Marco Damilano , l’Espresso 8/2/2013, 8 febbraio 2013
INCUBO BERLUSCONI
Centomila voti. Tutta qui la partita. Un soffio, un battito di cuore, in fondo non molto più di quei 24 mila voti che separarono l’Unione dal centrodestra nel 2006 consegnando a Romano Prodi una vittoria mutilata. Nel Pd, «la lepre da inseguire», come ripeteva Pier Luigi Bersani appena tre settimane fa quando si diceva sicuro che «saremo noi a guidare il Paese», è ritornato l’Incubo di Arcore. Un film già visto, con tutti gli ingredienti del serial: la sinistra che parte in vantaggio, il Caimano che risorge, strappa la scena, detta l’agenda, recupera punti, supera in volata (o si affianca sul traguardo, che è la stessa cosa). «Siamo all’ultima curva della corsa cominciata quando Bersani fu eletto segretario nel 2009», ammette Miguel Gotor, uno dei più ascoltati consiglieri del candidato premier. «È una campagna strana, in cui gli avversari si nascondono». E rivela la fatica, lo stress della gara, la tensione di fallire la tappa finale. La necessità di cambiare passo, per non lasciarsi sfuggire la vittoria. Tornando allo schema iniziale dell’accordo con Mario Monti, la tela disfatta a Natale, quando il premier decise di lanciare la sua lista, e che potrebbe essere ritessuta a Pasqua, quando si farà il nuovo governo.
Una svolta necessaria. Annunciata da Bersani in visita in Germania, a Berlino. Il passaggio più importante, quello che nelle intenzioni serve a chiudere i giochi prima del voto, avviene all’estero. Perché l’Incubo B., questa volta, non coinvolge solo il centrosinistra e l’Italia. È dal 1976, la corsa elettorale vissuta sul tema del sorpasso del Pci di Enrico Berlinguer ai danni della Dc, che non si vedeva un’attenzione così preoccupata degli osservatori internazionali. È bastato un sussulto di Berlusconi nei sondaggi, prima della promessa di restituire l’Imu, per far vacillare le Borse e provocare la risalita dello spread. Nelle cancellerie europee e sui report delle grandi società finanziarie il nome dell’ex premier è tornato a comparire con allarmante regolarità. A spaventare non c’è solo l’incapacità di Silvio Berlusconi a governare, già denunciata dall’"Economist" di Bill Emmott nel 2001, ma le conseguenze devastanti del ritorno berlusconiano sulla stabilità economica del continente europeo: "What happens if Berlusconi wins?", si intitola l’ultimo rapporto della J.P.Morgan dedicato al «colpo di coda» del Cavaliere. «Una vittoria di Berlusconi - se malamente gestita - potrebbe implicare forti pressioni di mercato in Italia, la necessità di cercare aiuto tramite l’Esm-Eccl, i parlamentari tedeschi sarebbero costretti ad approvare un pacchetto di aiuti, un colpo che nuocerebbe moltissimo alle prospettive di rielezione della Merkel». Effetto a catena, una catastrofe che gli stessi analisti finanziari ritengono «improbabile», ma non impossibile, dato il margine esiguo di vantaggio della coalizione di Bersani. I sondaggi fotografano un divario di almeno cinque-sei punti tra Pd-Sel e Pdl-Lega, ma secondo il rapporto J.P.Morgan «il vantaggio reale del centrosinistra è nell’ordine dell’1-3 per cento. Molto al di sotto, quindi, del margine di sicurezza». Senza considerare la crescita del movimento di Beppe Grillo, considerata inarrestabile dagli istituti di ricerca. E dunque ci risiamo: risultato in bilico tra Pd e Berlusconi, per quel che riguarda il Senato, con la lista di Mario Monti che si assottiglia e 5 Stelle che si espande. Centomila voti da spalmare nelle regioni contese, la Lombardia, la Sicilia, la Campania, la differenza tra un risultato pieno per il Pd e per gli alleati Nichi Vendola e Bruno Tabacci, 178 seggi su 315, in caso di vittoria in tutte le regioni-chiave, e la infima soglia dei 148 seggi, lontano dalla maggioranza, in caso di sconfitta. Centomila voti tra il paradiso e l’inferno. Con quel margine, tra uno e tre punti, che significa quasi parità.
