Letizia Gabaglio, Daniela Minerva e Francesca Sironi, l’Espresso 8/2/2013, 8 febbraio 2013
SALVARE L’UNIVERSITÀ
Matricole in calo. Credibilità ai minimi storici. Ma è ancora l’unico posto dove si produce sapere e si educano i giovani. Otto grandi esperti spiegano i perché della crisi. E come uscirne
Un corpaccione immenso: circa un milione e ottocentomila studenti, 57 mila docenti di ruolo, senza contare il fiume di dottorati e dottorandi che, comunque, insegnano. Sedi disseminate fin nel più piccolo paese di provincia, chissà perché. Una balena che divora ogni anno 10 miliardi di euro pubblici. E che appare sempre più incongrua, incapace di soddisfare i sogni dei giovani e di rispondere alle esigenze formative del Paese. Le matricole calano, anche se di poco, ma ciò che cresce davvero è il disamore dei ragazzi per il sistema universitario che dovrebbe accendere i loro entusiasmi. Perché se quasi 9 mila diciannovenni in meno (il 4,4 per cento) iscritti per questo anno accademico non sono poi tantissimi e se i 58 mila giovani in fuga sparati dal Consiglio universitario nazionale (Cun) la scorsa settimana sono un ballon d’essai, resta un dato inoppugnabile: in dieci anni, i ragazzi che scelgono l’istruzione universitaria non sono aumentati nonostante la riforma che avrebbe dovuto attirarli, e nonostante il patetico tentativo dei diversi atenei di aprire sedi distaccate per portare le aule proprio sotto casa dei potenziali clienti. E resta che nel nostro Paese la media dei laureati è la metà della media dell’Unione europea a 27 Paesi.
Tocca chiedersi, allora, quali sono i mali della balena. Perché di certo è ammalata, anche se l’allarme lanciato dal Cun qualche giorno fa, e prontamente rintuzzato dal ministro Francesco Profumo, è una bolla: per dimostrare che c’è stato un calo vertiginoso delle iscrizioni, infatti, il Cun ha scelto un anno anomalo, il 2003, quando l’entrata in vigore della riforma e l’aprirsi delle cosiddette lauree triennali spinse molti trentenni e quarantenni negli atenei: potevano iscriversi nuovamente tutti coloro che avevano fatto solo pochi esami, per cercare di prendere una laurea di primo livello; potevano immatricolarsi tutti i dipendenti della pubblica amministrazione, che tramite accordi con le università potevano acquisire crediti e conseguire la laurea. Quell’effetto va ora progressivamente scemando: la bolla si è esaurita. Ma l’effetto-riforma non ha guadagnato il favore dei giovani, e questo significa che il nuovo ordinamento immaginato per attrarre più studenti non è riuscito a mantenere le promesse.
Ma il numero secco degli immatricolati non rende giustizia al travaglio che gli atenei hanno vissuto negli ultimi anni, colpiti dalla crisi di credibilità oltre che dalla crisi economica. Gli studenti non si sono fatti abbagliare dal miraggio dell’aula sotto casa, hanno cominciato a selezionare l’offerta mettendo sul piatto costi della formazione e benefici sul mercato del lavoro. Così le statistiche dettagliano che a perdere terreno sono, soprattutto, le università di provincia, insieme a quelle del Sud, ammazzato dalle difficoltà del ceto medio. E sono le discipline tradizionale fabbrica di disoccupati, da Lettere e Filosofia a Sociologia, Giurisprudenza, Scienze Politiche; mentre, e non è una sorpresa, tengono Ingegneria, le scienze dure e Medicina.
Ma non è spaccando i numeri in quattro che il sistema può recuperare credibilità. Noi abbiamo chiesto a otto esperti di spiegarci il perché di una simile débâcle e di provare a indicare delle vie d’uscita. A partire dal colpo assestato nei giorni scorsi dal ministro che ha affidato la verifica della qualità degli atenei, una sorta di bollino di qualità che deve essere rinnovato ogni cinque anni, all’Anvur, l’agenzia di valutazione, di fatto togliendola alla giurisdizione del Cun e scontentando una bella fetta dell’accademia.
