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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

Te lo do io il tecnico – La vocazione politica. Le nomine. Gli scontri con i ministri. Per la prima volta Catricalà racconta il premier segreto– Tecnico? Mario Monti è sempre stato un politico»

Te lo do io il tecnico – La vocazione politica. Le nomine. Gli scontri con i ministri. Per la prima volta Catricalà racconta il premier segreto– Tecnico? Mario Monti è sempre stato un politico». Il premier visto da vicino. E più da vicino di Antonio Catricalà, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e segretario del Consiglio dei ministri, un anno vissuto insieme al governo, non lo ha visto nessuno. Grand commis per eccellenza, consigliere di Stato - quell’alta burocrazia che con i suoi uomini controlla il Paese - Catricalà, tecnicamente il più preparato a detta di tutti, politicamente il più ammanicato, da Antonio Maccanico a Silvio Berlusconi, vive al fianco di Monti nella stanza del plenipotenziario quella «che ti fa sentire forse a torto al centro del mondo, dove arrivano le pratiche tutte insieme e devi capire in fretta, già questo ti mette in grande agitazione, qual è la più urgente». La pancia del vero potere, in cui si decide anche chi decide e dove una pratica può prendere una direzione, oppure un’altra. Al tramonto del governo, l’uomo del presidente di turno, creatura di Gianni Letta di cui è stato il successore, racconta - e non ha mai parlato prima d’ora se non d’affari squisitamente tecnici - Monti nei suoi dodici mesi da premier. Pur sforzandosi, l’ex segretario generale di Palazzo Chigi, ex presidente dell’Antitrust, non riesce a trovargli nemmeno un difetto sostanziale (galateo istituzionale, per non pensare all’adulazione) nonostante un inizio di rapporto non facile. Culminato invece nei pubblici ringraziamenti del premier nella conferenza di fine d’anno rivolti solo a lui e a nessun altro dei ministri presenti, speranzosi, e in prima fila. «Monti non è diventato un uomo politico, lo è sempre stato. Chiede lealtà, è assai sospettoso e fino a prova contraria non concede fiducia. Per questo è un buon politico: il tecnico puro non riesce a capire la malizia degli altri, le ambizioni personali, le alleanze trasversali ma crede che tutto si discuta sul piano della logica. È vero, all’inizio c’era diffidenza nei miei confronti, rappresentavo la figura di garante di un certo mondo, per aver collaborato con Gianni Letta, per rappresentare un legame con l’amministrazione dello Stato e con le istanze della magistratura amministrativa. No, non ho preso il posto destinato a Letta per il quale si ipotizzava la vice presidenza o il ministero dell’Interno e certamente è stato durissimo arrivare dopo di lui, persona di grande prestigio, che riusciva a ricevere e a dare retta a tutti. Ma Letta non aveva un vero capo, e io lavoro più sui testi che sulle relazioni umane. Monti, invece, è un capo esigente. Vuole essere al corrente di tutto, legge tutto. Il nostro rapporto è cambiato quando si è presentato il problema Rai. Il Pd voleva una riforma radicale. Il Pdl non la voleva. L’Udc si rimetteva alla decisione del governo. Monti mi chiamò: «Ti affido la missione impossibile». Io studiai una settimana. E alla fine trovai il bandolo, un sistema di governance senza modificare la legge ma semplicemente aumentando le deleghe della presidente e del direttore generale senza depotenziare il cda, passare per il Parlamento e cambiare lo statuto. Un modello inattaccabile che ha superato tutte le prove, validato da giuristi e costituzionalisti e da un parere esplicito dell’Avvocatura dello Stato. Avevo dato prova di capacità tecnica e soprattutto di lealtà perché non era né a favore del Pdl né del Pd. Da quel momento non sono stato più sub judice, la fiducia non era più limitata e Monti mi ha molto valorizzato. Abbiamo fatto insieme le srl a un euro, ora ce ne sono tremila. La norma sui doppi incarichi tipica dell’antitrust, il nuovo modello di Protezione civile, il decreto legge sui costi della politica regionale, dopo il caso di Batman.Poi c’è stata l’adrenalina del Salva-Italia che cambiava il sistema di governance delle province, il numero delle Autorità e di alcune alcune agenzie, si cominciava a incidere sul funzionamento della macchina statale e sui costi. Sa quanto ho tagliato a Palazzo Chigi? Cinquanta milioni di euro l’anno. Poi è arrivata la spending review, oltre trecento milioni di risparmi.Fare di più di quello che abbiamo fatto? Questo ci rimproverano? No, più di questo non si poteva fare». Il sottosegretario è seduto nella poltrona del salotto della grande stanza di Palazzo Chigi, ex ministero delle Colonie, le finestre sulla piazza con la Colonna di Marco Aurelio, il silenzio irreale dei luoghi di potere, la campagna elettorale, che pure si combatte anche di là, nella stanza vicina del premier, sembra lontana mille miglia dalle tende damascate e dall’oro zecchino dei saloni.