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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

ECCO L’AMERICA CHE SPARA SULLE RIFORME DI OBAMA


NEW YORK. Dopo la strage di Newtown nulla sarà più come prima. Quante volte l’abbiamo sentita ripetere, questa frase, dopo la sparatoria del 14 dicembre. Barack Obama andò a pronunciare uno dei suoi discorsi più belli in quella cittadina del Connecticut. Con tono misurato, rispettoso del lutto dei familiari, chiamò l’America a compiere un esame di coscienza, su tutto quello che «non sta facendo per proteggere i suoi bambini». Il presidente ci prova davvero, a trasformare quella tragedia in un punto di svolta, l’inizio di un rinsavimento, la riscossa contro la cultura delle armi. Se ci riuscirà, questo potrebbe diventare il lascito più importante del suo secondo mandato, una conquista di civiltà, non meno importante di quella riforma sanitaria su cui impegnò tanta parte del suo primo mandato. Ma quali chance ha di riuscirci? Il dibattito al Congresso è appena avviato, sulle proposte avanzate dalla Casa Bianca e anche da alcuni parlamentari. E già le certezza di una «svolta dopo Newtown» vacilla.
Ascoltiamo un esperto della materia. Toby Moffett è un ex-deputato del Connecticut. Per otto anni rappresentò al Congresso gli elettori di un collegio che include proprio la cittadina di Newtown dove avvenne il massacro dei bambini a dicembre. Lui storce il naso di fronte a certe descrizioni di Newtown come di una cittadina bucolica. Ne ha un ricordo ben diverso: «Una zona dominata dalle frange della destra più radicale e fanatica, gente che vuole armi di sterminio, convinta di doversi proteggere... dall’aggressione dello Stato».
Proprio così, nell’America profonda e bucolica, nelle cittadine con le villette a schiera e le scuole modello, dove tutti si conoscono e s’incontrano a messa la domenica, proprio lì regna la paranoia. È in quelle fazioni radicali, ma tutt’altro che piccole, che viene data una lettura folle del Secondo Emendamento. Quell’articolo aggiuntivo della Costituzione americana, dove è sancito il diritto dei cittadini a detenere armi, va inserito nel contesto storico in cui maturò. Cioè un’America che si era conquistata la sua indipendenza dall’imperialismo inglese grazie a una guerra partigiana, con delle «milizie popolari». Per chi vive a New York o a San Francisco – città dove le regole sulle armi sono molto più restrittive, pochi le hanno, e peraltro i reati di sangue sono diminuiti moltissimo negli ultimi anni – è fin troppo evidente che il Secondo Emendamento è arcaico. Ma nella cultura del complotto che dilaga in altre zone d’America, fin dalla prima elezione di Obama ci fu un boom nelle vendite di armi.
Spesso tra gli stessi individui che abboccavano a due leggende metropolitane: Obama musulmano; Obama nato all’estero e quindi ineleggibile. Dunque un alieno, un usurpatore alla Casa Bianca. Uno che prima o poi avrebbe certamente vietato le armi per calpestare le libertà fondamentali. Poi avrebbe mandato l’esercito e la polizia federale a sequestrarle, casa per casa. Donde la necessità di armarsi fino ai denti, pronti a combattere in difesa della libertà. Questa rappresentazione può sembrare esagerata solo a chi sorvola quell’America lì, e frequenta le due coste con le loro metropoli multietniche, vitali e sofisticate. Paradossalmente, Obama ha contribuito alla diffusione delle armi: per il solo fatto di esistere.
