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 2013  febbraio 09 Sabato calendario

ANTOLOGIA PAOLO ISOTTA


Daniel Harding (…) ha una precisa tecnica direttoriale, a differenza del celebre suo mentore, non Simon Rattle, dico, ma Claudio Abbado, onde è un vero direttore, magari un cattivo direttore ma un vero direttore (concerto della Filarmonica della Scala, 30/1/2013).

Disse una volta il duca di Wellington: nulla v’è di più triste di un campo di battaglia dopo una vittoria se non un campo di battaglia dopo una sconfitta. Oseremo aggiungere esservi invece qualcosa di ancor più angosciante: la vista di un campo dopo un’ingente e sanguinosa pugna conclusasi senza vincitori ma solo vinti. Come qui: sconfitto Abbado, sconfitto il Tristano, sconfitto Wagner, sconfitta una sala stolidamente plaudente, sconfitti tutti gli interpreti (…). La decadenza palese, rapida, imprevista, di uno dei nostri più grandi artisti dev’essere solo occasione di lutto condiviso (Tristano e Isotta al festival pasquale di Salisburgo, 30/3/1999).

Con questo allestimento il maestro Abbado tocca il punto più alto della sua carriera, punto impossibile da mettere in discussione e sotto il profilo tecnico e sotto quello, a dir così, poetico. (…) La scelta dei tempi e dei loro rapporti è perfetta; la lettura orchestrale è rifinitissima. (…) Chiudiamo questo articolo col chiedere scusa al maestro Abbado. Gli abbiamo sottratto “il nemico”; e un suo allestimento senza la stroncatura del povero impiegatuccio firmatario toglie un po’ di gioia al successo. Il vizio di dire la verità comporta di simili mancanze di tatto (Parsifal al Festival di Salisburgo, 25/3/2002).

La fortuna m’ha donato un’emozione immensa, che rivivrò intatta pel resto della mia vita: il concerto di musiche sacre di Mozart, concepito secondo squisitissimi scelta e ordine, di Riccardo Muti. Ancora una volta occorre ammetterlo: il sommo direttore mozartiano vivente (Festival di Salisburgo, 17/8/2006).
Si è conclusa da pochi giorni la tournée europea della migliore compagine del mondo, la Chicago Symphony Orchestra sotto la guida del suo direttore stabile, oggi il più illustre del mondo, Riccardo Muti. (…) Le doti propriamente solistiche dei componenti l’Orchestra, in ispecie i fiati, si sono ostese in non raggiungibile da altri evidenza. Un’arte nei timpani che non ascolteremo più. Un primo flauto, un primo clarinetto, quattro corni, da leggenda. (30/4/2012)

[Di Riccardo Muti si deve ricordare anche] la ricostituzione del Festival salisburgense di Pentecoste per dedicarlo a musica, per lo più inedita, della Scuola Napoletana: questo sarà l’ultimo anno del quinquennio, e per il prossimo la responsabilità artistica verrà affidata a una cantantuccia americana chiamata Cecilia Bartoli. Che vergogna! (A proposito dell’autobiografia di Riccardo Muti, 17/11/2010).

A Salisburgo, il 14 agosto, ho assistito al peggior Don Giovanni della mia vita (…). Sul podio N. Harnoncourt: non dirò di stile, di lettura, di visione della partitura, di fraseggio: basti la constatazione che definire dilettantesco il gesto direttoriale di costui è eufemistico. (…) La regia è di un M. Kusej, i bozzetti di un M. Zehtgruber. La vicenda si svolge in una sorta di atelier di plastica con luci da sfilata di moda e abiti da «sociali», come si definiscono gli ex coatti delle periferie-lager; abiti non più distintivi della classe sociale di appartenenza: così «up» non «to date», «to the last minute», da comportare l’ombelico scoperto, i pantaloni a zampa d’elefante, quelli color prugna… (Don Giovanni al Festival di Salisburgo, 19/8/2003)

Torno alla mia eterna convinzione che i Tedeschi, creatori stessi del sommo patrimonio musicale della civiltà, quando sono cretini lo sono in modo che non soffre confronti. (Don Giovanni al Festival di Salisburgo, 19/8/2003)


Immaginate la sala grande del viennese Musikverein, coi suoi stucchi, le sue dorature, l’intrico di losanghe sulle pareti e sul soffitto: un Neoclassico come avrebbe potuto concepirlo Hans Makart. Quant’è cafona l’Austria, penso sempre. (Beethoven con la Filarmonica di Vienna, 7/5/2002)

