Marco De Martino, Vanity Fair 6/2/2013, 6 febbraio 2013
IL SEGRETO DI JOE? IL SALE NEL VINO
[Lidia Bastianich]
Forse bisogna iniziare dal cane, quello che secondo il suo padrone Joe Bastianich i piatti di alcuni concorrenti di MasterChef non li mangerebbe mai. Ma è veramente così schizzinoso? «Effettivamente viene trattato come uno di famiglia, non a caso lo hanno chiamato Quarto, perché è arrivato dopo la nascita dei primi tre figli di Joe», dice Lidia Bastianich, la mamma del giudice italiano americano di MasterChef. «Gli danno solo cibo selezionato dal veterinario. Per fortuna quando arrivo io gli passo del prosciutto sottobanco: deve vedere le feste che mi fa. È un Jack Russell: piccolo ma con grande personalità». Ride.
«Un po’ come il suo padrone». Sicuramente bisogna partire da questo salotto del Queens, con vista sulla baia e dall’altra parte dell’acqua la strada che porta a Manhattan, per capire chi è il vero duro di casa Bastianich. Nell’angolo della grande villa c’è la cucina dove vengono registrate le trasmissioni di mamma Lidia, viste da 50 milioni di persone negli Stati Uniti. A offrire il caffè c’è la sorella Tanya, laureata a Georgetown e Oxford in Storia dell’arte, che ora si occupa tra l’altro della vendita della pasta e dei sughi prodotti col marchio di famiglia. Seduta al tavolo da pranzo c’è nonna Erminia, che quando le parli risponde in perfetta cadenza giuliana: «Comandi!».
E al centro c’è Lidia, che a New York è arrivata bambina dall’Istria dopo due anni di campo profughi a Trieste, e che dal nulla è diventata una degli chef più famosi del mondo. Autrice di best seller. Proprietaria di sei ristoranti negli Stati Uniti e di due aziende vinicole in Italia, una in Frulli e una in Maremma. Socia col figlio, con Mario Batali e Oscar Farinetti, di Eataly, centro della gastronomia italiana a New York. E mamma orgogliosa ma anche un po’ imbarazzata della nuova star della Tv italiana: «Glielo dico sempre: perché ti comporti così, perché butti per terra i piatti? Fai fare una brutta figura a me, sembra che sia stata io a insegnarti certe cose. Ma poi penso che un reality sia fatto anche di queste esagerazioni, e vedo quanto gli piace avere successo, e penso che i figli prima o poi li devi lasciare volare da soli».
In che cosa riconosce suo figlio in Tv?
«Non nella cattiveria che gli imputano, perché lui in realtà è un buono. Certo però non è uno che te le manda a dire: è rigoroso, e pensa sempre che si debba fare uno sforzo in più. È cresciuto vedendo noi fare sacrifici, in una cultura che per noi emigrati era quella della sopravvivenza».
Da chi ha preso il suo carattere?
«Credo da me. Mio marito Felice, che è morto due anni fa, non era un uomo duro: era un artista, suonava la fisarmonica, gli andava bene anche non vincere sempre. Io invece ho sempre amato le sfide. Ma per tutti all’inizio è stato difficile, e Joe lo vedeva: è sempre vissuto dentro ai ristoranti che gestivamo, sin da quando aveva quattro anni».
Gli parlavate in italiano?
«Abbiamo sempre parlato il dialetto triestino, era la lingua di casa. Tanya almeno ha vissuto qualche anno a Prato, e il suo italiano ora è perfetto. Joe parte invece un po’ svantaggiato, ed è per questo che parla quell’italiano poetico, diciamo così. Deve pensare che anche i nostri amici erano istriani, si era formata come un’enclave nel quartiere del Queens. All’ora di cena si diceva: "Xe ora de magnar"».
E lui che cosa mangiava?
«Gli piacevano tantissimo i calamari fritti, i fagioli, il risotto che nei giorni di festa era con l’aragosta. Poi lo mettevo a letto raccontandogli le storie della mia infanzia in Istria: i pomeriggi nelle fighere che finivano a battaglie di fichi, mia mamma che mi mandava a raccogliere le uova delle anatre, che io tenevo a distanza con un bastone per non essere beccata. Adorava ascoltare quei racconti».
Tutto ruotava attorno al cibo...
«Io stavo al ristorante assieme a Felice anche 16 ore al giorno. Cominciavamo all’alba facendo la spesa al mercato del pesce di Fulton Street o a Hunts Point nel Bronx per la carne, dove accanto al posto dove i camionisti scaricavano le carcasse c’erano le prostitute. E finivamo la sera tardi contando i soldi. Era estenuante».
Joe che cosa faceva?
«Stava sempre con noi. La mattina andava con Felice al mercato, al pomeriggio studiava sulle casse dei pomodori. All’inizio piegava i tovaglioli, poi sempre di più».
Nella sua autobiografia Restaurant Man, Joe racconta di una vita sempre sul filo tra successo e disastro finanziario: è vero che Felice aveva un gessetto in tasca con cui cancellava le piccole macchie di sugo dalle tovaglie, per risparmiare sul lavasecco?
