varie, 9 febbraio 2013
LA PRIMAVERA ARABA DUE ANNI DOPO PER IL FOGLIO DEI FOGLI
A due anni dallo scoppio delle rivoluzioni in Nord Africa e in Medio Oriente, la Primavera araba sembra aver tradito quasi del tutto le aspettative. «La Tunisia è di nuovo in piazza, l’Egitto scopre adesso che i Fratelli Musulmani avevano una loro personalissima agenda per il dopo Tahrir, il nuovo premier libico Ali Zeidan incassa il plauso dell’occidente ma è ben lungi dal controllare l’ingovernabile eredità del Colonnello che stuzzica l’appetito qaedista, la Siria annaspa in alto mare». [1]
Le ultime cronache hanno riportato in primo piano la Tunisia, il paese da cui è partita la Primavera araba, quando un ragazzo di 26 anni, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco al mercato di Sidi Bouzid, il paesino in cui viveva. Era il 4 gennaio 2011. Seguirono giorni di grandi proteste di piazza. Il 14 gennaio il dittatore Ben Ali lasciò il paese, dopo 23 anni al potere. Nell’ottobre del 2011 si tennero le prime elezioni libere, vinte dal partito islamico moderato Ennahda. La Tunisia era sembrata un modello di rivoluzione ben riuscita. In realtà, mentre annunciavano di voler combattere l’estremismo, i Fratelli Musulmani di Ennahda hanno portato avanti un attacco sistematico alla libertà delle donne e all’Islam più tollerante.
E mercoledì 6 febbraio Chokri Belaïd, uno dei leader dell’opposizione di sinistra, è stato ucciso a Tunisi con due colpi alla testa e due al cuore, aprendo una grave crisi politica. Manifestazioni e scontri in tutto il Paese, sciopero generale e centomila persone ai funerali di Belaïd. Il primo ministro Hamadi Jebali ha proposto di formare un governo di coalizione. Il partito Ennahda, di cui lui è leader, si è rifiutato. Renzo Guolo: «A questo punto gli obiettivi per l’opposizione sono nuove elezioni politiche e il varo di una costituzione ancorata a principi laici. Un processo per nulla scontato. Si apre così, alle porte di casa, una crisi che può avere un forte impatto, sotto il profilo politico, oltre che sul versante della sicurezza e dei flussi migratori, anche sull’Europa». [2]
La deposizione di Hosni Mubarak, l’11 febbraio 2011, ha portato al potere in Egitto il partito dei Fratelli Musulmani con Muhammad Morsi presidente, dopo una prima complicata fase post-rivoluzionaria guidata dai militari. A dicembre del 2012 è stata approvata la nuova Costituzione fortemente criticata dai movimenti di opposizione. Morsi finora non è stato capace di affrontare la crisi: calo delle riserve estere, rallentamento del Pil per il crollo del turismo e degli investimenti diretti, disoccupazione alta, il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà. Negli ultimi giorni sono riesplose le proteste, le ultime venerdì al Cairo, con un morto e decine di feriti intorno al palazzo presidenziale. [3]
In Egitto l’anarchia nutrita dallo scontro tra il governo islamista e l’opposizione ha regalato dieci punti all’inflazione e al Cairo il primato di capitale araba delle molestie sessuali. Nei primi tre mesi di presidenza Morsi, il Nadim Center ha registrato 43 casi di morte, 88 di tortura, sette abusi sessuali da parte delle forze dell’ordine. [1] Comprensibili ma incongrui gli appelli di Morsi alla moderazione: corre in braccio agli alleati salafiti e spera nel soccorso finanziario di Riad e del Qatar, oltre che del Fondo Monetario. [4]
La rivolta in Libia era scoppiata il 16 febbraio 2011 a Bengasi, Gheddafi è stato catturato e ucciso nell’ottobre del 2011. Il Consiglio di Transizione Libico ha formato un governo provvisorio che ha organizzato il 7 luglio 2012 le prime elezioni nazionali dai tempi dell’insediamento di Gheddafi. Oggi il Congresso Nazionale Generale, il nuovo parlamento libico, è guidato da Mohamed Yousef el-Magariaf, di orientamento laico e di sinistra, che è di fatto il capo dello Stato. L’attacco di Bengasi al consolato americano dell’11 settembre 2012 ha sottolineato la difficoltà del governo libico a contrastare la diffusione nel paese di forze legate ad Al-Qaida. [5]
Al momento la Libia vive di rendita petrolifera, non si pagano tasse, la democrazia è solo formale, la gente vota per clan e tribù. Alberto Negri: «Il meglio che ci si può aspettare è una sintesi tra l’Islam e l’oro nero incoraggiata dalle monarchie del Golfo, che insieme all’intervento armato hanno alimentato gli islamici. La politica economica resta quella di prima: tre volte nel 2012 sono stati distribuiti sussidi diretti in denaro alle famiglie e ai tuwwar, i rivoluzionari. Così faceva anche Gheddafi. Dalla spartizione del petrolio non è improbabile che scaturisca la separazione tra Tripolitania e Cirenaica, dove gli occidentali hanno abbandonato Bengasi». [3]
In Siria le prime manifestazioni di protesta contro Bashar Assad sono del marzo 2011. Da allora il Paese è sprofondato una guerra civile. Nel novembre del 2012 le opposizioni si sono unite nella “Coalizione di Forze Nazionali di Rivoluzione e Opposizione Siriana”, che ha ottenuto il riconoscimento di alcuni stati occidentali e arabi. Il 2 gennaio del 2013 l’Alto Commissariato dell’Onu ha fatto sapere che dall’inizio delle proteste in Siria sono morte 60.000 persone.
