Francesco Billi, varie, 9 febbraio 2013
A che punto è la crisi economica mondiale? Nata nella finanza statunitense e nutrita dalla corsa dei prezzi delle materie prime, il suo primo effetto fu la crisi creditizia che fece crollare i mercati borsistici nell’estate 2007
A che punto è la crisi economica mondiale? Nata nella finanza statunitense e nutrita dalla corsa dei prezzi delle materie prime, il suo primo effetto fu la crisi creditizia che fece crollare i mercati borsistici nell’estate 2007. L’anno dopo si era già trasformata in recessione portandosi dietro una grave crisi industriale. Generalizzata in tutto il mondo con vertiginosi crolli di Pil, specialmente quelli occidentali, tra il 2010 e il 2011 si è allargata ai debiti sovrani e alle finanze pubbliche degli Stati. In particolare quelli dell’eurozona che in alcuni casi (Portogallo, Irlanda, Grecia) hanno evitato l’insolvenza con l’erogazione di ingenti prestiti (da parte di Fmi e Ue). Nel 2012 il rallentamento economico si è esteso anche i paese emergenti e pareva pressoché imminente l’implosione dell’euro: sarebbe andato in pezzi «a velocità stupefacente in una questione di mesi, non anni» (Paul Krugman sul New York Times, maggio scorso) e la Grecia avrebbe fatto secessione in poche settimane (stessa pubblicazione, stesso mese). E invece titoli di Stato greci nell’ultimo anno sono stati l’investimento che si è rivalutato di più. [1] Il 2013 si è aperto all’insegna del ritorno all’appetito di rischio, cioè della percezione che la crisi stia terminando il suo ciclo e si possa quindi tornare a investimenti meno sicuri. Una conferma la danno i tassi d’interesse sui buoni del Tesoro più solidi al mondo cioè quelli americani e tedeschi: sono in risalita. Rampini: «Quando sui mercati imperversa la paura, Treasury Bond e Bund sono un bene-rifugio. I capitali affluiscono alle aste schiacciando i rendimenti sempre più giù, in certi casi addirittura sotto lo zero. Ora quella psicologia da panico si è dileguata. I beni rifugio vengono trascurati a vantaggio dei titoli che rendono tanto: ecco perché i capitali affluiscono verso Btp italiani e spagnoli». [2] L’indice Dow Jones è a un soffio dai 14.000 punti, lo Standard & Poor’s 500 ha oltrepassato quota 1.500. Il più rappresentativo che è l’indice Wilshire 5000 (include anche le piccole e medie imprese) ha già fatto il botto. Cioè il record storico: non solo il livello più elevato dopo la crisi, ma il massimo di tutti i tempi. In America un grosso investitore come Robert Turner parla di «esuberanza razionale». Cioè ottimismo fondato sui fatti, l’opposto di una bolla speculativa. In Europa Mario Draghi ha coniato l’immagine del «contagio positivo». [2] Ma il diluvio di previsioni congiunturali negative continua. La Banca Mondiale ha tagliato del 20 per cento la sua stima della crescita economica mondiale, di oltre il 30 per cento quella delle economie avanzate. La Bce prevedere il ritorno a una debole crescita nella seconda parte dell’anno ma ha dato pochissime speranze per l’occupazione. La Banca d’Italia ha preso atto del peggioramento internazionale e corretto al ribasso, da –0,2 a –1 per cento, le proprie stime sull’andamento del prodotto interno lordo italiano. [3] Allen Sinai: «La politica monetaria della Bce, pur animata da buone intenzioni, era ed è focalizzata solo sulla crisi e non riesce a offrire lo stimolo monetario di cui l’Europa intera ha bisogno. Sul versante fiscale, ha prevalso una politica di contrazione e austerità. Sul versante politico, l’incapacità di definire risposte alla crisi ha peggiorato la situazione europea». [4] Ma la geografia dell’ottimismo sui mercati lambisce perfino l’Europa più fragile. Rampini: «La fiducia degli investitori ha riversato alla fine del 2012 ben 100 miliardi di euro nei Piigs: iniziali di Portogallo Italia Irlanda Grecia e Spagna. Quell’acronimo infamante, che nelle fasi più acute della crisi era diventato sinonimo del rischio-default, adesso si trasforma nel suo opposto: un’opportunità per i