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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

SE ANCHE LE MASCHERE SONO VIETATE A CARNEVALE

L’antico Carnevale di Bagolino, piccolo comune della montagna bresciana noto appunto per il suo Carnevale e per questo prediletto dagli antropologi, è nettamente diviso in due. Da una parte le maschere, ragazzotti travestiti da vecchiacce che approfittano dell’apparente innocuità per smanacciare le ragazze. Dall’altra i ballerini, in costume settecentesco e con fastosi cappelli ricoperti di nastri e decorati con tutti gli ori di famiglia. I quali ballerini eseguono ritualmente una serie fissa di danze collettive su musiche tramandate e non scritte. Sul far della sera, le copiose e comuni libagioni tendono ad avvicinare, ma non a confondere, le due parti.


Il Carnevale ha sempre avuto due facce, due anime. La prima è l’erede degli antichi Saturnali, la festa popolare, ma nel senso preciso di festa dei poveracci: il mondo alla rovescia. E quindi scurrile, spesso triviale, sempre e per definizione licenziosa, essendo lo spazio proprio della licenza. La seconda è invece la celebrazione ufficiale o semiufficiale della comunità, cittadina o meno. Spesso elargita e patrocinata dal signore, il doge a Venezia, i Medici a Firenze. Alla cui presenza si dispiegano meraviglie e artifici, ultimi discendenti degli apparecchi di stupefazione esibiti dai grandi sovrani ellenistici per significare l’intelligenza del proprio potere. Una contrapposizione che è anche, ovviamente, una contrapposizione sociale tra Carnevale dei poveri e Carnevale dei ricchi. Ma se i due volti sono sempre esistiti — a Bagolino gli stracci delle maschere contro le sete dei ballerini—la novità più recente, in gran parte proprio di quest’anno, è il proliferare di una vasta regolamentazione tesa a mettere sotto controllo il primo dei due carnevali, quello più sguaiato, più imbarazzante, ma anche — diciamolo—più gioioso e divertente. È una vera e propria pioggia di editti e di gride, destinate certo come le loro antenate manzoniane a rimanere per la più parte lettera morta, ma nondimeno significative, sia per l’estensione geografica — dalle Alpi a Capo Passero —, sia per la fantasia nell’individuazione delle fattispecie perseguibili.
Si legge bene in controluce l’esasperazione di tanti bravi sindaci i quali, subissati negli anni scorsi da proteste, esposti e reclami, hanno deciso, quest’anno, di mettersi al riparo e di farla finita una volta per tutte. L’idea di fondo è quella non di perseguire comportamenti spiacevoli o addirittura pericolosi, ma di vietare, per via elencativa, l’uso degli oggetti che li mettono in atto. Con effetti a volte esilaranti. Come quando il sindaco di Strangolagalli, in provincia di Frosinone, vieta la detenzione «di qualsiasi oggetto che possa recare offesa o molestia alle persone», cioè all’incirca dell’universo mondo. Il divieto è spesso, in sé, sensato, come quello riguardante le bombolette spray e imperante più o meno ovunque, da Boscoreale nel napoletano a Pieve di Soligo a Diano Marina a Moggia (Trieste) alla lombarda Lambrugo, ad Alatri, a Gioiosa Marea (Messina), a Canicattì, a Bronte. Ma diventa eccessivo quando aggiunge agli spray coloranti (mezzo privilegiato dei nostri deturpatori urbani, Carnevale o no) l’innocua schiuma da barba. Così come fa un certo effetto vedere vietato in periodo carnevalesco l’uso di mazze, bastoni, martelli e manganelli (lunghi più di 40 centimetri, si precisa a Bronte), quasi che nel resto dell’anno li si potesse liberamente usare, si presume sulle teste altrui. Salvo poi comprendere, o perché esplicitamente detto o perché a volte sottinteso (speriamo...), che si fa riferimento a copie in plastica. A Diano Marina, e solo a Diano Marina, a questi oggetti contundenti si aggiungono le eleganti «spade da Zorro».
D’obbligo il divieto di petardi, mortaretti e botti in genere. Staremo a vedere, ma con manzoniano scetticismo. Più curioso il divieto riguardante prodotti naturali, «uova, farina e agrumi» a Boscoreale, «farina » a Pieve di Soligo, «lanci di uova, ortaggi e simili» ad Alatri, «uova, farina o talco» a Gioiosa Marea, «farinacei e uova» a Torre del Greco. Dove la curiosità deriva dal fatto che il divieto riguarda la vendita ai minori, mentre i diciottenni possono evidentemente circolare con sporte piene di uova e ortaggi. Ma soprattutto colpisce l’improvvisa, e quasi commovente, irruzione di una dimenticata Italia contadina, con le sue umili risate davanti ai maggiorenti imbiancati di farina. Così come si risente un’aria di tempi andati nel divieto di mascherarsi, a Pieve di Soligo, «dall’imbrunire fino all’alba», cioè nel tratto di tempo in cui si usava chiudere le porte di città e paesi. Ma, a proposito di maschere, a volte ci si allontana decisamente dalla tradizione. Perché è proprio l’essenza della maschera, cioè il celare la propria identità, a essere negata. A Boscoreale è vietato l’uso di maschere «che precludano l’immediato e sicuro riconoscimento del soggetto». Ma che maschere sono? A Pieve di Soligo bisognerà togliersele immediatamente, appena richiesti. Forse, dietro questo diluvio di divieti, ci sono nervi a fior di pelle, c’è una specie di irritazione sorda, che rischia di tramutarsi in acredine. Può darsi che un po’ di farina sia finita negli occhi di qualcuno, che qualcun’altro si sia preso qualche «ortaggio» in testa, che qualche ragazza sia stata un po’ sballottata. Ma c’è di peggio, di molto peggio. Tra il molto peggio c’è l’idea di trasformare il Carnevale — così antico, così lontano, così superstite — in una celebrazione, in una solennità del divertimento, in un evento tutto turistico e promozionale. «Ah, nel comun tripudio, sallo il cielo/ Quanti infelici soffron!», canta la morente Violetta della «Traviata», mentre il coro delle maschere parigine inneggia al trionfo del bue grasso. Tutti siamo un poco infelici, tutti un poco soffriamo. Ma non è il caso di privarci del tutto del bue grasso.
Gian Arturo Ferrari