Antonio D’Orrico, Sette 8/2/2013, 8 febbraio 2013
GEMELLI D’ITALIA L’ITALIA S’È DESTA IL NUOVO INNO NAZIONALE SECONDO TONI SERVILLO
Immaginate la scena che avrete visto migliaia di volte in televisione. Il potente uomo politico scende dall’auto blu e viene circondato dal solito capannello di giornalisti. Un reporter gli chiede perché i suoi capelli sono diventati grigi e lui risponde che è un messaggio agli italiani: «Siate onesti, smettete di tingervi».
Immaginate un’altra scena. Il comitato direttivo di un grande partito è riunito per l’analisi della situazione. Si discute lungamente e noiosamente di tattica e di strategia. A un certo punto, i presenti si rivolgono al segretario, che è lo stesso potente uomo politico di prima ed è rimasto fino a quel momento stranamente silenzioso, per chiedere il suo parere. Lui risponde: «È primavera! / Sottili veli di nebbia / celano anche la montagna senza nome». E poi, lasciando la sala, aggiunge facendo un inchino: «È la mia / questa figura di spalle / che se ne va nella pioggia?». Tutti restano di sasso.
Immaginate ancora un’ultima scena. Il potente uomo politico, sempre lui, tiene il comizio di chiusura della campagna elettorale. Prima di cominciare a parlare, indica col dito una delle centinaia di migliaia di persone presenti e riassume i pensieri e le domande che affollano la testa di quel vecchio militante: «Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi?». Poi conclude il suo fulmineo e fulminante discorso così: «Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua». Parole che, dopo un attimo di silenzio, vengono commentate dalla piazza con un enorme e commosso boato di approvazione.
Lo spin doctor Bertolt Brecht. Votereste un uomo politico che ha di queste uscite sublimi? Che ai consueti, aggrovigliati e indecifrabili tormentoni della politica oppone il nitore di un paesaggio haiku («È primavera! / Sottili veli di nebbia…»)? Che trasforma una delle più liriche poesie di Bertolt Brecht nel più bel comizio della storia (probabilmente assieme a I have a dream di Martin Luther King, a Sangue, sudore e lacrime di Winston Churchill, a Non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il vostro Paese di John Fitzgerald Kennedy)?
Credo proprio che lo votereste e lo farete ancora più volentieri quando vi accorgerete che questo singolare, sorprendente e nuovissimo leader (un leader che non c’è, purtroppo) ha la faccia, i gesti, lo sguardo e la voce di Toni Servillo.
Sta per arrivare nei cinema italiani un film liberatorio, un film che ci costringerà tutti quanti a una specie di seduta psicoanalitica nazionale (sul tema: «Perché stiamo così male»). Si intitola Viva la libertà, la regia è di Roberto Andò (che lo ha tratto dal suo bel romanzo Il trono vuoto) e ha nel cast, oltre al Servillo gigantesco che abbiamo citato, attori bravissimi come Valerio Mastandrea (da nomination), Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon e (la mia prediletta) Anna Bonaiuto (per non parlare del cameo di finissima cesellatura gentilmente offerto nell’occasione da Gianrico Tedeschi).
Il segreto del grande cinema italiano (pace all’anima sua) è stato sempre quello di non essere solo cinema. Non era solo cinema Ladri di biciclette. Non era solo cinema La dolce vita. Non era solo cinema Rocco e i suoi fratelli. Non era solo cinema Le mani sulla città. Non era solo cinema Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Quei film (e tanti altri ancora, abbiamo un grande avvenire dietro le spalle) sono state anche pagine della nostra storia, ci hanno raccontato quello che ci succedeva e di cui non c’eravamo accorti o non volevamo accorgerci. Sono stati interpretazioni di sogni e di incubi, rapporti sullo stato della nazione.
