Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

ADESSO DA BROOKLYN SI VEDE UN’ALTRA NEW YORK


Storia di qualche tempo fa: Eric Schmidt accetta, dopo molte richieste, di farsi intervistare dal Corriere. Non c’è bisogno di andare a trovarlo a Mountain View, nell’avveniristica sede di Google, la società di cui è presidente: «Ci vediamo nei nostri uffici di New York». Lo raggiungo al secondo piano di un palazzone di mattoni della Sesta Avenue, pattinando su un parquet lucidissimo ma vecchio di almeno un secolo e facendo lo slalom tra vecchie tubature di ghisa: molti dei tremila dipendenti newyorchesi di Google, la società dei giovani geni informatici che ogni giorno costruiscono un pezzetto di futuro, lavorano qui, in un tempio dell’archeologia industriale. Una vecchia fabbrica di biscotti trasformata in palazzo di uffici che al pian terreno ospita anche il Chelsea Market e perfino il nuovo ristorante di Giovanni Rana.
I team del marketing e diversi gruppi di ricercatori di Google occupano le stesse sale nelle quali la Nabisco ha creato e prodotto i primi Oreo. È un pezzo della straordinaria storia di New York, della capacità della metropoli, che ancora nel 1950 era il maggior centro industriale del mondo, di cambiare continuamente pelle, di sopravvivere alle trasformazioni, di reinventarsi dandosi altri ruoli dopo la deindustrializzazione, altri modelli di convivenza: non ci sono più gli scantinati pieni di macchine tessili né il porto che, da solo, dava lavoro a 200mila persone, ma nel “garment district” sono spuntate le scuole di design e le società di servizi per la moda mentre più giù, attorno a Wall Street, sono cresciute (anche troppo, visto il crollo del 2008) banche e grandi società finanziarie. New York è diventata capitale della cultura, dell’arte, la città dell’informazione (reti televisive e giornali), delle università (Columbia, NYU, Cuny, Cornell in arrivo a Roosevelt Island, più tutti i college metropolitani), il rifugio dei ricchi di tutto il mondo.
E, ora, comincia a riscoprirsi di nuovo città industriale, sede di fabbriche diverse, leggere come i byte dell’economia digitale. Un tessuto fatto di aziende informatiche come Foursquare e DoubleClick che hanno seguito Google nell’area orientale di Manhattan, a cavallo tra Chelsea e il Meatpacking District. Un’area ormai universalmente nota come “Silicon Alley”: l’orgogliosa risposta di New York alla valle californiana dell’ hi-tech. Qualche miglio più in là di là, oltre l’East River, nel cuore di Brooklyn e nel Queens, a Long Island City, spuntano le nuove fabbriche del futuro: aziende come MakerBot e Shapeways che producono stampanti tridimensionali. Apparecchi grossi come fotocopiatrici capaci di costruire oggetti modellati al computer. Per Chris Anderson, che ha lasciato la direzione di Wired, il magazine da lui fondato, per unirsi al movimento dei “makers”, questa sarà la prossima rivoluzione industriale dell’umanità, importante come quella del motore a vapore e dell’elettricità. Probabilmente esagera, ma è un fatto che questa possibile svolta sta prendendo corpo in capannoni della vecchia metropoli dell’Atlantico. Qualcuno vede in tutto ciò l’alba di una nuova era di artigianato diffuso, di un’industria polverizzata che può ridare vita ai capannoni arrugginiti, a fabbriche e magazzini abbandonati, dal Bronx alla punta meridionale di Brooklyn, la Brighton Beach degli ebrei russi.
Ma per adesso siamo alla fantasociologia e, comunque, si tratterebbe di un’era non priva di incognite, visto che, per esempio, alcuni appassionati di armi hanno appena dimostrato di potersi costruire in casa con le stampanti 3D i caricatori da 30 colpi per fucili e pistole semiautomatiche che Barack Obama vuole proibire per legge.
