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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

BIOGRAFIA DI MIA MARTINI OVVERO STORIA DI UNA VITA SPEZZATA DALLA CALUNNIA

La chiamavano Mimì, ma il suo nome era Domenica. Domenica Adriana Rita Berté, nata il 20 settembre 1947 a Bagnara Calabra. In famiglia era Mimì, e così sarà più tardi per gli amici più cari. Così si firma nelle lettere che manda al padre Giuseppe che se ne è andato di casa, a insegnare al Nord, lasciando una moglie e quattro figlie che non riusciranno più a riempire il vuoto della sua assenza.
Tutti i nomi di Mimì — Mimì Berté suona bene per il gusto yeye degli anni 60, e così diventa il suo primo nome d’arte, per la casa discografica di Carlo Alberto Rossi, a Milano, la prima che, nel 1963, le offre un contratto. Escono i primi 45 giri, che non sono un granché («il magone sai non è un grosso mago...») e che non la portano da nessuna parte. Lei è scontenta, sognava un altro inizio per la sua carriera. Così, 1967, rompe con Rossi, cambia casa discografica (è il primo passaggio di una lunga serie, che le costeranno penali gravosissime) e va a Roma. Ha deciso di dire basta alle «canzoni squallide». E qui, ecco un altro nome, il suo nome di battesimo, Domenica, sul manifesto dei concerti che tiene, per pochissimi intenditori, con amici musicisti underground. Ma tre anni dopo c’è un’altra mutazione, Domenica-Mimì diventa Mia Martini. A ribattezzarla è Alberigo Crocetta, il creatore del Piper, che la scopre al locale gemello aperto a Viareggio; gli piace la sua voce, dopo Patty Pravo sta cercando un’altra star. Il cognome lo dà lui, Martini, perché è la parola italiana più conosciuta in America dopo pizza e spaghetti. Mia lo sceglie lei, in omaggio a Mia Farrow.
È troppo presto per pensare al titolo-manifesto del primo femminismo, «Io sono mia», così come ai tempi di Mimì era troppo tardi per chiamare in causa Puccini. Ma intanto arriva il primo colpo basso del destino: nell’agosto del ’69, in Sardegna, viene arrestata per possesso di hashish. Resterà in carcere fino a dicembre. Da questo momento la sua vita artistica sarà costellata da una serie impressionante di successi e catastrofi. In tre anni, 1971-1973, diventa la numero uno; per lei scrivono Lauzi, Baldan Bembo, Califano e un giovanissimo Claudio Baglioni. Con Padre davvero (per «Sorrisi e canzoni» ha il sapore di un «parricidio») vince il primo premio al Festival di Viareggio, 1971, un raduno che vorrebbe somigliare a Woodstock; poi, con Piccolo uomo e con Minuetto, trionfa per due anni di seguito al Festivalbar. Però succede qualcosa che getta un’ombra nerissima sulla sua storia: due musicisti della band che l’accompagnano in tournée muoiono in un incidente d’auto. È il 1971, nasce così la voce che quella ragazza che va sul palco con una bombetta nera e uno scialle viola, che è finita in carcere per la droga, sia una che porta male, una jettatrice. Dicerie cattive che si alimentano con le gelosie e l’invidia. Si accumulano aneddoti sinistri e spesso di fantasia (incidenti d’auto, un tendone carico d’acqua che cede, una camera d’albergo che va a fuoco) che diventano prove a carico della strega. È una sorta di processo che non prevede assoluzioni. Lei, Mia, all’inizio prova a scherzarci su, ma non c’è niente da fare. La persecuzione dura più di dieci anni, ci sono trasmissioni tv che la rifiutano, girano perfide battute, e non contano niente le affermazioni e i riconoscimenti che ottiene. Come la collaborazione (1977-78) con Aznavour.
