Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 8/2/2013, 8 febbraio 2013
GADDA, SCRITTORE IN FIAMME
Il sole filtra sulla terrazza di casa, le donne indossano vestiti a fiori e nel Super 8 di famiglia, Carlo Emilio Gadda non tradisce i cromatismi di Arbasino. “L’abito completo blu”. “La camicia bianca”. “Un fazzolettino candido ad angolo retto nel taschino”. In una primavera dei primi anni 70, nella riserva indiana di via Blumenstihl, il Gran lombardo spegne la candela di un compleanno anonimo. L’ingegnere sorride. È vecchio, stanco e circondato dai nipoti della governante. In salvo dalla Firenze che non incendiò entusiasmi: “Non è certo una città allegra, vero?”, in quieta attesa del trapasso: “Con rispetto parlando”, nella Roma dei fuochi fatui e della processione funeraria degli amici. Se la dolce vita da tempo non tirava più mattina nel gorgo del calembour flaianeo: “Latrin lover”, “l’Antico Tastamento” e l’età non costringeva più alla fuga come religione unica, l’ultima pennellata di un’insoddisfazione cronica: “Croce diceva di me: ha la mano pesante. Aveva ragione” è quella di una tregua che chiude un bel film di Ma-rio Sesti dedicato all’uomo che con il linguaggio dipinse una rivoluzione.
DI IMMAGINI inedite, Fiamme di Gadda, il documentario che in occasione del quarantennale della scomparsa dello scrittore, Flavia Parnasi produce in vista di un’anteprima barese al Festival di Felice Laudadio e di una prima serata su Sky Arte, è uno scrigno prezioso. Le foto private, le epistole dal fronte, il baffo timido di Gadda in trincea a guardia di una mitraglietta e i colpi metaforici che da via Merulana in poi resero più difficile l’ostracismo diretto a un agnostico che della convivialità aveva orrore. Con scarpe “ovviamente nere e lucidatissime”, l’aiuto proficuo di una memoria, quella di Maurizio Barletta, ex consulente culturale del Pci e amico fraterno da visita domenicale, le impressioni di Gifuni: “Forse dai tempi di Dante non c’era una lingua capace di raccontare tanto e di allargare a dismisura le proprie capacità. Nel Pasticciaccio l’ingegnere dà voce al treno, alle galline, allo spinone maremmano e al brigadiere piemontese. Ti fa entrare nelle loro teste. Un’esperienza sconvolgente”, il mondo di Gadda prende forma per sottrazione.
In una vertigine temporale capace di raccontare il Gadda depresso con tendenze suicide descritto da Barletta, l’uomo gentile ancorato all’ossequio di un’educazione antica, il passeggiatore solitario perso nella consolante architettura del quartiere Prati, l’umorista che di fronte allo zampillo di una fontana ironizza sulla prostata, il bulimico tradito dalla gola in pasticceria. Il bestemmiatore che, tradotta alpina dopo tradotta, a forza di ascoltare soldati smoccolare aveva esportato il vizio e non si risparmiava neanche in tarda età. Con le musiche di Teho Teardo e le letture in bianco e nero di un sobrio Sergio Rubini, Gadda rivive in un’ipnosi lunga poco più di un’ora .Tangente a un mosaico di incipit che da via Keplero: “Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14”, nascosto all’ombra del suo genio come durante l’intera esistenza.
IL GADDA NITIDO osservatore di caratteri e tipi umani: “Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa”. Il Gadda della febbre semantica, periferico nel sensato delirio del rischio, circondato dallo scetticismo delle imprese in cui pare che ogni cosa crolli, mentre a guardar meglio, si prepara nell’arbitrio della sperimentazione la pagina che resterà. Come da sottotitolo, Sesti (direttore a Taormina, selezionatore nel Festival di Marco Müller), ti porta senza tracciare sentieri obbligati “A spasso con l’ingegnere”.
Utilizza la guida di Gadda, l’intuizione profetica, lo spirito dell’eredità letteraria per osservare il ’900 tra fabbriche, moltitudini in marcia e miti d’epoca. Lo fa con il più immobile dei refrattari, con chi ha avuto fastidio della propria ombra, certo che non sempre “i nomi dei fatti generano chiarezza” e “scrittore o ingegnere sono accidenti che non modificano la grama” ricchissima “sostanza”. L’ossimoro di Gadda. La sua contraddizione. La somma eresia di un percorso parallelo in cui se “l’ingegneria è il sogno di ordinare il mondo”, alla scrittura, per lasciare un segno, non rimane che il caos. Nel bisogno di riprodurre una vita “da cui ci si sente irrimediabilmente esclusi”, Gadda si concentra sugli altri non lasciando, in diari pur minuziosissimi, sassi di Pollicino utili a decrittare amori, frequentazioni, preferenze. Meglio tirare dritto, evitando incontri spiacevoli, con le due velocità che – rammenta Maurizio Barletta – illuminavano sul suo umore: “Una a testa alta, fiera, con un bel passo marziale ed elegante. E un’altra smarrita, dolente, in coincidenza con la malinconia”. Lo spettacolo di un’opera in cui tra piroscafi e meditazioni filosofiche, lo spettacolo è nell’utilizzare: “Ogni possibilità combinatoria della lingua per squadernare la realtà nelle illimitatezza delle sue apparenze”. Amplificando e deformando, come nelle immagini di Sesti, un messaggio che era forte in quanto non pretendeva di esserlo.
GADDA ERA PUDICO. Quando Pietro Germi, in Un maledetto imbroglio, trasformò le arie grottesche del Pasticciaccio in atmosfere razionali opposte, complementari e artisticamente felici, un paio di volte si affacciò sul set. Scrutava i volti e consigliava al regista di cambiare i cognomi ai protagonisti: “Questo potrebbe chiamarlo Carpedoni, somiglia a una carpa”. Se Germi (ruvidissimo e atterrito dalla conoscenza come e più di Gadda) lo scopriva nei dintorni, racconta uno degli sceneggiatori, Alfredo Giannetti, raccomandava di mandarlo via: “Che vadano a fare in culo questi intellettuali”. Forse non si chiarirono più, ma in Divorzio all’italiana, fa notare Sesti, il cineasta che non rideva mai, trovò registri ironici mai sfiorati prima. Gli stessi che Gadda, in una mimesi continua, nascondeva anche a se stesso rivelandosi all’improvviso. Porgendo galanterie, babà civettuoli e dolci parole da commedia umana alla cuoca di casa Bar-letta (con la donna felice: “Ma Ingegnere, non esageri”), dimenticando di essere “creatura infelice e sola” nell’oasi di un foglio bianco o di una nevrosi. Era morto un fratello all’ingegnere. Un fratello amato ed estroverso. Disegnavano entrambi. Donne con larghi cappelli neri. Donne nude. Venute a fare visita di notte, al “segretario generale della confederazione dei soprammobili” caduto in guerra dal dorso di un asino e in vita, in un giorno di maggio del ’73, il 21, nelle regole ferree della sua Repubblica. Ceausescu visitava Roma. Gadda salutava la cognizione del dolore nel silenzio. Senza più Eros, celebrazioni o dittatori ammalati di narcisismo e sindrome plebiscitaria. Indifferente. Diverso. Gadda.