New York, la “città che non dorme mai”, è anche una città con nove vite, che non muore mai. Si reinventa sempre, ma in questo processo perde anche una parte del suo spirito, le sue vecchie caratteristiche, imprime alterazioni profonde al suo tessuto sociale. La città delle cartoline in bianco e nero che era una federazione di villaggi urbani sorti uno a fianco all’altro, non esiste più. Bisogna andarne a trovare qualche brandello nei borghi. Per esempio nel quartiere degli ebrei chassidici di Brooklyn, attorno a Flatbush Avenue dove le strade sono pattugliate da miliziani religiosi che chiedono ai negozi di abbigliamento di ritirare dalle vetrine i manichini, considerati strumenti di perdizione. O ad Arthur Avenue, la Little Italy del Bronx, dove trovi ancora chi fa le mozzarelle a mano davanti a te, i pastifici artigianali, virtuosi che arrotolano foglie di tabacco per farne sigari. Al centro di New York i piccoli borghi etnici sono spariti (la Little Italy di Manhattan è ormai diventata un quartiere cinese con l’unica “enclave” dei ristoranti italiani di Mulberry Street).
Al loro posto cresce la metropoli globale che sconvolge i vecchi equilibri e trasforma Manhattan in un’isola per soli ricchi (o, almeno, benestanti). Una trasfigurazione che irrita e allarma molti intellettuali come la sociologa Sharon Zukin, il cui ultimo saggio, The Naked City, la città nuda, ora pubblicato anche in Italia da Il Mulino (che ha scelto come titolo un meno evocativo “L’altra New York”), è un atto d’accusa contro le forze economiche che «hanno trasformato New York in una città senz’anima».
Le tesi piuttosto radicali della Zukin fanno sicuramente discutere, anche perché la docente del Brooklyn College, autrice anche di saggi sul socialismo nella ex Jugoslavia del dopo-Tito, colora i suoi ragionamenti di ideologia, immaginando un interventismo statale capillare a tutela delle componenti tradizionali dell’ecosistema urbano che rischiano di scomparire. Un vero e proprio protezionismo urbanistico, respinto anche da chi non ha l’indole del liberista e non disdegna le protezioni dello Stato sociale.
Ma è indubbiamente vero che le ondate successive del cambiamento a New York hanno preso il ritmo di una rivoluzione permanente pilotata dai grandi tycoon dell’edilizia e dai protagonisti del mercato immobiliare che hanno messo in piedi una specie di gioco dell’oca permanente nel quale c’è sempre un quartiere o un borgo del quale si aspetta la riqualificazione, con relativo boom dei valori immobiliari. Così spariscono interi quartieri: le vecchie case vengono sostituite, almeno a Manhattan, da torri di appartamenti. Se ne vanno i piccoli artigiani e, lamenta la Zukin, con la loro partenza si dissolve la città nella quale il ricco professionista di Manhattan viveva a fianco del povero lavoratore del “fronte del porto” o sedeva al bancone del bar a fianco dell’impiegato del ceto medio.
La cosiddetta “gentrificazione” ha reso proibitivo il costo della vita nelle aree “riqualificate” per chi non dispone di un reddito elevato e così Manhattan, distretto dopo distretto, dall’East Village a Hell’s Kitchen, diventa una zona residenziale ad alto costo. Gli artisti che avevano messo radici a Soho se ne sono già andati a Williamsburg, il quartiere più “chic” di Brooklyn. Ma, anche qui, il meccanismo del gioco dell’oca ha messo fuori combattimento le industrie manifatturiere, che si sono trasferite altrove. Dietro le case ridipinte di fresco con colori sgargianti e le vie attorno Bedford Avenue brulicanti di giovani c’è la Spoon River delle famiglie operaie costrette ad andarsene altrove dal repentino aumento del costo della vita.
Insieme al libro della Zukin fa discutere un saggio dell’architetto Michael Sorkin, Twenty Minutes in Manhattan, anch’esso pieno di nostalgia per la scomparsa della città manifatturiera, che dava lavoro soprattutto a una “working class” ormai sparita insieme alle sue fabbriche. Chi va a Tribeca, ormai, cerca ristoranti alla moda o i nuovi uffici finanziari sorti a ridosso del World Trade Center, non le ultime tracce delle concerie e di fabbriche e laboratori artigiani che sfornavano borse e cinte. Più a nord i capannoni del “meatpacking district”, mattatoi e impianti di lavorazione della carne, sono divenuti boutique, gallerie d’arte, locali notturni, ristoranti di tendenza come le cattedrali del “fusion” asiatico, da “Spice Market” a “Marimoto”, ai vari “Buddha Bar” e “Buddakan”. E la ferrovia soprelevata, costruita per alimentare questi stabilimenti, da ammasso di strutture abbandonate e arrugginite si è trasformata nella passeggiata più “trendy” della città, la “highline”.