E dire che questa volta, a differenza che nel 2006 e in altre campagne elettorali, Bersani poteva contare su un partito unito alle sue spalle come mai negli ultimi vent’anni, comprendendo nella storia del Pd anche le guerre fratricide all’ombra della Quercia e dell’Ulivo. E un avversario in rotta, con mezzo Pdl che invocava la spedizione ai giardinetti di Berlusconi. Invece, in tre settimane, come hanno riassunto con inaspettata sintonia a poche ore di distanza Massimo D’Alema e Matteo Renzi, «mentre da noi qualcuno già si spartiva i posti da sottosegretario il centrodestra ha guadagnato otto punti». E ora Bersani si batte palmo a palmo. Con tutti i mezzi. La sua presenza nei territori a rischio, le lettere al popolo delle primarie, gli attivisti on line con i 300 Spartani guidati dal giovane Tommaso Giuntella che combattono la quotidiana guerriglia delle parole sui social network. Per tutti gli altri candidati, però, la campagna sembra non essere mai cominciata. Nel Lazio, dove si vota anche per la regione, la presenza dei candidati del centrosinistra è ridotta al minimo. In Lombardia, dove il risultato è decisivo anche sul piano nazionale, si vede molto il candidato per la guida del Pirellone Umberto Ambrosoli, poco gli altri. E nel partito si comincia ad ascoltare qualche malumore, attenuato dall’aspettativa di vittoria. Una comunicazione centralizzata, troppo legata alla figura di Bersani (nonostante il segretario si vanti di essere l’unico leader ad aver tolto il nome dal simbolo). Una certa vaghezza sulle proposte (l’ormai famoso «un po’» bersaniano, unità di misura prediletta dal candidato premier: «bisogna cambiare un po’...»), perfino sui terreni più congeniali: «Che cosa farà il Pd per dare più lavoro?», si legge nel vademecum consegnato ai candidati alla Camera e al Senato. Risposta: «Più importante delle norme sul lavoro è la possibilità oggi di dare più lavoro...». E infine, la critica più ricorrente: l’incapacità di dettare i tempi e i modi dello scontro elettorale. La scena sembra occupata dagli altri: piazza San Giovanni, il teatro di tutte le principali manifestazioni della sinistra, sarà invasa dal movimento di Grillo il 22 febbraio, Bersani replicherà con un comizio a Napoli, in piazza del Plebiscito, come fece Berlusconi nel 2008.
La lepre Pd si è fermata? «Si scambia il nostro senso di responsabilità per timidezza. Noi corriamo per governare, gli altri per distruggerci», replica Enrico Letta, il numero due di largo del Nazareno, in salita nel toto-ministri come possibile ministro dell’Economia, sarebbe il primo politico in viale XX Settembre nell’ultimo quarto di secolo dopo una lunga stagione di tecnici (se si esclude la breve parentesi di Giuliano Amato nel 1999). Nell’ultima settimana il vice-segretario del Pd ha incontrato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e poi i vertici di Confcommercio e di Coldiretti. Quasi un avvio di consultazioni in vista del nuovo governo. Letta non nasconde la sua preoccupazione: «Per sei mesi ci siamo mossi nel vuoto assoluto, noi facevamo le primarie, Berlusconi era sparito. Ora stanno entrando in gioco gli elettori dell’ultima ora, più che dal voto utile sono attratti dall’anti-politica, le percentuali per i partiti tradizionali sono destinate a scendere». E spiega che negli ultimi quattordici giorni sarà necessario martellare su due messaggi forti: «Il taglio del costo del lavoro che aiuta le imprese e i lavoratori. E la riforma elettorale a doppio turno, con il dimezzamento del numero dei parlamentari».
Tornare a impugnare la bandiera del cambiamento. Per farlo è stato rimesso in campo il golden boy delle primarie Renzi, il più dotato di appeal sull’elettorato di frontiera, quello indeciso tra Pd, Monti, Grillo e l’astensione. Ma il bersaniano Gotor non ci sta a considerare spenta la campagna del leader:«Sì, lo so, ci vorrebbero più belli, più fighetti, più affascinanti, ce lo chiedono pezzi di borghesia e del mondo della comunicazione. Ci dicono: Bersani non ci fa sognare. Te lo ripetono quelli che riescono a rendere cinici perfino i sogni. Ma noi abbiamo bisogno di un progetto concreto, non di un’utopia».
