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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

LA VALIGIA DEI MISTERI E IL RAGIONIER VARONE


È uscita dai confini nazionali l’indagine della procura di Milano sulla Saipem, il colosso ingegneristico controllato dall’Eni. Con un’operazione di polizia condotta simultaneamente in Italia, Svizzera e Francia. La vicenda è complessa. E anche per questo merita di essere raccontata in dettaglio. Anche se alcuni suoi aspetti sono già finiti sui giornali.
A dicembre si era per esempio già venuti a sapere dell’indagine aperta dalla Procura di Milano su Saipem per presunti reati di corruzione relativi a contratti stipulati in Algeria. Nove mesi prima, il quotidiano La Repubblica aveva pubblicato un articolo di tutt’altra natura. Su un’azienda vinicola, la Ager Falernus, nata nel 2008 in provincia di Caserta. Una realtà di 40 ettari, di cui una dozzina coltivata a vigneti, alle pendici del Monte Massico. Top della sua produzione: il Vino & Anima, un Primitivo tagliato con Aglianico e affinato in botti di rovere francese. L’articolo lo presentava come un ottimo esemplare di un vino, il Falerno, ritenuto da Marziale, Plinio e Cicerone tra i migliori dell’antica Roma. «Anche uno sceicco investe nel vino della Campania», riportava il giornalista, che non rivelava però l’identità dell’esotico personaggio. «Libanese, nome in codice ’Faid’, per motivi di sicurezza», spiegava. L’autore faceva poi un nome e cognome - Pietro Varone - ma non forniva dettagli sul curriculum di viticultore di questa persona. Forse perché anche costui, come «lo sceicco», era una new entry nel settore. Fino ad allora, Varone si era infatti sempre occupato d’altro. Nello specifico era un ragioniere proveniente dal mondo delle costruzioni passato poi a quello del petrolio e del gas fino a diventare direttore generale dell’unità Engineering & Construction della Saipem. Il vero nome del cosiddetto «sceicco» è Farid Bedjaoui, ed è un consulente finanziario algerino attivo tra Canada, Dubai e Libano. Pronipote di Mohammed Bedjaoui, l’ex ambasciatore algerino in Francia e alle Nazioni Unite e ministro degli esteri dal maggio 2005 al giugno 2007, Farid è persona molto ben introdotta in Algeria e nel mondo petrolifero del suo Paese. Secondo il quotidiano algerino Liberté, è comproprietario con il fratello Reda della Ogec, società di ingegneria e supporto logistico libanese attiva nel campo petrolifero. Tra i clienti maggiori di Ogec c’è proprio la Saipem, che le ha subappaltato una parte dei lavori in Algeria. Alla Ogec, inoltre, lavora, o ha lavorato, come "personnel manager" Debora Somaschini, nipote di Varone (o più esattamente di sua moglie, Regina Picone). E qui torniamo alla storia di nostro interesse: quella dei duecento milioni in presunte tangenti agli algerini. Dal decreto di perquisizione presso l’abitazione di Varone emesso dalla Procura di Milano l’1 dicembre scorso, apprendiamo infatti che in quello stesso giorno «Debora Somaschini è stata rinvenuta in possesso di una valigia contenente documentazione concernente Saipem e Varone, oltre a una somma di denaro». E che «la stessa Somaschini ha dichiarato che la valigia le era stata appena consegnata dalla zia, Picano Regina, coniugata Varone». A il Sole 24 Ore risulta che tra le carte rinvenute dentro quella valigetta ci fossero i moduli per aprire un conto su una banca di Beirut con due cointestati: la signora Picano in Varone e lo "sceicco" Farid Bedjaoui. Non è chiaro. Siamo così alla seconda possibile "co-interessenza" tra Bedjaoui e la famiglia Varone. La prima è l’azienda Agricola Ager Falernus Srl, di cui Pietro Varone risulta formalmente amministratore. L’azionista di maggioranza, con il 64% delle quote, risulta essere una fiduciaria, la Riva Reno (chissà chi ci sarà dietro?), ma il 20% è di Farid Bedjaoui e un altro 8% di Vincenzo Varone, fratello di Pietro. Nella documentazione societaria gli inquirenti hanno rinvenuto due lettere, una del 2009 e una del 2012, in cui l’azionista algerino si impegnava a iniettare del capitale nell’azienda. A fondo perduto. Per un totale di un milione e mezzo di euro. Ma che motivo potrebbe avere Bedjaoui per co-finanziare la società amministrata da Varone? O per co-intestarsi un conto su una banca libanese