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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

«COSÌ HO MANDATO GLI AMBASCIATORI IN SECONDA CLASSE»


«Signori, è stato un privilegio lavorare con tutti voi…». Una mattina di gennaio Staffan De Mistura arriva a Montecitorio, posa il soprabito chiaro col collo di velluto, sfila i pince-nez e va al banco del governo. Si discute la proroga delle missioni internazionali, voto last minute ai tecnici. Ci sono appena quindici deputati: chi legge i giornali, chi liscia il tablet, chi parla al telefono. Tutti gli altri in Transatlantico, a scannarsi sulle liste. Nessuno che ascolti. Il sottosegretario agli Esteri non è tipo da lasciar prevalere l’imbarazzo. E in un’aula che più sorda non si può, con un gesto che le agenzie definiranno “inusuale”, per non dire da marziano, alla fine fa perfino un inchino: «Signori, per me è stato un privilegio servire la Nazione…». Un inchino vero, nel Paese degli Schettino. Come gli orchestrali che sul ponte del Titanic si congratularono con se stessi per aver suonato fino alla fine, mentre tutt’intorno s’urlava e si sbraitava prima della catastrofe.
Staffan style. Le vecchie feluche della Farnesina che lungo la passatoia rossa hanno visto comandare odontoiatri e passeggiare soubrette, ancora memori di sottosegretari che d’internazionale avevano solo l’essere eletti nel collegio dell’aeroporto di Fiumicino, mai dimentiche di quel leghista Franco Rocchetta che tra una missione e l’altra invocava la Serenissima Repubblica di Venezia, alla fine non sono state granché turbate dal più inusuale dei sottosegretari, dai suoi baciamano, dall’anello nobiliare. L’accolsero un po’ diffidenti, questo sì: “Sta ’ffà ’n casino”, il soprannome per abbreviare l’attivismo dei suoi 65 anni, i 300mila km percorsi in quindici mesi, i 33 giorni in India a perorare la causa dei marò. «Un badante esterno per i nostri militari nei guai», lo liquidò Giuliano Ferrara: vi sentireste garantiti, aggiunse perfido l’Elefantino, da un simpatico gaffeur che una volta andò ospite al Festival di Sanremo e disse d’essere felice di trovarsi a San Marino?… «Stimo Ferrara. Sull’India, m’ha accusato di parlare troppo. Certo che ho parlato molto! All’inizio, si rischiava una condanna per direttissima a 42 anni: era importante spiegare la nostra posizione. Abbiamo capito subito che non potevamo giocarci la carta dell’“italiana” Sonia Gandhi e che eravamo soli. Abbiamo fatto squadra: diplomatici, militari, avvocati, venti persone compatte. Ho dovuto polemizzare duro con la stampa indiana, chiedere rispetto. Sono andato anche in tv da una specie di Bruno Vespa locale. Era aggressivo. Ma siccome io m’ero un po’ preparato, e sapevo che era figlio d’un generale, a un certo punto gli ho chiesto se suo padre avrebbe mai abbandonato due soldati in una situazione simile, qualunque cosa avessero fatto: quello m’ha guardato e ha taciuto…».
Ma non è vero che all’inizio la scrutavano come un animale strano? Che ci fa qui un italo-svedese, 42 anni all’Onu, peace-keeper in 19 guerre, mediatore delle grandi crisi dall’Afghanistan all’Iraq…
«Io non ho percepito questa diffidenza. E le assicuro che non sono veri i luoghi comuni sulla Farnesina: i raccomandati sono in percentuale fisiologica, ho trovato un corpo d’altissima professionalità».
C’è stata la grana Vattani, il console fascio-rock richiamato da Osaka per i suoi concerti nostalgici a Casa Pound: è figlio d’un potente ex segretario generale…
«Non l’ho mai incontrato, so che ha una grande conoscenza del Giappone. La sua condotta è stata inappropriata, certamente. In altri Paesi, sarebbe stato trattato in modo più severo».
In questi mesi, ha visto da vicino lo scontro fra il ministro Terzi e il segretario generale Massolo. E a pochi passi dal suo ufficio c’è Andrea Riccardi, che fra molti mugugni interni vi ha scippato le competenze sulla Cooperazione…
«Guardi, il caso Massolo s’è consumato quando io non ero ancora qui. Riccardi è un amico ed è vero, la Farnesina non l’ha recepito bene: peccato, è stata un’occasione persa per lavorare in partnership».
Con Monti, dicono che parlasse più di frequente lei che Terzi…
«Non commento queste chiacchiere. Per me è stato un privilegio osservare da vicino la sottile ironia, la capacità d’analisi e di sdrammatizzare di Monti. Con Terzi ci sono stati rispetto e mutua collaborazione».
Ha mai rimpianto d’avere lasciato l’Onu?
«No. Nelle riunioni, ho solo notato una certa tendenza a non sovraesporsi mai con opinioni proprie. Il linguaggio alla Farnesina è felpato: chissà se questo sottosegretario è di destra o di sinistra, meglio stare sul vago… Io ho chiesto uno stile un po’ più Onu: background, analisi, decisioni. Credo che alla fine abbiano apprezzato».