Agli inizi degli anni ’80 si opera alle corde vocali. Nell’82, a Sanremo, con E non finisce mica il cielo di Ivano Fossati, vince il Premio della critica, quel premio che dopo la sua morte le sarà intitolato. Isolata, maledetta, è esposta a ogni attacco; a un certo punto anche il suo rapporto con la sorella Loredana Berté sembra rompersi. Nell’83 decide di smettere di cantare, di scomparire. Quando nell’89 torna a Sanremo, con Almeno tu nell’universo di Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, la maledizione sembra spezzata. Con una nuova voce, più profonda, più blues, regala nei pochi anni che le restano una serie di capolavori: Gli uomini non cambiano, La nevicata del ’56, il duetto con Roberto Murolo Cu’mme. Non è più la hippy con lo scialle viola, è vestita Armani e si presenta come una grande interprete. Ma ancora una volta la sorte le è nemica, penali non pagate per rotture di contratti la perseguitano, nonostante il ritrovato successo è piena di debiti. Decide di andare a vivere vicino al padre, a Cardano al Campo in provincia di Varese. Una casa modesta, quella in cui la mattina del 14 maggio del 1995 viene trovata morta.
La sua voce umana — A questa donna dai molti nomi e dai grandi dolori Aldo Nove dedica Mi chiamo... (Skira, in libreria dal 13 febbraio nella collana Narrativa). È una sorta di oratorio laico, un monologo che alterna lunghi recitativi, destinato al teatro (lo spettacolo, con regia di Michele De Vita Conti, protagonista Erika Urban, debutterà a giugno, a Milano, all’ex Paolo Pini), Mi chiamo..., dice Nove, prende a modello La voce umana di Cocteau, che fu portato sullo schermo da Rossellini e Anna Magnani. Anche qui c’è una notte di disperazione, in cui la donna che si chiama Mia Martini cerca le parole per dire il dolore che l’ha schiantata. Si rivolge a Dio, che però sembra assente. Dice di credere ancora nella magia dei versi e della musica, ma confessa che non ce la fa più. «Non voglio più vedere. Più. Adesso non c’è più poesia». Alla vita dolorosa di Mia Martini, Nove si è avvicinato grazie alle storie che gli ha raccontato Gianna, la moglie di Giancarlo Bigazzi, storie di miserabile cattiveria indirizzata contro la strega che portava sfortuna: ristoranti che la respingevano, colleghi che sparlavano, gente che faceva gli scongiuri solo a sentire il suo nome. «Da bambino», dice Nove, «mi ricordo due suoi dischi che mettevo nel mangiadischi di mia madre, Minuetto e Piccolo uomo. Non capivo le parole, il senso di quello che la canzone raccontava, però mi ricordo che mi commuovevano fino a piangere».
Nei frammenti di racconto che la donna fa della sua vita, la parola che torna sempre è magia: magia della musica, della parola. Quella che, bambina, trovava nelle canzoni ascoltate alla radio, da Nilla Pizzi per esempio, ma il padre non voleva, perché la musica leggera non era una cosa seria. Lei, invece, insiste; partecipa a concorsi locali, sale sul palco e, come sempre farà, «con gli occhi chiusi si abbandonava alla musica, al sogno, alla magia». È una creatura contraddittoria, lacerata, dice Nove: «È insieme la donna del Sud più antico, e la ragazza rivoluzionaria che guarda a Janis Joplin e a Jim Morrison». Soffre per la lontananza del padre, ma solo così può arrivare a fare la cantante. È fragile, e quando scatta la storia della jettatura, il suo equilibrio si incrina e niente riuscirà più a riparare l’immenso male che le è stato inferto. «Poteva aspirare a una carriera internazionale, in Francia per esempio, e invece sceglie di restare in Italia; per accorgersi troppo tardi che l’Italia è un paesone maldicente e cattivo, dove il divertimento è quello di seminare odio, creare polemiche. Di lei scrivono che disprezza Orietta Berti, che odia la Rettore, creano perfino un conflitto con la sorella Loredana. E lei alla fine si arrende». Certo, dice Nove, nessuno come lei riesce a esprimere la passione d’amore, il senso tragico dell’abbandono, l’abisso della solitudine. E quali canzoni piacciono di più ad Aldo Nove? «Quelle che mi commuovono per la loro intensità, come Minuetto, Agapimu, cantata in greco, Cu’mme di Gragnaniello cantata con Murolo. E naturalmente Almeno tu nell’universo: l’hanno ripresa in tante, ma nessuna sarà mai come lei».
Ranieri Polese