con la di lui moglie? Che l’algerino abbia qualche grosso favore da contraccambiare? Il Sole 24 Ore ha contattato l’avvocato di Varone per rivolgere queste domande al manager Saipem e chiedergli anche di presentare una sua ricostruzione dei fatti. Purtroppo l’avvocato ci ha comunicato però di non essere riuscito a contattare il proprio cliente. Quello che siamo riusciti ad accertare è che il 17 ottobre 2007 fu proprio Varone a firmare il contratto di agenzia per l’Algeria con Pearl Partner Ltd, società che aveva Farid Bedjaoui come beneficiario economico. In caso di ottenimento da parte di Saipem di contratti algerini per un valore inferiore al miliardo di euro il contratto prevedeva una «remunerazione pari al 3% del valore totale». Nel caso di contratti superiori al miliardo la remunerazione sarebbe stata «pari ai 30 milioni di euro, più il 2,5% della porzione del contratto superiore al miliardo». Da allora su Saipem è caduto un diluvio di contratti dall’Algeria. Nel luglio 2008 uno da 2,8 miliardi di euro, nel marzo 2009 uno da 1,85 miliardi di dollari, nel maggio dello stesso anno un altro da 200 milioni di euro e nel giugno uno da 580 milioni di dollari. Questo ben di Dio di contratti algerini sono puntualmente seguiti pagamenti di ricche commissioni che Saipem ha bonificato a Pearl su conti bancari negli Emirati. Oltre alla casa madre italiana, a pagare Pearl sono state anche le controllate in Francia e Portogallo. E si calcola che il gruppo Saipem abbia trasferito in tutto 197 milioni. Tutto ufficiale. Anno dopo anno, in ogni singolo bilancio sia di Saipem sia di Eni, è stata infatti riportata la voce «compensi d’intermediazione». Con tanto di cifre. Soltanto nel 2008 erano stati 155 milioni. Quindi nessun segreto. «Per una scelta di trasparenza, Eni pubblica nei propri bilanci i dati relativi ai compensi di intermediazione del gruppo, ricevendo a tal fine il dato annuale aggregato di tali compensi da parte delle controllate», ha spiegato Eni a Il Sole 24 Ore. «Nel caso delle società del gruppo Saipem, questa informativa contabile ovviamente non interferisce in alcun modo con la governance e in particolare con l’autonomia operativa e dei sistemi di controllo aziendali di Saipem che compete a quest’ultima, in quanto società quotata». Ma quale valore aggiunto poteva dare Pearl a Saipem, visto che era una società di facciata priva di qualsiasi storia, personale o professionalità? Che cosa aveva da offrire una ditta registrata a Hong Kong con succursale negli Emirati e nessun ufficio o attività in Algeria? Uno scenario possibile è che Bedjaoui abbia in realtà agito per conto di personalità del mondo petrolifero algerino. Per favorire il pagamento di mazzette in violazione della convenzione Ocse contro la corruzione e della legge italiana 231. È l’ipotesi che in Italia stanno valutando i sostituti procuratori di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che conducono l’inchiesta con il supporto del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Milano. Ma è il sospetto anche della procura federale svizzera, che ha scoperto una ragnatela di società di facciata e conti bancari legati a Bedjaoui. Conti sui quali sono finiti almeno 25 milioni di euro che gli inquirenti hanno collegato a pagamenti fatti dalla Saipem a Pearl. Il percorso fatto da questo denaro è risultato particolarmente tortuoso, anche perché sono stati apparentemente usati conti in Quattro banche diverse (una delle quali è la Banque Privée Efg. Per esempio dalla Pearl, che come abbiamo detto è di Hong Kong ma opera negli Emirati, parte dei compensi pagati da Saipem finisce a Sorung Associates Inc, che invece è di Panama City. Ma sempre controllata da Bedjaoui. «Il tipico modus operandi di chi vuole lavare denaro», commenta uno degli inquirenti. La cosa più interessante è che in quella ragnatela di società delle quali Bedjaoui risulta beneficiario economico ce ne è una che ha pagato quasi 2 milioni di euro di consulenze a Reda Hemche, l’ex capo di gabinetto del direttore generale di Sonatrach, la compagnia petrolifera di Stato algerina. Quella che ha assegnato la sfilza di contratti sopra citati a Saipem. Hemche è ricercato dalle autorità algerine, le quali nel 2009 hanno aperto un procedimento per corruzione che ha decapitato non solo il