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 2013  febbraio 09 Sabato calendario

LE SPESE FUORI CONTROLLO DEL LAZIO. QUEI 35 MILIONI IN ARREDI E TELEFONI

Ogni giorno l’avvocato Giuseppe Rossodivita si alza e fa la stessa domanda: «Dove sono finiti i soldi?». La fa in televisione, su Facebook, nei comunicati stampa. A chi chiede una risposta? Ai responsabili dei gruppi politici del consiglio regionale del Lazio, che si aspetta mettano anch’essi mano al portafoglio, seguendo il suo esempio. Una settimana fa l’ex capogruppo radicale che è stato determinante nel sollevare il caso degli scandalosi finanziamenti pubblici ai politici della Regione Lazio ha appena restituito il fondo cassa rimanente del suo gruppo: 360 mila euro. Per capirci, siccome i radicali sono due, se tutti i 71 componenti di un consiglio sciolto da settembre 2012 avessero restituito 180 mila euro ciascuno, nelle tasche dei contribuenti sarebbero rientrati 12 milioni e 780 mila euro. Mica bruscolini.
Ma Rossodivita continua a fare quella domanda senza aver neppure letto la relazione che da qualche settimana i dirigenti della Regione si passano di mano in mano come ustionasse. E c’è da comprenderli. Si tratta di un rapporto di 334 pagine pieno di numeri e tabelle scritto da due ispettori della Ragioneria generale dello Stato che il Tesoro aveva spedito già nello scorso mese di giugno, dunque prima dello scandalo, a ficcare il naso nelle carte dell’ente. È quella che in gergo tecnico si chiama «verifica amministrativo-contabile». Colpo durissimo su chi ha gestito la Regione Lazio dal 2007, quando governava Piero Marrazzo, al 2011, quando c’era Renata Polverini. Una mazzata così forte che non poteva risparmiare il consiglio regionale. I numeri sono raggelanti. Con la freddezza delle cifre, gli ispettori Luciano Cimbolini e Vito Tatò fanno notare che in quei cinque anni le spese del consiglio sono lievitate del 43,1 per cento, da 80,4 a 115 milioni. Con punte di incremento semplicemente sbalorditive. È il caso delle consulenze e dei convegni, voce passata da 1,35 a 8 milioni di euro: + 493 per cento. Come se la Camera dei deputati, che ha un bilancio dieci volte maggiore, avesse speso 80 milioni. Poi le spese telefoniche, postali e di cancelleria, nonché per le attrezzature e gli arredi del consiglio: + 226 per cento. E qui i numeri fanno ancora più impressione, visto che dai 10,8 milioni del 2007 si è saliti a 35,2 milioni. Mezzo milione l’anno, o se preferite il vecchio miliardo di lire, per ogni consigliere.
Il bello è, dicono gli ispettori, che pur avendo speso soldi «a un ritmo assolutamente fuori linea» rispetto a tutte le altre voci del bilancio regionale, sono riusciti a mettere da parte, dal 2005 al 2011, ben 44 milioni. Soldi che sarebbero dovuti finire in un capitolo apposito, il numero 331504, «recupero dell’avanzo di amministrazione del consiglio regionale»: peccato soltanto che lo stesso consiglio, sono parole di Cimbolini e Tatò, «non ha mai provveduto al versamento effettivo delle somme». E anche qui: dove sono quei soldi?
La lista dei rilievi non si poteva certo limitare al costo degli apparati politici. C’è, per esempio, la «reiterata copertura dei disavanzi del settore sanitario attraverso le risorse del bilancio non sanitario, di per sé caratterizzato da una situazione di grave squilibrio». Come anche il «progressivo peggioramento della situazione economico-patrimoniale delle società partecipate». Sapete quante sono, considerando anche i cosidetti enti strumentali? Settantadue, sono. Una giungla terrificante e piena di sorprese. Per esempio, Lazio service: una società «utilizzata — scrivono gli ispettori — in modo improprio al fine di soddisfare esigenze occupazionali che non potevano essere poste a carico del bilancio regionale». Con costi, perciò, che sono lievitati come la panna montata: del 44% in tre anni quelli del solo personale. E queste società continuano ad aumentare. L’ultima, Lazio Ambiente spa, è nata addirittura il 18 novembre 2011.
Andiamo avanti. I debiti regionali sono saliti da 8 miliardi 482 milioni del 2007, che già non erano pochi, a 11 miliardi 234 milioni del 2011. E sorvoliamo su quelli della San.Im., un’altra società regionale costituita nel 2002, quando governava l’attuale candidato presidente del centrodestra Francesco Storace, per rilevare i debiti delle Asl: l’esposizione ammontava, alla fine del 2011, a un miliardo 95 milioni. Con una spesa di interessi, in un solo anno, di qualcosa come 64 milioni. Non bastasse, l’indebitamento non sempre è stato utilizzato per gli scopi «costituzionalmente» previsti, cioè gli investimenti. Si può definire forse un investimento un finanziamento straordinario di 5,4 milioni per il «recupero di edifici di culto»? Oppure i 20 milioni spesi a favore del patrimonio culturale di soggetti «privati»? O ancora gli oltre 5 milioni impegnati per il «riconoscimento della funzione sociale ed educativa degli oratori» (con tutto il rispetto per gli oratori, s’intende)? E si potrà mai considerare un investimento la stabilizzazione di lavoratori socialmente utili, pagata appunto, a quanto pare, con i debiti?
Per non parlare della redditività del patrimonio immobiliare. La Regione Lazio ha più di 500 immobili, per un valore a bilancio, senza contare le Ipab, di un miliardo e 360 milioni. Quanto rende tutto questo ben di Dio? Cinque striminziti milioni. Pari allo 0,003 per cento. Forse anche per questo motivo c’era nei piani regionali un piano di massicce alienazioni patrimoniali, dagli immobili alle aziende. Secondo i piani, si sarebbero dovuti incassare 75 milioni nel 2007, 175 l’anno seguente, 325 nel 2009, 720 nel 2010 e 800 (bum!) nel 2011. In tutto 2 miliardi e 95 milioni. Invece hanno incassato 104,8 milioni. Il 6,7 per cento di quello che avevano previsto.
In compenso, davano agli autisti due buoni pasto al giorno. E gli «monetizzavano» anche il terzo: 477.916 euro e 50 centesimi. Ma perché rischiare un calo di zuccheri al volante? Per così poco?
Sergio Rizzo