«Sì, certo: se non erano malridotte, le tovaglie andavano riusate. Poi, tra pranzo e cena si spegnevano le luci per risparmiare sull’elettricità. E Joe metteva sale nelle bottiglie di vino in cucina per impedire al personale di ubriacarsi».
Scrive che una sera, quando aveva 9 anni, abbassando la saracinesca vide un sacco di spazzatura muoversi: era pieno delle aragoste che i camerieri avevano nascosto per rivenderle...
«Vero anche questo, ma le cose non sono poi cambiate così tanto: se a New York tre ristoranti su quattro falliscono è perché ci sono mille modi per perdere quello che si è guadagnato. Bisogna stare attenti a tutto».
La sensazione è di una vita durissima...
«Sì, e credo sia questo che motiva l’ambizione di Joe. Vedeva il padre che amava tantissimo faticare e soffrire per mantenere la famiglia nel ristorante. Viaggiava nella station wagon allagata dai liquami del pollo che portavamo nel bagagliaio. E quando tornavamo a visitare la parte della famiglia rimasta a Pola, che a quel punto era già Jugoslavia, vedeva che cosa significava la povertà: i nostri parenti non avevano niente e noi arrivavamo col caffè, lo zucchero, le sigarette nascosti nelle valigie. È da tutto questo che si voleva emancipare, dimostrando a me e a suo padre di essere in grado di avere una vita diversa».
Era imbarazzato dall’avere genitori che facevano i ristoratori?
«Soffriva il paragone con i compagni di scuola figli di avvocati, scrittori, dottori: i suoi genitori invece stavano in cucina a pulire patate».
Voleva essere italiano o americano?
«Americano, e io l’ho incoraggiato in questa direzione: è giusto essere fieri del Paese che ti ha dato tanto. Io sono italiana, i miei figli americani».
Quando ha cominciato a dimostrare spirito imprenditoriale?
«Mi ricordo il periodo in cui faceva il paper boy, prima per il New York Post e poi, quando è stato promosso, per il New York Times. Per farlo dormire venti minuti di più la nonna gli arrotolava i giornali e li metteva nelle buste di plastica, così erano pronti quando lui inforcava la bici».
Una vera nonna italiana...
«Lo proteggeva sempre. Per esempio, quando dopo avere bruciato due motori del motoscafo che usava con gli amici nella baia io gli ho detto che non gli avrei finanziato il terzo, lui è andato dalla nonna. Che regolarmente ha tirato fuori i soldi».
Che cosa fece Joe con i primi guadagni?
«Poco, perché servirono per i bisogni della famiglia. Era il momento in cui avevamo appena venduto i due ristoranti aperti nel Queens e trovato il posto per aprire Felidia, il primo ristorante a Manhattan. Ma avevamo sbagliato i calcoli sui costi della ristrutturazione, e per le spese quotidiane abbiamo usato proprio i soldi di Joe».
Ragazze in casa ne giravano?
«Un bel po’, molto carine. Joe era un capobanda, quindi aveva successo. Ricordo una di 16 anni che era veramente bellina ma totalmente strabica, e mio padre diceva: "La xe bona per tener d’occhio il gatto mentre pulisce il pesce"».
Quello è anche stato il periodo dei primi spinelli: in famiglia se ne sapeva qualcosa?
«No, l’ho appreso dal suo libro: non so se nel racconto ha esagerato, o se io veramente non ne sapevo abbastanza. Ero certa che sperimentasse: dopotutto aveva una band, suonavano sempre i Doors, era l’epoca giusta. Quello che non mi è piaciuto è leggere che, mentre io pagavo la retta del Boston College, lui girava in tournée con i Grateful Dead».
Che cosa gli è rimasto dello spirito di quegli anni?
«Basta sentire che cosa dice sulla situazione in Italia: Joe è un businessman calcolatore e, allo stesso tempo, un hippy socialmente consapevole».
Ha mai avuto paura per lui?
«Solo quando il suo peso era veramente eccessivo, perché suo padre aveva sofferto di diabete. Il nostro lavoro da questo punto di vista è un disastro: non ci sono orari, c’è sempre qualcosa da assaggiare o da bere. Per fortuna quattro o cinque anni fa Joe ha cominciato a prendere sul serio il problema, e ha iniziato a correre. All’università aveva fatto hockey su ghiaccio e lotta libera, ma la combinazione di corsa e dieta lo ha veramente cambiato, e ora anche l’aspetto fisico si è aggiunto alle sfide che lui vuole vincere. In più, è molto affascinante».
Potrebbe mai diventare un cuoco?
«Sa cucinare molto bene, ma non credo sarebbe in grado di reggere la pressione della cucina di un ristorante. Ha scelto di fare il restaurant man perché ha un gusto eccezionale, e un enorme fiuto per gli affari. Ma Joe va a fasi, e la televisione lo sta cambiando di nuovo, da mamma lo vedo chiaramente, sta stimolando la sua parte creativa. Dove andrà non lo so, ma sono certa che seguirà il suo cuore».