Giovanni Franzoni, il teologo e pacifista che nel 1976 fu dimesso dallo Stato clericale per aver dichiarato l’appoggio al Pci, dice che si orienterà per il voto disgiunto: «Potrei determinarmi per dare un’indicazione alla Camera per la lista degli “arancioni” di Ingroia, anche per miei precedenti rapporti di prossimità sia con i Comunisti italiani sia con i Verdi, mentre la preoccupazione per il Senato, affinché non si riproduca una situazione di fragilità in cui si possa avere una maggioranza tranquilla alla Camera ma si è continuamente a rischio per una manciata di voti al Senato, potrebbe indurmi a votare per la coalizione Pd-Sel». PEZZO DEL CORRIERE DI STAMATTINA MILANO — Candidarsi alla Camera (o al Senato) nella lista di Mario Monti e scegliere Umberto Ambrosoli, l’avvocato che corre per il centrosinistra, nella battaglia per il Pirellone. Effetti e paradossi del voto utile, la ricetta anti-Lega che ha preso a spopolare in certi ambienti «moderati» e che sta però spaccando la stessa coalizione del premier uscente. Parola d’ordine (dei dissidenti): «Non consegnare la Lombardia a Maroni e il blocco delle tre Regioni del Nord al Carroccio». La tentazione s’è fatta moda, il voto disgiunto ha guadagnato seguaci e testimonial d’eccezione. Solo ieri — l’occasione era un convegno organizzato dal Centro Popolare lombardo, il rassemblement di ex udc guidato da Enrico Marcora e nato proprio per sostenere Ambrosoli — è uscita allo scoperto una mezza dozzina di candidati lombardi di Scelta Civica. Si attendeva in questi giorni anche l’endorsement di Pietro Ichino, uno dei gioielli del tridente schierato al Senato dal premier (le altre due «punte» sono il ciellino Mario Mauro e, ironia della sorte, lo stesso Gabriele Albertini). L’ex senatore del Pd ieri ha disertato il convegno milanese (forfait però annunciato dalla vigilia) e dribblato poi ogni richiesta di commento. Tutti però scommettono che alla fine nemmeno lui si sottrarrà a un pubblico appello di voto in favore di Ambrosoli. Chi non ha per niente gradito le notizie arrivate dal convegno milanese è proprio Mario Monti. La scelta «utile» doveva al limite rimanere nel segreto dell’urna. «Il voto disgiunto — è il ragionamento del professore — danneggia non soltanto Gabriele Albertini ma anche me, è un suicidio politico». Tesi confermata da Mario Sechi, spin doctor del premier: «Monti è contrario al voto disgiunto in Lombardia e sarà lui a confermarlo domani (oggi per chi legge, ndr) a Milano». Conclusione secchissima: «Le alchimie non sono il nostro mestiere». Una presa di distanza che ha il sapore di un bluff, attacca però il pdl Maurizio Gasparri: «Monti è patetico. Lui è al servizio della sinistra e questa vicenda lo dimostra. Votare lui è come votare Pd-Sel». E Maroni? «Accetto scommesse», dice il leader leghista: «Molti non voteranno per Berlusconi alle Politiche ma sceglieranno me in Lombardia. Sono cose da vecchia politica, comunque. Ciriaco De Mita aveva più dignità di questi signori». «Si tratta semplicemente di un voto disgiunto dalle promesse del passato», suggerisce invece Umberto Ambrosoli, il presunto beneficiario della strategia. Gabriele Albertini, il presunto danneggiato, è convinto però che alla fine tutta questa storia avrà esiti diversi. Il «Monti di Lombardia» (autodefinizione) ora ha deciso di passare al contrattacco: «I nostri elettori non seguiranno questi soloni da salotto che pensano di essere sempre più intelligenti degli elettori. Se pensano di dare una spinta in avanti ad Ambrosoli, l’unica spinta che gli daranno è quella verso il burrone». La primogenitura spetta di diritto a Ilaria Borletti Buitoni, l’ex presidente del Fai, testa di lista in Lombardia di Scelta Civica. È stata lei, lunedì scorso, a teorizzare via Twitter lo «sdoppiamento» della preferenza elettorale: «In Lombardia voterò Ambrosoli perché solo lui può fermare la rimonta della coalizione Lega-Berlusconi-Formigoni». Al convegno organizzato ieri in un salone di un notissimo hotel di piazza della Repubblica si sono visti anche due volti assai conosciuti nella politica anni 80 e 90: Giorgio La Malfa e Ombretta Fumagalli Carulli. L’ex signora del Ccd è stata la più sorprendente: «No, niente voto disgiunto per quanto mi riguarda. Io voterò Ambrosoli in Lombardia e Pd alle Politiche». Andrea Senesi