INTERVISTA A SALVATORE SETTIS EX RETTORE DELLA NORMALE DI PISA Tutta colpa della politica –
Clientelismo, cattedre assegnate ad amici e parenti, i meritevoli che per emergere scappano all’estero. Quello che emerge dalla cronaca è un sistema ormai chiuso in se stesso. Incapace di attrarre. Il disamore dei giovani è un fatto che va spiegato guardando alle politiche dell’istruzione degli ultimi anni, ammonisce il grande storico Salvatore Settis, che accusa le ultime riforme di aver smantellato, passo dopo passo, la credibilità dell’istituzione. Danneggiando nella sostanza la qualità della formazione universitaria.
Professore, a quale fattore attribuirebbe la crisi dell’università?
«Penso che sia l’effetto combinato di tre processi in atto nel nostro Paese: il progressivo impoverimento delle classi medie, la crescente sfiducia in quelli che furono i meccanismi di mobilità sociale e infine la drammatica disoccupazione intellettuale dei giovani, con la necessaria conseguenza della fuga di cervelli. Nulla, delle misure adottate dai governi della legislatura che ora finisce, è stato indirizzato a rimediare a questi meccanismi, che denunciano una profonda e forse irreversibile crisi del Paese. Anche il governo tecnico ha inteso questa crisi come se fosse meramente finanziaria: si tratta, invece, di una profonda recessione sociale e culturale, con enormi conseguenze economiche di lungo periodo».
Non è anche una questione di credibilità?
«Sì lo è. L’università non sa più garantire una formazione che assicuri il lavoro, la mobilità sociale, quell’aura di rispetto che una volta circondava chi avesse il titolo di "dottore". Eppure le riforme di questi anni non hanno fatto che abbassare il profilo delle università, diminuirne la credibilità sociale, metterle al margine del discorso politico. Lo hanno fatto per giustificare gli spietati tagli ai bilanci. Ma si è "tagliato", al tempo stesso, un enorme patrimonio di fiducia, le potenzialità delle nuove generazioni. Che hanno perso interesse a continuare gli studi».
Spesso gli atenei sono accusati di essere autoreferenziali. Le ultime riforme hanno provato a cambiare le cose o le hanno peggiorate?
«L’autoreferenzialità dell’università italiana è indubbia. Per porvi rimedio basterebbe adeguarla agli standard in vigore in altri Paesi, per esempio nel Regno Unito. Ma la sgangherata riforma Gelmini, puntualmente sposata dal ministro Francesco Profumo, ha fatto il contrario: ha provincializzato l’università italiana chiudendola in una gabbia di norme burocratiche e non scientifiche che puniscono e reprimono il merito, che favoriscono le misure quantitative a scapito della qualità, e scoraggiano l’innovazione. Il tutto per risparmiare sui bilanci, si capisce. Ma è un risparmio che pagheremo caro, e più caro ancora lo pagheranno i nostri figli».
INTERVISTA A DIRETTORE GENERALE DELLA LUISS DI ROMA Basta Accademia –
L’università non è più a misura di studente, parola di Pierluigi Celli. Che ci spiega come ribaltare il piccolo mondo di un ateneo.
Dottor Celli, cosa vogliono i ragazzi dall’università?
«Chi esce dalle scuole secondarie è spesso molto preparato, ma ha scarsa dimestichezza con il mondo reale e vuole dall’università un collegamento con la realtà. Per questo è fondamentale che l’accademia vada nelle scuole a far capire quali sono i settori giusti su cui investire, quali le possibilità di impiego, quante esperienze si possono fare dentro l’università. Ogni anno la Luiss si presenta in almeno 300 scuole in tutta Italia e troviamo sempre grande interesse da parte dei ragazzi».
Ma una volta capito dove iscriversi, trovano poi quello che cercano?