Il tango della cancelliera. Viva la libertà appartiene a quel tipo di film. E lo dimostra sin dalla trama. Che è la seguente. Enrico Oliveri (Toni Servillo), segretario del più grande partito d’opposizione, è impegnato nella campagna elettorale ma i sondaggi non gli lasciano speranza. La sua gente comincia a contestarlo e lui scappa, come un ladro nella notte, in Francia, rifugiandosi dalla donna che ha amato nella giovinezza. Andrea Bottini (Valerio Mastandrea), il suo principale collaboratore, cerca di non fare scoppiare lo scandalo che sarebbe politicamente letale. Ma la situazione è disperata. Allora Bottini scopre che Oliveri ha un gemello che si fa chiamare Giovanni Ernani (Toni Servillo), un filosofo geniale e appartato, gravemente depresso tanto da essere costretto a lunghi soggiorni in cliniche specializzate. Si procede così alla sostituzione di persona mentre il vero Oliveri persevera nel suo autoesilio francese alla ricerca del tempo perduto. Ernani ribalta gli ossidati cerimoniali della politica e fa risalire vertiginosamente i sondaggi elettorali dal minimo storico e comatoso in cui erano precipitati. Lo fa comportandosi come nelle tre scene (l’intervista, la riunione di partito, il comizio) che abbiamo citato all’inizio ma bisogna almeno aggiungere la sequenza in cui Ernani balla un appassionato tango facendo mettere a piedi nudi, per eseguire al meglio ganchos e ochos, una bionda e giunonica cancelliera tedesca (la Merkel?).
Nell’Italia di questi giorni dispari (come avrebbe detto Eduardo De Filippo) la tentazione forte è di leggere questo film come un manuale per vincere le elezioni seguendo l’esempio luminoso del professor Ernani. Nessuno dei tanti reclamizzati (e un po’ sopravvalutati?) spin doctor al servizio dei leader impegnati nella corrente campagna elettorale è stato capace di inventare uno scenario così travolgente. Cosa che è invece riuscita ad Andò nella doppia veste di scrittore e di regista. Ma l’idea non sembra entusiasmarlo. «Già quando è uscito il romanzo ci sono state letture (partitiche prima ancora che politiche) secondo le quali il mio era un messaggio a D’Alema o a Veltroni o a Bersani. C’è stato perfino un professore di Messina che, durante una presentazione, ha sostenuto che i fratelli Oliveri erano in realtà i fratelli Enrico e Giovanni Berlinguer». Be’, sì, effettivamente il politico Oliveri si chiama Enrico e il filosofo Ernani si chiama Giovanni. «È una pura coincidenza, glielo giuro». Non voglio fare l’avvocato del diavolo o il professore di Messina però nel film appare un poster di Berlinguer sul muro dell’ufficio di Oliveri. E, poi, il personaggio gelidamente interpretato da Andrea Renzi ha qualche tratto dalemiano. «Ho voluto contestualizzare un minimo la storia. Ma nulla più di questo». Quindi non ha voluto dare nessun messaggio politico? «Il messaggio c’è ma è di natura più ampia. Con il film voglio dire che la politica si è allontanata dalla vita e questo non solo in Italia ma a livello mondiale. La politica deve rientrare nella vita. Altrimenti è solo una recita nella quale i politici pronunciano parole che non trovano corrispondenza nei fatti. Questa è la tragica dimensione della politica contemporanea».
Anche Toni Servillo diffida di una lettura in diretta, troppo legata all’attualità, del film. «Sgombriamo il campo dal politichese. Viva la libertà non è un pamphlet ma va oltre la politica e parla della latitanza, negli scadenti dibattiti politici trasmessi ogni sera in tv, della parola “cultura”. Una cultura intesa come un serbatoio di slanci morali. E, comunque, non è stato l’elemento politico a sedurmi. Ho fatto il film affascinato da altri motivi». Quali? «Sono stato attratto dal tema del doppio, dalla possibilità di interpretare due gemelli. Dietro c’è una lunga tradizione teatrale da Plauto a Shakespeare, da Molière a Goldoni, c’è un vecchio, ma sempre portentoso, meccanismo drammaturgico». Quindi se le dicessi che, vista la sua strepitosa performance nel gioco delle parti di Enrico Oliveri e di Giovanni Ernani, ho pensato al grande Alberto Lionello quando mise in scena, con una prestazione anche atletica da medaglia d’oro alle Olimpiadi, I due gemelli veneziani di Goldoni, lei cosa mi risponderebbe? «Che sono felice. Lavorare con due personaggi è molto difficile. Può essere una trappola. Si tende a strafare, a esaltarsi. Ho cercato di evitarlo girando prima le scene di Ernani, personaggio più sopra e fuori le righe, il pazzo, e poi quelle di Enrico, personaggio più introverso, più cupo, procedendo per sottrazioni, per sfumature. Se avessi fatto il contrario avrei rischiato di esagerare indossando, poi, i panni di Ernani».