Di tra i Filarmonici di Vienna, con quelle loro giacchette d’un grigio stinto e i pantaloni rigatini, il che con molto eufemismo si chiamerebbe mezzo-tight ed è solo l’uniforme dei portieri d’albergo, si fa velocemente strada un folletto. (…) Un Peter Pan con una pelliccia di ricci bianchi e lunghi un po’ pecorini a ricoprirgli il capo, un nasino spiritoso, occhi onde sprizza intelligenza. (…) Il Peter Pan si chiama Rattle, sir Simon, ed è il nuovo direttore dei Filarmonici di Berlino. (Beethoven con la Filarmonica di Vienna, 7/5/2002)

Il coro o sta in frac o si schiera come “Il Quarto Stato” di Pellizza. Lo spettacolo è, così, tetro e cretino. (Lohengrin alla Scala, 9/12/2012)

L’allestimento è assolutamente scandaloso per incompetenza e ignoranza. (L’oro del Reno alla Scala, 18/5/2010)

Il maestro Barenboim dirige benino (…): non arriva certo alle altezze dei Maestri Leinsdorf, Solti, Cluytens, Karajan, Kubelik, Kempe, Jochum, Keilberth, Thielemann, a non parlare degli italiani Marinuzzi, Gui e Serafin, che in questa partitura non ho potuti ascoltare. (Lohengrin alla Scala, 9/12/2012)

L’oro del Reno «diretto da Daniel Barenboim con una sorta di fiacca autorità e con il contrario di qualsiasi opera di rifinitura in una partitura orchestrale che di rifinitura chiede moltissimo. (L’oro del Reno alla Scala, 18/5/2010)

«Nono era un, a dir così, musicista, di modeste doti artistiche, sorretto dall’arroganza e dal fanatismo. Si sentiva investito di un mandato messianico insieme musicale e politico. Si definiva, ovviamente, un “intellettuale” ed era un prototipo dell’“impegnato”, il primo sostantivo incorporando, per soggetti della sua risma, il secondo, del tutto naturaliter. (…) Quanto al Prometeo v’è, in aggiunta all’offesa all’orecchio, quella all’intelligenza: dall’“impegno”, Nono, fiutato un futuro mutar del vento, organizza una trasfigurazione verso cieli iperborei e hölderliniani. Lo soccorre l’astuzia del Heidegger dei miserrimi, il sindaco-filosofo Massimo Cacciari, che tratta l’ ur- e gli etimi come il giuocatore delle tre tavolette le medesime. (Prometeo al festival Milano Musica, 7/11/2000).

Noi continuiamo a credere che la Vedova allegra di Franz Lehar sia tra le partiture sovrane di questo secolo. Altri sosterrà il peso di Jonisation di Varese, del Canto sospeso di Nono o della Sonata di Boulez, che san Gennaro ne assegni quotidianamente l’ascolto a chi vuol male al vostro porcellino. (La vedova allegra al Teatro lirico di Milano, 11/2/1998).

Mahler era un megalomane privo di quella capacità di autocritica di che son dotati i veri grandi. È vero anche ch’era un genio. È vero che il procedere della sua carriera, e teniam conto di quanto giovane sia morto, mostra una progressiva attenuazione della megalomania e una del pari stupefacente conquista di mezzi tecnici e visioni estetiche. Donde da un certo punto in poi una purtroppo intermittente serie di capolavori. (Terza sinfonia di Mahler all’Auditorium di Milano, direttore Riccardo Chailly, 1/12/2001)

Basta confrontare l’arrogante elefantiasi inanemente “avanguardistica” di un Luigi Nono (nelle intenzioni, arte maggiore) con una canzonetta dei Beatles, per definizione “arte minore”. (La vedova allegra alla Scala, 29/10/2008)

Quanto a tale Roger Norrington, Sua Maestà lo ha nominato “Sir”: giusta proporzioni, Mick Jagger dovrebb’esser fatto almeno Duca e Pari. (Festival di Salisburgo, 17/8/2006).

A festa terminata, o tumulazione avvenuta che dir si voglia, uno si domanda: perché? (Guerra e pace di Prokofev alla Scala, 1/10/2000)

Credo dunque che la mia situazione professionale sia la seguente: ho una sparuta schiera di lettori che leggono i miei articoli per odio e con odio. L’amore è sentimento labile, se pur esiste; l’odio non muore. So che tale sparuta schiera mi è più fedele che se avessi legioni di adoratori. Ai miei odiatori non manco di dare lecite soddisfazioni; di queste la prima sta nel definirmi cretino tutte le volte che me ne accorgo; le altre, lo dicono direttamente loro. (La traviata alla Scala, 21/1/2002)