«Molto spesso no. Il rapporto fra docenti e studenti è ingessato e la didattica piuttosto statica. Non serve sapere se non sai come risolvere dei problemi, capire chi ti sta intorno, lavorare con altre persone. Ma per insegnare questo l’università dovrebbe essere costruita intorno ai ragazzi, mentre è il contrario, e per questo è andata in crisi».
Per superare la crisi, quindi, l’università si deve riorganizzare?
«Sì. Per troppi anni gli atenei si sono strutturati intorno alle esigenze dell’accademia e dei professori, trascurando le esigenze dei ragazzi. Hanno trattato gli studenti come polli da batteria, e alla lunga i ragazzi se ne sono accorti. Per servire realmente l’università deve ricreare il mondo esterno, con tutte le sue componenti: studio e lavoro, individuale e di gruppo, assunzione di responsabilità, presentazione di progetti, prove da superare».
INTERVISTA A ANDREA CAMMELLI DIRETTORE DI ALMA LAUREA Non è un paese per studenti –
Aquesto Paese l’università non interessa. Senza giri di paole, Andrea Cammelli, direttore di Alma Laurea, il consorzio che riunisce 64 atenei italiani, attribuisce la crisi universitaria al sistema Paese, incapace di garantire la formazione di alto livello.
Professor Cammelli, cosa vuol dire che il Paese non crede nell’università?
«Che il valore della laurea non è compreso dalla classe dirigente. In Italia, per esempio, la maggior parte degli imprenditori non è laureato e non è incline ad assumere chi invece una laurea ce l’ha a differenza degli imprenditori laureati, che invece assumono il triplo di giovani usciti dall’università. Mancano poi le politiche di sostegno allo studio: prestiti, borse di studio, incentivi».
In Italia esistono forme di aiuto agli studenti?
«No, praticamente in tutte le Regioni, non ci sono borse di studio sufficienti a garantire anche a chi è più svantaggiato il diritto allo studio. Non è un caso, infatti, che solo il 29 per cento dei diciannovenni si iscrive all’università, e che gli abbandoni siano più elevati fra i giovani di famiglie meno favorite, quelli che poi meno proseguono gli studi lungo i percorsi magistrali. In Italia solo il 54 per cento di quanti si laureano in medicina e giurisprudenza, per esempio, viene da famiglie prive di titolo di studio universitario. Mentre da queste famiglie viene ben il 75 per cento degli studenti iscritti alla triennale».
Da noi quindi non si investe abbastanza, cosa succede in altri Paesi?
«In Germania, per esempio, per ogni laureato il costo complessivo (pubblico e privato) è più del doppio di quello che sosteniamo in Italia. Ma alla fine lì di laureati ce ne sono di più e i risultati in termini di economia si vedono. È vero che stiamo attraversando un periodo di crisi economica; ma non dimentichiamo che anche nei periodi di carestia nera il contadino taglia su tutto, ma non sulla semina».
INTERVISTA A ANDREA GAVOSTO
DIRETTORE DELLA FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI
Fabbrica di precari –
La verità di Andrea Gavosto è amara: «I laureati triennali di oggi sono impiegati in mansioni per cui una volta erano assunti i diplomati».
A cosa serve la laurea, se poi sul lavoro vale quanto un diploma?
«I laureati sono molto più preparati di chi possiede solo il diploma e guadagnano di più, anche se in Italia la differenza di stipendio fra chi ha frequentato l’università e chi si è fermato alle superiori si è ridotta, contrariamente a quanto avviene nel resto d’Europa. Il problema è che per entrambi le prospettive lavorative sono precarie».
Perché il mercato del lavoro non premia i laureati?
«Perché le imprese hanno bisogno di competenze trasversali, che i laureati italiani, soprattutto triennali, non hanno. Saperi pratici, come l’inglese, la capacità di imparare rapidamente, l’uso avanzato delle nuove tecnologie. L’introduzione del nuovo sistema, il cosiddetto 3+2, fatto di una laurea triennale e di una più lunga, la specialistica, in questo ha fallito».
Puntiamo il dito sul fallimento della riforma?
