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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

SCRITTORI E SCRIVANI

[Dai travet ai precari Gli impiegati della letteratura] –
Franz Kafka fece una sorta di stage — si trattava di un apprendistato, in realtà — nella filiale praghese Assicurazioni Generali triestine prima di essere assunto all’Istituto contro gli infortuni sul lavoro del Regno di Boemia. Lì lavorò come impiegato dal 1908 fino al 1922, e due anni dopo, nel 1924, morì. Pare fosse un impiegato modello. Il suo superiore diretto così relazionava: «Instancabile, assiduo, ambizioso, egregiamente utilizzabile, il dottor Kafka è di straordinaria operosità, di spiccata intelligenza e di grande zelo nell’adempimento del suo lavoro». Ciò nondimeno Kafka mal tollerava la vita d’ufficio, che rappresentava l’altra metà della sua vita anfibia, spesa tra le carte della scrittura notturna e le scartoffie
dell’ufficio. «Queste due professioni — scriveva — non si possono mai conciliare, né ammettono una felicità comune. La più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra». Nell’autunno del 1914 si prese due settimane di congedo dalle scartoffie per tentare di portare a termine Il processo, ma alla fine si accorse di aver scritto «poco e fiacco », e gli venne il più lancinante dei dubbi: di «non essere degno di vivere senza l’ufficio».
Tra carte e scartoffie (il Mulino) è il titolo del curioso libro del giurista — e appassionato di letteratura — Luciano Vandelli. Si tratta di una carrellata sugli scrittoriimpiegati o personaggi-impiegati. Kafka alle assicurazioni, Goncarov al ministero delle Finanze, Hawthorne e Melville all’Ispettorato delle dogane, Maupassant alla Marina, Stendhal console assenteista, e così via passando per Bukowski, Zola, Dostoevskij. Il sottotitolo è Apologia letteraria del pubblico impiego, che è in qualche modo un sintomo: perché ci si sente in dovere — mi chiedevo — di difendere oggi l’impiegato e in particolare l’impiegato pubblico? Perché oggi il discredito che ha travolto il pubblico impiego — la demagogica caccia al “fannullone” — è vergognoso. Vero. E però non basta, perché qui c’è di mezzo la letteratura. «La letteratura deve molto al pubblico impiego», scrive Vandelli in apertura.
Mentre leggevo le pagine in cui Vandelli descrive il romanzo come una forma in qualche modo figlia della nascita dell’amministrazione francese («l’8 piovoso dell’anno VIII — 1800 — quando Bonaparte firma la legge che istituisce i prefetti e le prefetture»), mi è venuto in mente il grande scrittore svizzero Max Frisch che in visita nel 1946 alle città europee distrutte dalla guerra, annota nel suo diario che la scrittura è una legittima difesa disperata contro il caos. Scrive: «Se ci riesce anche solo la forma di un’unica frase […] quanto poco ci tocca ciò che di enorme ed informe ci cova nell’anima e ci minaccia all’intorno! […] Riusciamo a sopportare il mondo, perfino quello reale, a gettare uno sguardo nella sua follia; vi riusciamo nella folle speranza che il caos si lasci ordinare, si lasci comporre come una frase, e la forma, ovunque la si realizzi, ha una virtù di consolarci che non ha eguali».
Mi sono venute in mente queste pagine di Max Frisch perché alle loro origini la burocrazia e l’amministrazione altro non erano che degli strumenti di arginamento del caos (oltre che degli straordinari esercizi di controllo da parte del potere), la creazione di una forma, funzionale e arbitraria quanto si voglia, per contenerlo, il caos, per conferire e imporre insieme un senso ai cittadini. Il lavoro, l’impiego, si inseriscono in questo quadro: è il singolo collocato dentro quella forma, che manda avanti con la propria giornata un meccanismo. Le scartoffie che produce sono la certificazione della sua sottomissione a quell’ordinamento, e al tempo stesso l’evidenza del suo diritto a farne parte. La letteratura combatte dall’interno la violenza di quell’imposizione, combatte con le carte le scartoffie. Oppone un altro universo di senso, che è per propria natura anarchico, contrario a quello dato dal potere. Di qui gli impiegati raccontati da Luciano Vandelli: Kafka, Melville, Gogol’, Stendhal, e gli altri loro colleghi, stanno dentro quella macchina, rispondono alla sua chiamata, obbediscono, e poi però al tempo stesso tentano di sabotarla. Kafka scrive di notte, Stendhal cambia il proprio nome (all’anagrafe, e dunque come impiegato, è Henri Beyle), Maupassant latita, Gogol’ finisce per andare in ufficio solo il giorno dello stipendio, e poi si dimette.
La storia della letteratura, riletta in questa chiave, diventa la dialettica feroce tra due modi di arginare l’inarginabile caos: la lotta tra un universo creato e imposto al cittadino da parte del potere attraverso l’amministrazione, e quello che la disperazione delle carte fa nascere nella solitudine dell’artista. Eccoci ritornati alla domanda: perché dunque il libro di Luciano Vandelli, la sua apologia letteraria dell’impiegato, ha un valore di sintomo, e dunque di allarme? Solo in parte per la gogna a cui è sottoposto ogni giorno l’impiegato pubblico. È piuttosto, mi viene da pensare, l’allarme di qualcosa di molto più profondo, e che si configura come un abisso di senso più drammatico. Arriva in un momento come questo in cui il lavoro non è più un diritto/dovere dei cittadini, non è più la richiesta o l’imposizione da parte di un potere di contribuire a portare avanti la macchina arginacaos, ma piuttosto una concessione elargita con sufficienza, e sempre revocabile.
Ecco, in questo momento, con la disoccupazione alle stelle, con milioni di persone che ogni giorno pietiscono un impiego (o che, peggio, hanno smesso anche di cercarlo) compilare l’apologia dell’impiegato significa qualcosa si più: significa difendere un qualsiasi straccio di senso, per i cittadini, la loro esigenza di essere collocati in qualche luogo, dentro qualcosa, anche se per detestarla o persino tentare di sabotarla. Ma di essere comunque da qualche parte, e non di camminare in mezzo alle macerie, come Frisch, «nella folle speranza che il caos si lasci ordinare, si lasci comporre come una frase».