capitali in cerca di alti rendimenti». [2] Dunque i cinque paesi europei che in questi anni, in misura diversa, hanno rischiato il tracollo sono guariti? Per l’Italia la svolta potrebbe non essere lontana. Deaglio: «Lo si può dedurre dall’esame della produzione industriale: tre settori (tessile e abbigliamento, prodotti elettronici e ottici, legno e carta) hanno mostrato qualche piccolissimo segno positivo, il che non si riscontrava più da molto tempo. Tre piccolissimi fili d’erba non fanno certo primavera ma le anticipazioni del Centro Studi Confindustria mostrano un arresto del calo complessivo della produzione industriale con una crescita dello 0,4 per cento. Potrebbe trattarsi di nulla più di un sussulto statistico, potrebbe invece essere l’inizio di un lungo – e lento – sentiero di crescita». [5] «A dare un minimo di forza all’ipotesi di una ripartenza non troppo lontana c’è anche la constatazione che le famiglie italiane hanno a lungo rinviato molti acquisti importanti ma, nel loro complesso, hanno le risorse finanziarie per effettuarli. Potrebbero quindi, nei prossimi mesi, decidere in numero crescente di sostituire il vecchio frigorifero, il vecchio computer, la vecchia auto; e dare così una spintarella alla domanda interna che è assolutamente mancata nel 2012». [5] In Grecia, il 2012 è passato come un tornado: con un secondo piano di aiuti da 130 miliardi varato a marzo, due elezioni tenute a maggio e giugno, una tranche che è arrivata solo a fine anno dopo il varo di tagli pesanti e riforme strutturali. Da Rold: «Eppure l’intensità delle proteste sociali sta calando, i greci sono oggi tutti concentrati sulla loro sopravvivenza quotidiana e il Governo sta lavorando bene sui conti e il recupero della competitività». [6] «Saranno gli ultimi sacrifici», ha promesso il premier Samaras. Livini: «Nessuno sotto il Partenone l’ha preso troppo sul serio. Otto manovre pari al 35% del Pil – dicono i pessimisti – hanno distrutto il tessuto sociale. L’economia si è contratta del 29% in quattro anni, la disoccupazione è al 26% (al 58% tra i giovani). L’Europa però sembra aver deciso di salvare a tutti i costi un’economia che rappresenta solo il 2,2% del Pil continentale. Dopo aver garantito 230 miliardi di aiuti ha dato l’ok il mese scorso a un pacchetto che ne vale altri 40 abbassando i tassi e rinviando i rimborsi dei prestiti. L’Fmi vorrebbe tagliar la testa al toro abbuonando ad Atene un po’ dei suoi debiti (il 75% è in mano a Washington, Bce e fondo salva- stati). Merkel però non vuole». [7] L’esempio virtuoso di come l’austerity non porti solo guai è l’Irlanda. Dublino è stata puntellata da 85 miliardi di aiuti internazionali, andati in buona parte (64 miliardi) a tappare i buchi nei conti delle banche. Dal 2008 ad oggi sono state varate manovre per 28 miliardi con tagli a welfare e servizi pubblici. «Ma la decisione di non intervenire sulla tassazione aziendale molto ridotta ha salvato l’economia. Il Pil crescerà dello 0,5%, la disoccupazione viaggia al 14,6% ma ha iniziato a calare e il bisturi del governo ha ridotto la spesa pubblica all’8% del Pil. Dublino a luglio scorso è riuscita a tornare addirittura sul mercato mandando in porto senza problemi un collocamento di bond a tre mesi da 500 milioni». [7] In Portogallo è un altro alunno modello. La crescita economica non è quella dell’Irlanda (il Pil di Lisbona scivolerà del 3% quest’anno) ma il nuovo governo lusitano è riuscito a tenere la barra dritta, approvando aumenti fiscali e tagli agli stipendi pubblici che nel 2012 hanno ridotto il rapporto deficit/Pil al 5%. Ue, Fmi e Bce quindi, dopo aver garantito al paese 78 miliardi di aiuti, hanno deciso di dargli un altro po’ d’ossigeno, spostando di un anno al 2014 la data entro cui dovranno essere rispettati gli impegni con la comunità internazionale. Livini: «Obiettivo che pare a portata di mano del Portogallo tanto che i titoli a dieci anni di Lisbona sono quelli che nel 2012 hanno dato più soddisfazioni agli investitori guadagnando il 