Quello che è sicuro al momento è che Assad non ha intenzione di farsi da parte. Nemmeno i russi, che pure avevano ipotizzato un ricambio interno al regime per salvare i propri interessi nazionali, sono riusciti a convincerlo. Il presidente siriano avanza un piano (conferenza con le opposizioni, nuova costituzione da sottoporre a referendum, elezioni e processo di amnistia generale) che due anni fa avrebbero avuto qualche chance. «Oggi – mentre le città siriane sono teatro di duri scontri, il regime non controlla più alcune aree del paese, la guerra parallela degli jihadisti dilaga, gli iraniani sono sul terreno e la Nato schiera i Patriot ai confini turchi –, è ormai troppo tardi». [2]
«Le nuove democrazie all’islamica devono tenere conto, a differenza dei regimi autocratici, di una variabile in più: il tempo. L’orologio democratico dà appuntamento da un’elezione all’altra e misura impietosamente le promesse del prima con le realizzazioni del dopo, filtrandole con la lente delle aspettative popolari. Il primo errore è stato considerare l’abbattimento dei vecchi regimi un risultato: era soltanto l’inizio di un processo. Ma c’è un equivoco più grave. La caduta dei raìs non è stata la fine del conflitto sociale ma l’innesco di una battaglia cruenta tra laici e religiosi, tra musulmani tolleranti e radicali, tra maggioranze e minoranze, tra spinte localiste e centralizzazione». [3]
A tutto questo si aggiunge il Mali, dove, dall’intervento dell’11 gennaio ad oggi, le forze francesi non hanno mai incontrato forti resistenze. Hanno riconquistato città abbandonate dai nemici (prima Gao, poi Timbuctù), sono avanzate sin troppo rapidamente mentre i jihadisti diventati guerriglieri del deserto si dileguavano verso le montagne di Ifoghas, al confine tra Mali e Algeria, aspettando di poter tornare a colpire. Dall’inizio dell’anno 150 mila maliani sono dovuti scappare all’estero, 227 mila hanno abbandonato le loro case. [6]
Per questa guerra Parigi ha già speso 70 milioni di euro, ottenendo dagli alleati occidentali molta solidarietà e pochi aiuti. Così i francesi hanno deciso di iniziare il ritiro da marzo: dagli attuali quattromila soldati schierati sul terreno si dovrebbe passare a unità di pronto intervento più agili, coperte dall’aviazione. Contemporaneamente è prevista la creazione di una forza di pace dell’Onu, che includerà seimila uomini delle truppe dell’Africa Occidentale (Misma). «E nell’attesa tutti incrociano le dita sperando che non entri in ebollizione l’Algeria (dove mercoledì scorso è stata usata l’aviazione per respingere un attacco terroristico a una base militare), o non peggiori l’anarchia in Libia. Uscire dal Mali in tempo non sarà forse così facile». [7]
Note: [1] Francesca Paci, La Stampa 8/2; [2] Renzo Guolo, la Repubblica 7/2; [3] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 27/1; [4] Una Galani, La Stampa 16/1; [5] Il Post 8/2; [6] Internazionale 8/2; [7] Franco Venturini, Corriere della Sera 8/2.