È chiaro che la paranoia viene alimentata, manipolata, sfruttata ad arte dai grossi interessi che stanno dietro la violenza armata: l’industria che fabbrica gli strumenti di morte; gli armaioli che le vendono. Questi sono i mercanti di morte che cinicamente usano l’ignoranza, il razzismo, la stupidità degli altri. La loro organizzazione più potente è la National Rifle Association (Nra). Gli italiani che hanno visto il documentario di Michael Moore sulla strage di Columbine (20 aprile 1999, anche quella in una scuola: 12 studenti e un insegnante uccisi) ricordano che già in quel film era evidenziato il ruolo politico della Nra. «Oggi» dice Moffett che non fu rieletto proprio per l’ostilità della Nra «quell’organizzazione è ancora più estremista, ancora più ricca di fondi, e ancora più minacciosa rispetto ad allora». Molte decine di parlamentari, i cui seggi sono potenzialmente in bilico, vivono sotto l’incubo che la Nra gli scateni contro i propri aderenti: i fanatici delle armi sono un elettorato disciplinato, compatto, obbediente, la loro diserzione può essere fatale. E così dopo Newtown la Nra ha adottato una tattica abituale. Prima ha taciuto, per non esporsi nei giorni in cui l’opinione pubblica nazionale era sotto shock. Poi, cautamente, ha rialzato la testa, lanciando alcuni ballon d’essai. Per esempio la tesi secondo cui a Newtown la strage sarebbe stata evitata «se gli insegnanti potessero andare a scuola armati».
Sembra una follia? Ebbene, da allora in alcuni Stati si sta discutendo proprio questo: se la migliore prevenzione non consista nell’aumentare la diffusione delle armi, così che per ogni pazzo determinato a fare una carneficina «ci siano cittadini onesti, e armati, in grado di neutralizzarlo». La lezione di Newtown è meno univoca di quanto pensiamo noi newyorchesi. Noi abbiamo il sindaco più anti-armi d’America, Michael Bloomberg guida un’alleanza di 150 sindaci decisi a fare di tutto per limitare la diffusione delle armi. «Ma temo che al Congresso stia avvenendo una sceneggiata, l’illusione di un cambiamento», denuncia Moffett.
Quali sono le proposte sul tappeto? Fra i disegni di legge d’iniziativa parlamentare, figurano il ripristino del divieto sulle armi semiautomatiche da combattimento (già in vigore dal 1994 ma scaduto nel 2004); il divieto di caricatori automatici di potenza superiore ai 10 colpi; il divieto di proiettili capaci di perforare i giubbotti anti-proiettile in dotazione alle forze dell’ordine; l’obbligo per i rivenditori di effettuare un controllo sulla fedina penale degli acquirenti. Già l’elenco di queste proposte dà la misura dell’arretratezza del dibattito. Nessuno si sogna neppure lontanamente di adottare legislazioni di tipo europeo. Le restrizioni, minimaliste, riguardano armi di sterminio. Oppure l’obbligo di controlli che dovrebbero già esistere: com’è possibile che non sia in vigore una barriera contro le vendite ai criminali? Eppure anche queste proposte d’iniziativa parlamentare hanno un percorso in salita. La più coraggiosa porta la firma della senatrice di San Francisco, Dianne Feinstein. Lei stessa è tutt’altro che ottimista sulle chance di farla approvare.
Con un Congresso dove già la lobby Nra ha rialzato la testa, e manovra per ricattare i parlamentari uno ad uno, che cosa può fare Obama? Il presidente ha annunciato una lista di decreti esecutivi, che lui può emanare senza dover passare dall’approvazione parlamentare. Tra le misure di Obama: la richiesta a tutte le agenzie federali di mettere a disposizione i dati utili ai fini dei controlli d’identità sugli acquirenti di armi; la rimozione di ostacoli burocratici che impediscono agli Stati di fornire a loro volta dati dentro il sistema informatico unificato; «incentivi» agli Stati perché collaborino a riversare le loro banche dati in quella federale. Come si vede da questi esempi, anche Obama ha un potere limitatissimo. Se si azzardasse a toccare il diritto di detenere armi, il presidente si esporrebbe a un ricorso presso la Corte suprema dove dominano giudici di destra (e alcuni aggiungono: questo presidente correrebbe seriamente il rischio di essere assassinato). Ma anche senza arrivare così lontano, Obama sa che qualsiasi cosa faccia la sua azione può essere vanificata da quella dei singoli Stati. È davvero sconcertante che la Casa Bianca debba «incentivare» gli Stati, un eufemismo per dire che certe autorità locali boicottano la banca dati federale: quella che deve consentire a un armaiolo di verificare se l’acquirente di un kalashnikov è un terrorista, un pluriomicida, un malato mentale grave. Eppure è proprio questo che accade negli Stati Uniti, in nome delle libertà fondamentali del cittadino.
Federico Rampini