56%. La strada naturalmente è ancora in salita, la disoccupazione è al 16% e il paese dovrà sfatare il mito che lo vuole condannato a una crescita anemica». [7] In cima alle preoccupazioni della Ue in questo momento c’è la Spagna. E non a caso lo spread di Madrid è l’unico rimasto ancora a livelli piuttosto alti. Sono stati garantiti 100 miliardi per salvare le banche travolte dallo scoppio della bolla immobiliare. Ma potrebbero non bastare. «Il governo di Rajoy – autore di quattro finanziarie per 93 miliardi fatte di tagli del 10% ai budget dei ministeri, nuove tasse e congelamento di turnover e stipendi pubblici – pare deciso (con grande rammarico di Bruxelles) a non attivare il fondo salva-Stati. La Spagna il prossimo anno è attesa da un complesso calendario di aste per rifinanziare il suo debito (124 miliardi di titoli contro i 99 del 2012). E con una disoccupazione al 25%, il deficit/Pil al 63%, più delle stime e un Pil in calo dell’1,5%, veder rosa è difficile. Anche nella penisola iberica tra l’altro il tessuto sociale inizia a sfaldarsi. Un giovane su due non trova lavoro e i pignoramenti delle case sono cresciuti del 18%». [7] Anche le due più grandi potenze del mondo, Cina e Stati Uniti, stanno cercando di uscire da un 2012 piuttosto deludente. In America la crescita del Pil in termini reali è stata del 1,7% e il tasso di disoccupazione è rimasto su livelli elevati, a fronte di una netta diminuzione degli utili. «Il disavanzo federale è rimasto su livelli insostenibili, accompagnato da un aumento del debito pubblico sul Pil. La crescita in termini reali dovrebbe aggirarsi nel 2013 attorno al 2-2,5%; entro fine anno il tasso di disoccupazione dovrebbe calare al di sotto del 7,5%, l’inflazione aggirarsi attorno al 2-3%, e l’aumento degli utili aziendali al 7% circa». [4] Rampini: «Al ruolo della banca centrale (un iperattivismo che non ha precedenti neppure nella Grande Depressione) si accompagnano motivi di fiducia radicati nell’economia reale. L’anno 2012 si è concluso con una ripresa degli investimenti industriali in macchinari, impianti, tecnologie (+4,6% a dicembre). Il mercato immobiliare è ormai in ripresa da molti mesi. Uno studio della Goldman Sachs attribuisce la ripresa Usa a fattori di lungo periodo, strutturali. L’autosufficienza energetica. La crescita demografica positiva che ringiovanisce la forza lavoro grazie agli immigrati». [2] Per gli Stati Uniti è il fiscal cliff (baratro fiscale) il principale rischio a medio termine. Si riferisce al taglio drastico dei conti pubblici di 500 miliardi nel 2013 (divisi in 335 miliardi di aumento delle imposte e 165 miliardi di minori spese) che scatterà nel 2013 se il debito pubblico non smetterà di crescere (è già sopra il 100% del Pil). La contrazione rappresenterebbe un passo importante verso la soluzione del problema del debito sovrano ma nel contempo ucciderebbe sul nascere la ripresa americana, producendo una recessione negli Usa e nel resto del mondo. [4] La crescita cinese è scesa da quasi il 12% su base annua al 7,5% nel 2011-2012. Sinai: «Questo calo di quasi cinque punti è stato perseguito con l’adozione di politiche restrittive per favorire la transizione da un’economia in espansione a una con l’inflazione al 2%. La manovra ha trasmesso un impulso negativo alla crescita in tutta l’Asia ed è all’origine dell’indebolimento delle esportazioni tedesche. L’obiettivo cinese di rallentare la crescita ha avuto un effetto domino nell’economia mondiale, soprattutto attraverso i flussi commerciali». [4] Ma Pechino ha ormai conseguito il suo obiettivo e, per impedire ulteriori rallentamenti, ha adottato misure monetarie e fiscali di stimolo. E il Dragone è già riparto. [2] Note: [1] Federico Fubini, Corriere della Sera 23/01/2013; [2] Federico Rampini, la Repubblica 30/01/2013; [3] Mario Deaglio, La Stampa 19/1/2013; [4] Allen Sinai, Il Sole 24 Ore 20/1/2013; [5] Mario Deaglio, La Stampa 19/1/2013; [6] Vittorio Da Rold, ilSole24Ore 5/1/2013; [7] Ettore Livini, la Repubblica 2/1/2013;