Rinnovamento identità perdute. Tutti e due gli autori rispolverano l’epopea di Jane Jacobs, l’attivista che negli anni Sessanta scrisse un’opera destinata a diventare storica – The Death and Life of Great American Cities – dalla quale è nata la mistica dei piccoli borghi nella metropoli e il mito del Greenwich Village. Il loro rammarico è che la vittoria della Jacobs – anima di un movimento che ha difeso la New York dei piccoli villaggi urbani dal tentativo del grande pianificatore urbano Robert Moses di spazzare via tutto per fare spazio alla grande edilizia e alle infrastrutture della modernità industriale – va ora irrimediabilmente perduta, un pezzo alla volta, per l’azione implacabile degli immobiliaristi diventati maestri di “gentrificazione”. Un processo presentato come rinnovamento e pulizia del tessuto urbano che, in realtà, si traduce nella demolizione del vecchio borgo con conseguente evaporazione della sua organizzazione sociale.
Le nostalgie di Zukin e Sorkin nascono anche dalla loro incapacità di comprendere la portata e l’importanza della trasformazione industriale dell’America, l’impossibilità di mantenere impianti in mezzo alle case con tutti i problemi di inquinamento e di limiti allo sviluppo che ciò comportava. Ma la sociologa di Brooklyn, peraltro scatenata nella critica a un modello di capitalismo che, per lei, corre a perdifiato e travolge tutto inseguendo i cambiamenti dei gusti dei consumatori, alla fine ammette che si stanno diffondendo processi di “gentrificazione” alimentati anche da fenomeni culturali e non solo dagli implacabili processi economici. Come a Brooklyn, eletta anni fa dalla guida Lonely Planet come «la parte più hippy della città di New York» grazie alla scoperta e alla pubblicizzazione del Rubulad: un circuito di feste e spettacoli illegali o semi-legali, come i “rave party”, che si tengono soprattutto in magazzini abbandonati, “loft” e bar polacchi di Williamsburg, il distretto più vivo di questa parte della città.
Secondo il Village Voice l’atmosfera “underground” del quartiere è stata ormai distrutta dalla pubblicità data al fenomeno. Ma intanto è stata proprio quest’aria nuova a favorire un processo di riqualificazione urbana che ha avuto come motore la diffusione della cultura pop, anziché l’assalto degli immobiliaristi. Che, poi, sono comunque arrivati coi loro condomini di lusso affacciati sull’East River, una volta consolidata l’immagine di Williamsburg come quartiere più “cool” di New York.
Implacabile e un po’ troppo ideologica, la Zukin, anche quando condanna il cosiddetto “Rinascimento di Harlem” perché il risanamento che ha reso il quartiere più sicuro, pulito e vivibile ha fatto sbarcare nei suoi condomini anche un buon numero di nuovi residenti bianchi. Snaturando – così sostiene la sociologa – un quartiere che era sempre stato un’aggregazione di neri con qualche area abitata anche dagli ispanici.
Ma è proprio a Manhattan che i segni di una libertà commerciale praticamente senza regole stanno trasformando l’ambiente urbano e il profilo architettonico di Midtown in qualcosa di non del tutto gradito. Un fenomeno troppo recente, sfuggito alla radiografia de “L’altra New York”: un’altra selva di grattacieli, stavolta non di uffici ma di appartamenti, per i super-ricchi che vogliono un rifugio sicuro nella “capitale del mondo”. Miliardari di tutto il mondo, non sempre del tutto trasparenti, che sbarcano a New York per investire nel “real estate”. Con la 57esima strada, la via aristocratica delle grandi gioiellerie (da Tiffany a Bulgari) e delle gallerie d’arte che, con l’assalto di miliardari russi e cinesi agli appartamenti delle diverse nuove torri in costruzione, già è stata ribattezzata la “via degli oligarchi”.
Massimo Gaggi