In largo del Nazareno si fanno coraggio: «La rimonta non c’è. Berlusconi è un capocomico all’ultimo spettacolo, guadagna terreno ma non galoppa come nel 1994 o nel 2006. E Monti non ha sfondato, anzi. L’unico che aumenta è Grillo, ma non è detto che sia un male». Perché al Pd andrebbe bene, per esempio, se la lista Monti arrivasse alle spalle degli outsider di 5 Stelle: vorrebbe dire che l’accordo dei centristi montiani con il centrosinistra si farebbe senza pagare prezzi eccessivi. Bersani l’ha annunciato a Berlino, dopo le elezioni, quando si sarà spenta la propaganda, ci sarà un governo con il Professore. Sempre che il Caimano non riesca a raggiungere una clamorosa maggioranza al Senato. Quei centomila voti di differenza che oggi fanno tremare l’Europa. Centomila voti. Tutta qui la partita. Un soffio, un battito di cuore, in fondo non molto più di quei 24 mila voti che separarono l’Unione dal centrodestra nel 2006 consegnando a Romano Prodi una vittoria mutilata. Nel Pd, «la lepre da inseguire», come ripeteva Pier Luigi Bersani appena tre settimane fa quando si diceva sicuro che «saremo noi a guidare il Paese», è ritornato l’Incubo di Arcore. Un film già visto, con tutti gli ingredienti del serial: la sinistra che parte in vantaggio, il Caimano che risorge, strappa la scena, detta l’agenda, recupera punti, supera in volata (o si affianca sul traguardo, che è la stessa cosa). «Siamo all’ultima curva della corsa cominciata quando Bersani fu eletto segretario nel 2009», ammette Miguel Gotor, uno dei più ascoltati consiglieri del candidato premier. «È una campagna strana, in cui gli avversari si nascondono». E rivela la fatica, lo stress della gara, la tensione di fallire la tappa finale. La necessità di cambiare passo, per non lasciarsi sfuggire la vittoria. Tornando allo schema iniziale dell’accordo con Mario Monti, la tela disfatta a Natale, quando il premier decise di lanciare la sua lista, e che potrebbe essere ritessuta a Pasqua, quando si farà il nuovo governo.
Una svolta necessaria. Annunciata da Bersani in visita in Germania, a Berlino. Il passaggio più importante, quello che nelle intenzioni serve a chiudere i giochi prima del voto, avviene all’estero. Perché l’Incubo B., questa volta, non coinvolge solo il centrosinistra e l’Italia. È dal 1976, la corsa elettorale vissuta sul tema del sorpasso del Pci di Enrico Berlinguer ai danni della Dc, che non si vedeva un’attenzione così preoccupata degli osservatori internazionali. È bastato un sussulto di Berlusconi nei sondaggi, prima della promessa di restituire l’Imu, per far vacillare le Borse e provocare la risalita dello spread. Nelle cancellerie europee e sui report delle grandi società finanziarie il nome dell’ex premier è tornato a comparire con allarmante regolarità. A spaventare non c’è solo l’incapacità di Silvio Berlusconi a governare, già denunciata dall’"Economist" di Bill Emmott nel 2001, ma le conseguenze devastanti del ritorno berlusconiano sulla stabilità economica del continente europeo: "What happens if Berlusconi wins?", si intitola l’ultimo rapporto della J.P.Morgan dedicato al «colpo di coda» del Cavaliere. «Una vittoria di Berlusconi - se malamente gestita - potrebbe implicare forti pressioni di mercato in Italia, la necessità di cercare aiuto tramite l’Esm-Eccl, i parlamentari tedeschi sarebbero costretti ad approvare un pacchetto di aiuti, un colpo che nuocerebbe moltissimo alle prospettive di rielezione della Merkel». Effetto a catena, una catastrofe che gli stessi analisti finanziari ritengono «improbabile», ma non impossibile, dato il margine esiguo di vantaggio della coalizione di Bersani. I sondaggi fotografano un divario di almeno cinque-sei punti tra Pd-Sel e Pdl-Lega, ma secondo il rapporto J.P.Morgan «il vantaggio reale del centrosinistra è nell’ordine dell’1-3 per cento. Molto al di sotto, quindi, del margine di sicurezza». Senza considerare la crescita del movimento di Beppe Grillo, considerata inarrestabile dagli istituti di ricerca. E dunque ci risiamo: risultato in bilico tra Pd e Berlusconi, per quel che riguarda il Senato, con la lista di Mario Monti che si assottiglia e 5 Stelle che si espande. Centomila voti da spalmare nelle regioni contese, la Lombardia, la Sicilia, la Campania, la differenza tra un risultato pieno per il Pd e per gli alleati Nichi Vendola e Bruno Tabacci, 178 seggi su 315, in caso di vittoria in tutte le regioni-chiave, e la infima soglia dei 148 seggi, lontano dalla maggioranza, in caso di sconfitta. Centomila voti tra il paradiso e l’inferno. Con quel margine, tra uno e tre punti, che significa quasi parità.