«Se è vero che ha portato più iscritti e tempi più rapidi per portare a termine gli studi, è anche evidente che i due percorsi non si sono differenziati abbastanza. Le lauree brevi dovrebbero servire per dare una solida base generale, con l’obiettivo di specializzarsi nel biennio. Ma per come sono stati pensati ora i corsi sono solo vecchie lauree ridotte, che non abilitano ad iniziare a lavorare».
Così sembra una trappola: la laurea come un passaggio obbligato che non dà più le garanzie di una volta.
«È così. Nel 2013 avere una formazione universitaria è necessario, soprattutto per accedere a un mercato del lavoro globalizzato. Non è più possibile pensare alla formazione di bottega, come una volta. E questo devono capirlo anche le aziende italiane: siamo il Paese che assume meno laureati in Europa».
INTERVISTA A GUIDO MARTINELLI RETTORE DELLA SISSA DI TRIESTE Futuro global –
Icorsi on line. La formazione a distanza. E persino gli autodidatti che costruiscono la loro formazione come un puzzle di offerte pescate in tutto il mondo. La aule universitarie, nel terzo millennio, devono subire la concorrenza dei nuovi canali. Ne abbiamo parlato con Guido Martinelli, rettore della Sissa di Trieste.
Il sapere che servirà ai giovani per competere nel futuro verrà ancora dalle università?
«Solo dalle università certamente no. Ci sono gli enti di ricerca, le organizzazioni internazionali di cui l’Italia fa parte, e ovviamente fondazioni e laboratori privati. Rimane però il fatto che il sistema universitario italiano è di gran lunga la maggiore struttura dedicata alla formazione di alto livello e alla ricerca che abbiamo. Sono fermamente convinto che gli atenei rimarranno a lungo i protagonisti della produzione del sapere. Ma la conoscenza e la ricerca scientifica sono per definizione basate sull’innovazione e il cambiamento. Dunque i contenuti, i metodi e l’organizzazione didattica delle università dovranno necessariamente evolvere nel tempo. Si spera sulla base di un progetto culturale e scientifico e non con misure o riforme continue e poco meditate».
Perché allora questo disamoramento delle famiglie italiane?
«Perché ogni governo impone la sua riforma, opposta alla precedente, e nessuno pensa a stabilire obiettivi e pianificare le risorse necessarie a lungo termine. Ma con la riduzione dei fondi per l’istruzione sarà sempre più difficile alzare lo sguardo dal presente. E un governo che toglie risorse alla formazione è un governo che accetta il declino del Paese, che non crede allo sviluppo».
INTERVISTA A PAOLO SIMONCELLI UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA Concorrenza sleale delle private –
Aguardare i grafici sembra proprio che le università private soffrano meno delle pubbliche: tra le uniche 10 che non perdono studenti (vedi grafico di pag. 33) quattro sono di diritto privato. E qualcuno punta il dito sulla concorrenza sleale, e accusa il "prestito" di professori docenti delle università pubbliche ad atenei privati, perfettamente legale, certo. Ma con un saldo netto a favore dei privati perché di fatto il prof costa all’ateneo di provenienza stipendio e previdenze, ma quando va a insegnare con incarico annuale presso un ateneo privato, percepisce solo il gettone (15-20 mila euro annui) perché il carico previdenziale è già pagato dall’Università. Paolo Simoncelli, ordinario di Storia moderna presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, combatte questa prassi da anni, convinto che uccida man mano la pubblica istruzione.
Professor Simoncelli, perché è possibile questa migrazione?
«Per ottenere l’incarico di insegnamento, al docente dell’Università pubblica basta il nulla-osta del Consiglio di Dipartimento di appartenenza. Una prassi assodata che vede pochi oppositori. Alla Sapienza di Roma ci sono stati addirittura presidi di Facoltà, direttori di Dipartimento, presidenti di aree didattiche, che hanno tenuto costantemente lezioni presso atenei privati concorrenti con quelli che dirigevano. Il nuovo Statuto della Sapienza, pubblicato da pochi mesi, limita questa possibilità a Università private che abbiano siglato una apposita convenzione, a titolo oneroso, con la Sapienza».
