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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

LA DOPPIA MORALE DEL GIAPPONE

TOKYO. Ha lasciato il regno dei sensi, ma non ha varcato l’ultima soglia ottenendo l’orgasmo assoluto mentre veniva strangolato dalla magnifica e insaziabile amante. Se ne è andato tre settimane fa a ottant’anni in un ospedale non lontano da Tokyo per una banale polmonite, amorevolmente assistito dalla moglie, l’attrice Akiko Koyama.
È terminata cosi, nel più borghese dei modi, la vita terrena di Nagisa Oshima, il regista giapponese che ha scandalizzato il Giappone e gran parte del mondo con i suoi film dissacratori con i quali intendeva svegliare a colpi di frusta la società giapponese che riteneva addomesticata e colonizzata dagli americani dopo la Seconda guerra mondiale.
Il film che l’ha fatto conoscere in occidente è Ecco l’impero dei sensi (Ai no korida, letteralmente La corrida dell’amore): la storia vera di Abe Sada, una giovane e bellissima cameriera, di cui si innamora perdutamente Kichizo, proprietario di un piccolo albergo. I due lasciano che la loro passione parossistica divampi senza freni ed il film li mostra in una serie di esplicite e fantasiose scene di reciproca possessione sessuale, sino alla drammatica conclusione in cui lei acconsente a strangolarlo per dargli l’orgasmo assoluto ed esiziale. La donna poi lo evira e fugge con il pene dell’amato.
Il film uscì nel 1976, ma fu immediatamente bloccato dalla Einren, l’organo di censura autoimpostosi dai produttori cinematografici giapponesi con lo scopo di impedire «l’abbassamento morale degli spettatori». Il film non è stato mai mostrato in Giappone fino al 2000, quando fa proiettato in alcune sale ma letteralmente dimezzato: 60 minuti invece dei 120 originali. Anche in Italia fu possibile vederlo integralmente solo in provincia in un paio di sale specializzate in proiezioni porno. In Francia, invece, il successo di critici e pubblico è clamoroso. Viene definito dai maggiori critici «capolavoro del cinema erotico».
Oshima firmò una cinquantina di opere e non una uscì senza suscitare polemiche. Da Notte e nebbia del Giappone, che gli stessi produttori ritirarono dalla circolazione temendo reazioni violente da parte dei movimenti di sinistra che il giornalista protagonista del film accusa di non aver saputo gestire l’ondata studentesca antiamericana del 1960; a Furyo, storia di un amore omosessuale tra David Bowie (prigioniero dei giapponesi) e Ryuichi Sakamoto (inflessibile ufficiale imperiale), dove si vede il più bel bacio d’amore tra due uomini della storia del cinema; sino a Max, amore mio commedia d’amore tra Charlotte Rampling e uno scimpanzè. Ogni sua opera era una sfida al perbenismo ipocrita della società giapponese che considera atto offensivo al pudore un bacio in pubblico di una coppia, ma ospita una delle maggiori industrie pornografiche del mondo. Che obbliga artisti di manga e registi di film a far scorrere sangue nero perché rosso sarebbe troppo traumatizzante, che da secoli chiama shunga (immagini di primavera) quelle più esplicite, che incarica funzionali postali di grattare via con lamette ogni pelo pubico dalle foto di nudo delle riviste pornografiche occidentali prima di inoltrarle agli abbonati. Che vieta la censura (art. 21 della Costituzione), ma blocca libri e film giudicati osceni. Che mette fuorilegge la prostituzione, ma importa donne da tutto il mondo per poter soddisfare l’inesauribile domanda di prestazioni sessuali mercenarie del popolo giapponese.
Il primo processo per oscenità del dopoguerra giapponese fa quello contro l’editore che aveva pubblicato una traduzione del capolavoro di D.H. Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, nel 1951. I giudici impiegarono sette anni per giungere a un verdetto di netta condanna per pubblicazione oscena, rifacendosi arbitrariamente all’art. 175 del codice penale in vigore sino alla fine del conflitto mondiale che definiva «oggetti osceni quelli che causano un senso di vergogna e di disgusto negli esseri umani». Nel corso del processo i giudici ricorsero anche alla macchina della verità per stabilire il livello di eccitazione sessuale percepito da ascoltatori volontari a cui venivano letti i passi più scabrosi del romanzo. Sino all’adozione della nuova costituzione il codice penale prevedeva anche la tortura e persino la condanna a morte per chi violava la censura.