vertice di Sonatrach ma ha fatto saltare anche il ministro dell’energia Chakib Khelil. In quell’inchiesta è emerso che Hemche, in quanto emissario di Khelil, sarebbe stato colui che decideva l’assegnazione dei contratti del colosso statale algerino. Il suo ruolo era stato peraltro messo in luce da un messaggio diplomatico scritto nel febbraio del 2010 dall’ambasciatore americano ad Algeri. E reso pubblico da Wikileaks. «L’ambasciatore si è incontrato con il responsabile di Bp in Algeria, Akli Brihi… Brihi ha spiegato che Sonatrach non faceva accordi corrotti con le grandi compagnie petrolifere ma con le società di servizio quali l’italiana Saipem. La società di servizio avrebbe presentato offerte a prezzi inflazionati e poi pagato funzionari Sonatrac. È quello che tutti pensano sia avvenuto con il contratto da un miliardo di dollari affidato a Saipem senza gara relativo all’impianto per la liquefazione di gas naturale di Arzew…. Brihi pensa che il ministro dell’Energia Chakib Khelil sia responsabile della cultura della corruzione che regna in Sonatrac. Questo conferma ciò che l’ambasciata ha saputo da altre fonti, secondo le quali la persona responsabile di questi affari sporchi sarebbe l’ex funzionario Reda Hemche, parente di Khelil (Brihi lo ha definito nipote, altri cugino)». Tra i vari movimenti di denaro fatti da Bedjaoui, a Il Sole 24 Ore risulta che ci siano stati anche bonifici a Omar Habour, un uomo d’affari che i giornali algerini ritengono molto vicino all’ex ministro dell’energia Khelil. Tant’è che i due condividono addirittura una proprietà immobiliare in Maryland. A poche decine di chilometri da Washington. Nella perquisizione in casa di Varone, nella stanza da letto, tra una cabina armadio e una cassaforte, la Guardia di Finanza ha rinvenuto settanta banconote da 500 euro e quattro da duecento. Per un totale di trentacinquemila euro in contanti. Niente rispetto a 197 milioni, ma notevole come argent de poche. Sarà adesso la Procura di Milano a valutare se ci sono i presupposti per rinviare a giudizio Pietro Varone. In quel caso sarebbe la seconda volta in pochi anni che manager di Saipem sono coinvolti in episodi di corruzione. Un procedimento penale contro cinque dirigenti della società di ingegneria di San Donato Milanese accusati di aver pagato tangenti a politici nigeriani si è infatti chiuso l’anno scorso per prescrizione. Ma per la stessa vicenda negli Usa Saipem ed Eni hanno pagato una sanzione di 240 milioni di dollari al Dipartimento di Giustizia e una di 125 milioni alla Sec (la Consob americana). Nell’accordo transattivo firmato il 7 luglio 2010 con le autorità americane, Saipem ed Eni certificavano di aver migliorato il proprio sistema di compliance interna e si impegnavano a «continuare a rispettare… la legislazione anti-corruzione in tutte le sue attività, e in quelle dei suoi affiliati, agenti e subappaltatori che interagiscono con pubblici ufficiali stranieri». Il comma 8 dell’accordo si chiudeva dicendo che «questi impegni non garantiranno però immunità riguardo a qualsiasi altro eventuale reato non dichiarato al Dipartimento di Giustizia al momento della firma di questo accordo». In un suo comunicato emesso ieri, l’Eni ha dichiarato di aver fornito, e di voler continuare a fornire «la massima cooperazione alla magistratura» milanese. Ma il problema per il gruppo potrebbe venire anche dalla giustizia Usa. Dopo la pubblicazione della notizia dell’inchiesta milanese sui media americani, a Wall Street ci si attende infatti che intervenga anche il Dipartimento di Giustizia. Che probabilmente contatterà la procura di Milano (con la quale aveva già collaborato per la vicenda nigeriana) per chiedere copia del suo incartamento. Il rischio conseguente è quello di una nuova supermulta. Insomma, pur senza soluzione di continuità, Saipem ha pagato Pearl e questa, dopo aver «shakerato» il denaro, avrebbe pagato consulenze sia all’allora capo di gabinetto di Sonatrach sia al socio dell’allora ministro dell’Energia algerino. A coordinare il tutto sono state società di facciata controllate da Farid Bedjaoui. Il quale ha apparentemente espresso riconoscenza al funzionario della Saipem che ha firmato il contratto con la sua Pearl. E il cerchio si chiude.

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