Non tutti. Una volta, riprese un diplomatico che mandava sms mentre lei parlava…
«Bastò interrompermi e lanciare uno sguardo freddo: è una brutta abitudine, poco rispettosa. Specie davanti a un ospite, com’era in quell’occasione».
Ministero che vai…
«La macchina d’un ministero è invincibile: che ne so, io, se questo caffè che beviamo sia davvero il migliore e meno costoso che potevamo acquistare? Ma qualcosa si può fare. Mi hanno dato tre autisti, come alla mia collega Marta Dassù. Un giorno chiedo: perché tre? Mi spiegano: perché ai sottosegretari precedenti ne hanno sempre assegnati tre. Bene, dico, a me due bastano e avanzano e così è stato. Anche di sottosegretari ne bastano due, massimo tre, se si lavora dal lunedì al lunedì: di sicuro non ne servono sei o sette, come in passato».
E l’apparato come ha preso questa dieta?
«In Italia si viaggia principalmente in treno. Ho anche raccomandato la seconda classe e qualcuno si è stupito. Un’addetta ai viaggi m’ha chiesto che senso ha. Ho risposto con una battuta: s’incontra gente molto simpatica. Per il resto, taxi e Vespa, la mia, e sempre voli di linea. Solo una volta c’è stato un momento eticamente complicato. Dovevamo partire con aereo di Stato per i funerali del principe ereditario saudita: un Airbus per due sole persone, io e un ministro plenipotenziario. Dissi che lo consideravo inappropriato, il nostro mandato era la severità assoluta sulle spese… Perché non affittare un charter, come si fa in tutto il mondo? Purtroppo, si sa, i funerali musulmani si celebrano entro 24 ore, c’era il rischio di mancare alla cerimonia e d’offendere la casa reale. Mio malgrado, sono partito. Ma poi ho obiettato con forza, con una lettera, a chi gestisce le missioni ufficiali: a Riad, eravamo la delegazione con l’aereo più grande…».
Faticoso, seguire Staffan. In un piovoso weekend è capace, nell’ordine, di volare ad Addis Abeba il sabato e di passare per Parigi a salutare la figlia di domenica (avvertendo l’autista di non aspettarlo, “perché è una sosta privata”), per poi presenziare a una cerimonia della Marina il lunedì mattina, visitare il Maxxi per la mostra afghana su Alighiero Boetti, pranzare con un ambasciatore italiano, incontrare quello vietnamita e quello del Mali, riprendere lunedì sera l’aereo per Addis Abeba, fino ad atterrare e scoprire che intanto a Roma, nella notte, la maggioranza ha tolto al governo quel sostegno sul Mali che poche ore prima lui aveva assicurato di persona all’ambasciatore… «Il Parlamento per me è stato un mondo nuovo, che ho imparato a conoscere».
Un altro mestiere…
«Siamo l’unico Paese europeo in campagna elettorale, ma certi temi come il Mali non entrano nei nostri talk-show. Da un lato, questo ci permette di lavorare. Dall’altro, non so se sia un bene: mentre ci concentriamo sul nostro ombelico, a una distanza dal Mediterraneo che è quanto quella fra Milano e Roma, altro che Afghanistan, rispunta Al Qaeda. Pronta a conquistare un intero Paese».
L’Afghanistan: sta gestendo anche il ritiro dei nostri soldati.
«Le racconto che cos’è successo alla conferenza di Tokyo. 67 Paesi donatori, 14 miliardi da stanziare. Io arrivo, leggo la dichiarazione finale già pronta e sobbalzo: un sacco di parole e solo un impegno, generico, a facilitare i diritti delle donne afghane. Ma come? Dopo 12 anni, chi va a spiegare ai contribuenti tanti soldi all’Afghanistan, se poi non facciamo qualcosa per quelle poverette? Unico Paese, l’Italia rifiuta di votare. Scompiglio. Gli afghani rispondono che loro hanno diritto alle tradizioni. Noi insistiamo. Il rischio è che la conferenza fallisca. Finché americani, europei, tutti non si schierano con noi. E la dichiarazione viene cambiata».
Sta dicendo che ogni tanto l’Italietta può dire la sua?
«In vita mia, ho partecipato a un’ottantina di conferenze del genere. Conosco metodi e trucchi. In altri tempi, qualcuno meno esperto si sarebbe accontentato d’un compromesso».
Ma un sottosegretario può prendere queste iniziative?
«Rientrato da Tokyo, ho spento il cellulare per un’ora e mezzo. Avevo paura che mi chiamassero: i giapponesi erano molto arrabbiati per quell’imprevisto. Quando l’ho riacceso, invece, era Monti. Mi ha detto: hai fatto bene…».
Come ha vissuto il voto sulla Palestina all’Onu? In una notte, l’Italia ha cambiato anni di politica mediorientale…
«S’è dimostrato che l’Italia può prendere posizioni anche difficili, senza seguire un gruppo o l’altro solo perché fa comodo. Monti era molto soddisfatto».
Terzi, un po’ meno.
«Forse».
Francesco Battistini