Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 08/02/2013, 8 febbraio 2013
COME IL CASO INGROIA PUÒ CAMBIARE LA MAGISTRATURA
Il Corriere è tornato sull’argomento giudici che entrano in politica. Quando prestavo servizio nella magistratura ho sempre assunto pubblicamente posizioni critiche nei confronti dei giudici che entrano ed escono dalla magistratura e dalla politica, traendo profitto, a seconda delle circostanze, da questa o da quella pregressa funzione. Ora è legittimo che a un certo momento della sua attività un giudice ritenga che la sua vocazione non sia questa, ma quella della politica. Ma in tal caso dovrebbe valere la norma che esiste in altri ordinamenti: si deve dimettere dalla magistratura e poi, eletto o non eletto, non può più rientrarvi.
Sivio Benvenuto
silviobenvenuto@alice.it
Ho letto l’articolo di Giovanni Bianconi e sono perfettamente d’accordo sia sui suoi contenuti sia con il procuratore della Repubblica Bruti Liberati e con il professor Luigi Ferrajoli (Corriere, 4 febbraio). Informo che, sull’argomento, ho subito consegnato un esposto al Csm.
Antonio Melillo
antonio.melillo@fastwebnet.it
Cari lettori, finiremo per essere grati ad Antonio Ingroia. L’ex procuratore di Palermo non ha fatto nulla di «tecnicamente» diverso da quello che hanno fatto negli scorsi anni molti suoi colleghi. Ha scritto libri. Ha fatto pubbliche dichiarazioni sulle inchieste di cui era titolare. Ha partecipato a pubblici raduni in cui si parlava di politica e governo. Ha chiesto un’aspettativa al Consiglio superiore della magistratura. Ha fondato un movimento politico ed è candidato al Parlamento (nel caso Ingroia alla presidenza del Consiglio). Ma la sua polemica con il Quirinale, il suo stile, la rapidità con cui ha abbandonato due istituzioni a cui doveva rendere un servizio (la Procura di Palermo e l’Onu) sembrano avere suscitato in molti dei suoi colleghi, finalmente, una salutare reazione. La magistratura è piena di persone che disapprovano questi episodi, ma le loro reazioni sono state in buona parte, sinora, prudenti e sommesse. Il problema, quindi, non è l’intollerabile anomalia del caso Ingroia. Il vero problema è un altro: perché l’ordine giudiziario abbia potuto resistere così lungamente a dimostrarsi consapevole di una questione che stava diventando sempre più imbarazzante per il buon rapporto tra le istituzioni dello Stato. Credo che le ragioni siano soprattutto due.
La prima è d’ordine corporativo. Le molte crisi italiane degli scorsi anni (dal terrorismo alla corruzione e alla criminalità organizzata) hanno sproporzionatamente allargato le funzioni della magistratura e hanno dato ai procuratori un senso del potere che mi è sempre sembrato anomalo. Questo potere ha avuto anche l’effetto di accrescere la loro influenza all’interno dell’ordine e di consentire l’esercizio di una sorta di veto su qualsiasi riforma destinata a ristabilire un più giusto equilibrio fra le istituzioni del Paese.
La seconda ragione è Berlusconi. La presenza a Palazzo Chigi di un uomo troppo personalmente coinvolto in affari di giustizia ha finito per delegittimare tutti i sacrosanti tentativi riformatori degli ultimi due decenni. Il numero delle leggi ad personam approvate dal Parlamento italiano ha ulteriormente rafforzato le file dei magistrati contrari alle riforme. L’opposizione non ha collaborato e soltanto la storia ci dirà per quali ragioni abbia deciso di opporsi a riforme che sono nell’interesse del Paese.
Aggiungo, cari lettori, che tutto questo non ha avuto l’effetto di migliorare l’immagine della magistratura. Dopo il prezzo umano pagato dai magistrati nella lotta contro il terrorismo e la mafia, era lecito sperare che l’ordine non attendesse il governo e il Parlamento per avanzare proposte sul proprio status. Non era necessario aspettare il caso Ingroia per decidere che un magistrato, prima di entrare in politica, dovrebbe dimettersi o, quanto meno, attendere un certo lasso di tempo prima di candidarsi. Non era necessario sopportare con disagio il caso del procuratore di Palermo prima di formulare qualche norma sui comportamenti pubblici (convegni, cortei, interviste, libri, articoli) di una persona che deve dare, per essere credibile, una convincente prova d’imparzialità.
Sergio Romano