Non le piace?
«No, non è deontologicamente corretto, anche perché si tratta di atenei fra di loro in concorrenza. Se il docente presso l’Università pubblica non è puntuale, salta lezioni o appuntamenti, non è di fatto soggetto a sanzioni. Se lo stesso docente manca lezioni o appuntamenti nel suo secondo lavoro, l’anno successivo viene sostituito da un altro docente. È evidente quale sia l’interesse prevalente».
Quali sono le facoltà dove è più diffuso questo fenomeno?
«Giurisprudenza, Economia e Commercio, Scienze Politiche; vale a dire quelle preposte alla formazione di dirigenti dello Stato. Viene da chiedersi se sia un caso la distrazione spesso manifestata dalla direzione delle Università pubbliche per queste facoltà, lasciate di fatto a subire la concorrenza libera e sfrenata delle private. In questo modo la formazione dei prossimi dirigenti pubblici è lasciata praticamente ai privati. Inaccettabile».
INTERVISTA A ANDREA SIRONI RETTORE DELLA BOCCONI DI MILANO
Paghino i ricchi
Per il nuovo rettore della Bocconi di Milano, Andrea Sironi, la crisi dell’università ha due cause, entrambe sotto gli occhi di tutti: la classe media in difficoltà, che fatica a sostenere le spese, e il vantaggio economico della laurea sul mercato del lavoro, che si assottiglia, anno dopo anno. Ma dall’ateneo che fu di Monti arriva una proposta shock.
Tasse, libri e vita fuori sede costano troppo per migliaia di italiani. Come si può superare questo scoglio?
«Partendo da un principio che qui in Bocconi applichiamo da tempo, per le lauree triennali, ovvero far sì che i ricchi paghino rette più elevate, permettendo agli studenti di fasce più basse di ricevere borse di studio, per reddito e per merito. Fra i nostri iscritti c’è ormai una sorta di polarizzazione: da una parte molti studenti che frequentano i corsi con agevolazioni totali, dall’alloggio alle tasse, dall’altra i figli di famiglie facoltose, che possono accedere solo alle borse per merito. In questo scenario chi fa più fatica sono proprio le famiglie del ceto medio, che devono sostenere rette elevate e oggi non hanno più le garanzie di un tempo».
I finanziamenti pubblici per le borse di studio però sono stati decurtati anche del 50 per cento negli ultimi anni.
«Non ci sono solo le borse. In Italia c’è una mentalità contraria ai prestiti per gli studenti, ma in Bocconi li garantiamo da tempo e abbiamo tassi di default molto buoni: il 94 per cento dei laureati inizia a restituire i finanziamenti ad un anno dalla fine degli studi. Certo così gli studenti si indebitano, ma lo fanno per la loro carriera. Ovviamente il diritto allo studio è un’altra cosa, e andrebbe finanziato di più. Magari proprio aumentando le rette per le fasce più alte di reddito. Penso che sia una proposta che tutti gli atenei dovrebbero considerare seriamente».
Aumentare le rette universitarie?
«In Italia ci sono servizi pubblici che tutti danno per scontati. Non è più così. Chi se lo può permettere, oggi, dovrebbe pagare di più. So che non è equo: chi guadagna molto già paga più tasse. Ma è necessario, perché altrimenti non si tiene in piedi il sistema. Ci vorrebbero poi degli interventi drastici sul numero degli atenei. Penso che la politica dell’"università sotto casa" sia stata un disastro, per il livello della formazione e i costi per lo Stato. Gli atenei andrebbero accorpati, usando i fondi risparmiati per intervenire sull diritto allo studio».
Lei ritiene quindi che i denari spesi per frequentare l’università siano ancora un buon investimento?
«Lo dice la stessa Banca d’Italia. Che ha certificato come il rendimento del capitale investito per laurearsi sia del 10 per cento, ovvero molto di più di quanto non garantisca un buon titolo azionario. Certo, dipende dalle discipline che si scelgono: l’area economica e le ingegnerie premiano, ma l’investimento vale sempre la pena».