« Si parla dell’evoluzione di Monti. Non c’è stata. Lui ha costruito un personaggio su una funzione. Ma è un politico ben strutturato per come valuta ogni conseguenza di azioni e dichiarazioni. L’ho visto gestire situazioni terrificanti per un tecnico. Penso all’incontro con il governatore Raffaele Lombardo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, sullo sfondo il dissesto della Sicilia, che non aveva ancora dato le dimissioni. Quanto di più lontano ci potesse essere dal premier. Eppure si sono guardati e capiti subito. Monti ha detto: «Apprezzerò le sue parole» dando per scontate le dimissioni, senza mai nominarle. Tiene ad ascoltare l’opinione di tutti, per questo i Consigli dei ministri erano interminabili: punta a una decisione collegiale. Sinceramente, un po’ troppo per i miei gusti, io sono molto meno democratico. Quando si è trattato di decisioni importanti, l’aumento delle tasse, le pensioni, ha elaborato a lungo come giustificarle, come spiegarle, tenendo sempre presente il bene comune. Calibrare l’equità con il rigore, questa è la sua cifra politica più fine. Il più importante fra i burocrati espletato il compito tecnico non è interessato ad altro, la cosa finisce lì. È vero che ci sono stati dei duetti con Elsa Fornero, mai duri però. Il premier ha un suo modo sarcastico: «Mi pare strano che tu dica questo, quando invece hai detto quello...». Chi ci bacchettava, invece, senza pietà era Enzo Moavero, ricordandoci le infrazioni europee. Ne avevamo 160. Moavero che parla in punta di penna ma colpisce in punta di fioretto è arrivato a chiuderne 60. A un certo punto Monti si era infastidito per il sospetto che i ministri facessero campagna elettorale da ministri, anche perché sembrava che Riccardi, Passera, Balduzzi, Profumo sarebbero stati tutti candidati da una parte. Secondo il premier sarebbe stata la prova che il governo non era al di sopra delle parti. Allora, in vari incontri separati, ha chiesto a ognuno di mantenere l’equidistanza. A Palazzo Chigi ha fatto gli esami a tutti, dico tutti i capi dipartimento e i dirigenti generali. Una sera ha convocato a Palazzo i tre candidati a comandante generale della Guardia di Finanza. Li abbiamo dovuti smistare in tre stanze diverse facendo i salti mortali perché non si vedessero. Gli incontri sono andati avanti fino a mezzanotte e poi ha deciso il giorno dopo». I capelli quasi da soldato per quanto corti, il vestito dal taglio e dalle pieghe che sembrano passati al filo del rasoio, lo sguardo esperto, le scarpe a specchio di chi è maniacale, Catricalà continua a raccontare. Di presidenti del Consiglio ne ha visti tanti all’opera. Li elenca:Andreotti, Fanfani, Goria, Berlusconi, Dini, Prodi. Ma il più scientifico, per lui, quello che ha garantito l’efficacia dell’azione è Monti. Più del Professore e del Cavaliere. Forse perché la situazione economica e finanziaria era più grave, ipotizza, il premier non ha mai fatto azioni di maquillage, caso mai mediazioni politiche. Così addebita davvero la salita in campo al timore che le misure prese potessero essere annullate dal successore, nuocendo gravemente al Paese. «È stata una scelta che ha pregiudicato l’evoluzione naturale: il Quirinale. Sarebbe stato il passo successivo più semplice, più di qualsiasi altra cosa. E anche oggi non si può affatto escludere, vista la statura del personaggio. Sta di fatto che la strada intrapresa è più complicata. Monti poteva schierarsi con una forza più grande. Ha preferito ritagliarsi uno spazio più piccolo per garantirsi che non si torna indietro. Io ero ondivago sulla faccenda, leggevo la stampa, annusavo in giro. Un giorno gli consigliavo di farlo, un altro no. Poi ventiquattr’ore prima della conferenza di fine anno ha comunicato la sua decisione a Moavero e a me. Egoisticamente è stato un problema, tanti dossier da completare, una crisi anticipata di governo non me l’aspettavo. Per non parlare del fatto che in giro sentivo dire che mi sarei candidato. «Catricalà è del Sud, si chiacchierava, lo piazziamo in Calabria». Oddio, già solo l’eventualità mi metteva un’angoscia terribile. Così l’ho avvertito che avrei dato un’intervista al "Mattino" per fugare ogni dubbio e stoppare i giornali del Sud che ci ricamavano sopra. Ha capito che non era proprio nel mio core business». Chissà quale sarà il futuro core business del sottosegretario. «Da presidente dell’Antitrust ero pagato molto di più. Quando andavo a "Ballarò" prendevo più applausi di Berlusconi o Bersani. Da sottosegretario il pubblico mi ha praticamente ignorato. Ma è stata un’esperienza esaltante, entusiasmante. Il governo ha inciso nella macchina dello Stato, nelle liberalizzazioni, nella modernizzazione del Paese per quanto il poco tempo e le ragioni della politica hanno concesso. Dopo le elezioni tornerò al Consiglio di Stato e farò finalmente il presidente di sezione. Lascerò questa stanza, la stanza di Gianni Letta. Gliel’ho conservata com’era, è pronta per riaccoglierlo, il tappeto era liso, ma non l’ho cambiato». Secondo vox populi non finirà così per il sottosegretario, noto per i suoi assi nella manica. Che vaticina su Monti: «Tutto è possibile. Ma è certo che non se ne starà a palazzo Giustiniani. Bisognerà fare i conti con lui nei prossimi dieci anni».