E dire che questa volta, a differenza che nel 2006 e in altre campagne elettorali, Bersani poteva contare su un partito unito alle sue spalle come mai negli ultimi vent’anni, comprendendo nella storia del Pd anche le guerre fratricide all’ombra della Quercia e dell’Ulivo. E un avversario in rotta, con mezzo Pdl che invocava la spedizione ai giardinetti di Berlusconi. Invece, in tre settimane, come hanno riassunto con inaspettata sintonia a poche ore di distanza Massimo D’Alema e Matteo Renzi, «mentre da noi qualcuno già si spartiva i posti da sottosegretario il centrodestra ha guadagnato otto punti». E ora Bersani si batte palmo a palmo. Con tutti i mezzi. La sua presenza nei territori a rischio, le lettere al popolo delle primarie, gli attivisti on line con i 300 Spartani guidati dal giovane Tommaso Giuntella che combattono la quotidiana guerriglia delle parole sui social network. Per tutti gli altri candidati, però, la campagna sembra non essere mai cominciata. Nel Lazio, dove si vota anche per la regione, la presenza dei candidati del centrosinistra è ridotta al minimo. In Lombardia, dove il risultato è decisivo anche sul piano nazionale, si vede molto il candidato per la guida del Pirellone Umberto Ambrosoli, poco gli altri. E nel partito si comincia ad ascoltare qualche malumore, attenuato dall’aspettativa di vittoria. Una comunicazione centralizzata, troppo legata alla figura di Bersani (nonostante il segretario si vanti di essere l’unico leader ad aver tolto il nome dal simbolo). Una certa vaghezza sulle proposte (l’ormai famoso «un po’» bersaniano, unità di misura prediletta dal candidato premier: «bisogna cambiare un po’...»), perfino sui terreni più congeniali: «Che cosa farà il Pd per dare più lavoro?», si legge nel vademecum consegnato ai candidati alla Camera e al Senato. Risposta: «Più importante delle norme sul lavoro è la possibilità oggi di dare più lavoro...». E infine, la critica più ricorrente: l’incapacità di dettare i tempi e i modi dello scontro elettorale. La scena sembra occupata dagli altri: piazza San Giovanni, il teatro di tutte le principali manifestazioni della sinistra, sarà invasa dal movimento di Grillo il 22 febbraio, Bersani replicherà con un comizio a Napoli, in piazza del Plebiscito, come fece Berlusconi nel 2008.
La lepre Pd si è fermata? «Si scambia il nostro senso di responsabilità per timidezza. Noi corriamo per governare, gli altri per distruggerci», replica Enrico Letta, il numero due di largo del Nazareno, in salita nel toto-ministri come possibile ministro dell’Economia, sarebbe il primo politico in viale XX Settembre nell’ultimo quarto di secolo dopo una lunga stagione di tecnici (se si esclude la breve parentesi di Giuliano Amato nel 1999). Nell’ultima settimana il vice-segretario del Pd ha incontrato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi e poi i vertici di Confcommercio e di Coldiretti. Quasi un avvio di consultazioni in vista del nuovo governo. Letta non nasconde la sua preoccupazione: «Per sei mesi ci siamo mossi nel vuoto assoluto, noi facevamo le primarie, Berlusconi era sparito. Ora stanno entrando in gioco gli elettori dell’ultima ora, più che dal voto utile sono attratti dall’anti-politica, le percentuali per i partiti tradizionali sono destinate a scendere». E spiega che negli ultimi quattordici giorni sarà necessario martellare su due messaggi forti: «Il taglio del costo del lavoro che aiuta le imprese e i lavoratori. E la riforma elettorale a doppio turno, con il dimezzamento del numero dei parlamentari».
Tornare a impugnare la bandiera del cambiamento. Per farlo è stato rimesso in campo il golden boy delle primarie Renzi, il più dotato di appeal sull’elettorato di frontiera, quello indeciso tra Pd, Monti, Grillo e l’astensione. Ma il bersaniano Gotor non ci sta a considerare spenta la campagna del leader:«Sì, lo so, ci vorrebbero più belli, più fighetti, più affascinanti, ce lo chiedono pezzi di borghesia e del mondo della comunicazione. Ci dicono: Bersani non ci fa sognare. Te lo ripetono quelli che riescono a rendere cinici perfino i sogni. Ma noi abbiamo bisogno di un progetto concreto, non di un’utopia».
In largo del Nazareno si fanno coraggio: «La rimonta non c’è. Berlusconi è un capocomico all’ultimo spettacolo, guadagna terreno ma non galoppa come nel 1994 o nel 2006. E Monti non ha sfondato, anzi. L’unico che aumenta è Grillo, ma non è detto che sia un male». Perché al Pd andrebbe bene, per esempio, se la lista Monti arrivasse alle spalle degli outsider di 5 Stelle: vorrebbe dire che l’accordo dei centristi montiani con il centrosinistra si farebbe senza pagare prezzi eccessivi. Bersani l’ha annunciato a Berlino, dopo le elezioni, quando si sarà spenta la propaganda, ci sarà un governo con il Professore. Sempre che il Caimano non riesca a raggiungere una clamorosa maggioranza al Senato. Quei centomila voti di differenza che oggi fanno tremare l’Europa.