È un gran bel personaggio Ernani. «Con la sua nonchalance, con la sua leggerezza, con la sua divina strafottenza, il filosofo Ernani riavvicina la politica alla vita, alle persone comuni». A questo punto ci provo e chiedo a Servillo se Ernani è una specie di Chance, il giardiniere di Oltre il giardino, celebre interpretazione di Peter Sellers. Ma mi va male. «Non direi. Perché il giardiniere è un’idiota, un divino cretino. Invece, Ernani è un vero e acutissimo intellettuale. Il suo non è il banale discorso dell’immaginazione al potere. La chiave per capire il personaggio è la sua depressione, il suo senso anche tragico della vita. I politici hanno rimosso il senso tragico della vita. Sono ormai personaggi di assoluta astrattezza. Ernani ricorda a queste figure burocratizzate fino al midollo che una persona deve coincidere con il mestiere che fa».
Malinconia dell’anatomia. L’elogio della tanto demonizzata depressione (l’elogio di almeno un po’, di un pizzico di depressione ci vuole in quest’Italia di mattacchioni organizzati) mi trova perfettamente d’accordo. D’altra parte, sono un vecchio estimatore di Anatomia della malinconia di Robert Burton, un libro capitale (specie in questi tempi di malinconia dell’anatomia). Ma torniamo al film. Dico a Servillo che i cinefili potrebbero vedere nella scena in cui balla il tango con la cancelliera una citazione di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi e in quella dove balla il rock ’n’ roll in manicomio il John Travolta che si muove a ritmo di shake in Pulp fiction di Quentin Tarantino. Però soprattutto vedranno un continuo omaggio, da parte sua, a un maestro come Gian Maria Volontè. «Non sono un grande ballerino, il cinema aiuta con i suoi trucchi. Ma grazie lo stesso. E grazie per aver citato Volontè. Lui è la bussola del mio modo di essere attore. Da lui ho cercato di imparare a non scegliere mai una parte, un copione, una sceneggiatura, per questioni mercenarie o per puro gusto di esibizione istrionistica. Devo a Volontè, e a Eduardo, la visione morale del mio mestiere».
Come accadeva nel romanzo anche nel film il personaggio chiave è quello di Ernani. Pensando a una stagione particolare della vita pubblica italiana (quando Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, si comportò in maniera assai irrituale per la carica che ricopriva), chiedo ad Andò se è stata quella una delle sue fonti di ispirazione per il carattere del filosofo in preda alla depressione bipolare. «Ho inventato la figura di Ernani pensando a certi aristocratici siciliani molto eccentrici e di una tale naturalezza nella loro eccentricità da risultare fatalmente carismatici. Penso a persone che vivono nell’angolo, come clandestini dentro l’attualità e che da lì riescono a occupare il centro della scena. Vivono la loro eccentricità in maniera così naturale da risultare fortemente carismatici». Personaggi alla Tomasi di Lampedusa? «Su Lampedusa ho girato Il manoscritto del Principe e lui è sicuramente un modello per il personaggio di Ernani. Sa che Lampedusa diceva di avere scritto Il gattopardo semplicemente per fare dispetto al cugino Lucio Piccolo che aveva avuto successo letterario. Un capolavoro di quel genere che nascerebbe dalla gelosia tra parenti! È un esempio dell’eccentricità che dicevo prima».
Una battuta di Leonardo Sciascia. Ad Andò chiedo lumi su una battuta liberatoria del film, quella che dice che a elettori mediocri corrispondono politici mediocri e a elettori ladri corrispondono politici ladri. Una battuta che fa giustizia della beatificazione e della trasfigurazione della cosiddetta società civile. «Ero amico, bontà sua, di Leonardo Sciascia. Quella battuta mi viene da lui. Una volta, quando era deputato alla Camera, mi invitò a pranzo e alla fine mi confessò: “Sai, questo Paese corrisponde perfettamente al Parlamento che ha”».
E l’altra battuta, quella in cui si dice, che nell’ambiente politico si vedono ormai solo “rincoglioniti, ladri o banchieri”, chi gliel’ha ispirata? «Quella è figlia dell’attualità».
Un altro suo maestro è stato Francesco Rosi. «Ho cominciato, come suo assistente regista, sul set di Cristo si è fermato a Eboli con Gian Maria Volontè protagonista. Da Rosi ho imparato quello che lui aveva imparato da Luchino Visconti». Rosi, Visconti, Il gattopardo, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Todo modo, Volontè (che interpretò il film di Elio Petri tratto da Todo modo). Tutto si tiene nel mondo di Roberto Andò.
L’ultima scena del film è abbastanza enigmatica e quasi ribalta tutto facendo pensare a Jekyll e Hyde. «Ha detto Massimo Cacciari, parlando del Trono vuoto, che ognuno di noi ospita dentro di sé un estraneo».
Antonio D’Orrico