A giudicare da sondaggi recenti, il Giappone vive il sesso in modo sempre più psicopatico: mariti e mogli si ignorano sessualmente dopo la nascita del primo figlio, ma poi sia gli uni che le altre cercano a pagamento esperienze sessuali, anche estreme. Una rigida convenzione proibisce in modo assoluto l’esibizione dell’organo sessuale maschile, ma permette qualsiasi altra rappresentazione di attività sessuale, sempre che non si vedano peli pubici. Le case di produzione sfornano senza sosta film porno mettendo la massima cura a non mostrare il pene nelle edizioni destinate al mercato interno (un modo spesso usato è coprire l’organo sessuale con nuvolette di vapore). Le case editrici sciorinano miriadi di manga porno dove trionfano lolitismo, violenza, sadomasochismo. Dilaga la prostituzione minorile, con ragazzine di liceo e di scuola media che si vendono per arricchire il proprio guardaroba con capi firmati dagli stilisti italiani e francesi. Secondo recenti studi sono almeno il 5 per cento le studentesse che praticano l’enjo kousai, incontri con adulti «con regalo». Prolificano sexyshops che espongono in vetrina mutandine usate con tanto di certificato di garanzia «mutandina di minorenne, usata e non lavata». Fanno affari d’oro i locali dove voyeur adulti possono guardare da dietro uno specchio unidirezionale ragazzine che si muovono in modo acerbamente provocante mostrando la biancheria intima che indossano. Se lo si desidera, si può pagare un supplemento e vedere le ragazzine che si sfilano le mutandine. Pagando un ulteriore supplemento si può anche accarezzare brevemente la ragazzina prescelta, ma infilando le mani in due buchi nella parete divisoria senza che lei veda chi la sta palpando. Parlour, sale di massaggi, love hotel e mille altri tipi di locali destinati a ogni forma di prostituzione si incontrano ovunque. Si possono sfogliare migliaia di cataloghi fotografici on line con offerte di ragazzi e ragazze, profilo, specialità, prezzo.
Con tutta questa frenetica attività sessuale mercenaria non sorprende che, secondo fonti di polizia, il bilancio annuale dell’industria pornografica giapponese tocchi l’esorbitante cifra di circa 100 miliardi di dollari (che in gran parte finisce nelle tasche della yakuza, la mafia giapponese).
Si calcola che nel solo quartiere Gifu a Tokyo, dove più si concentrano locali a luci rosse, siano ogni anno almeno un milione gli uomini che chiedono sesso a pagamento. Un’attrice porno guadagna l’equivalente di circa 250 euro all’ora. Una cameriera di pink salon che sculetta senza mutande tra clienti palpeggioni mette in tasca 30 euro l’ora, più mance (e pizzicotti) che si irrobustiscono proporzionalmente all’aumento del tasso alcolico nelle vene dei clienti.
E tuttavia nel Paese del Sol Levante la prostituzione è fuorilegge. Ma solo quella vaginale. Sei infatti libera di farti pagare qualsiasi prestazione sessuale, anche quelle più estreme, comprese quelle sadomaso, ma se ti beccano mentre il tuo cliente ti penetra, qualunque sia la posizione, anche quella del missionario, ti sbattono in galera perché di tutte le possibili attività sessuali tra adulti consenzienti, quella più naturale di tutte è proibita se mercenaria.
Un pudico bip si sostituisce a parole considerate scabrose nei talk-show televisivi. Può capitare di sentire : per i cristiani è un dogma la... bip... della Madonna. Anche vergine e verginità sono termini delicati da nascondere dietro il segnale sonoro.
L’elenco dell’incoerenza e ipocrisia dei costumi sessuali giapponesi che Oshima ha voluto fustigare nei suoi film, nei suoi tanti documentari e incontri televisivi, potrebbe continuare a lungo, ma esonderebbe dai confini di un articolo.
Lasciamo che sia lo stesso Oshima a concluderlo.
Rivolgendosi al giudice nel processo per oscenità subito per Ecco l’impero dei sensi, il regista imputato affermò : «Niente di ciò che può essere espresso è osceno. Osceno è ciò che rimane inespresso».