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 2013  febbraio 08 Venerdì calendario

I MARINE E IL DRAMMA CHE NON FINISCE

Finito il dramma del bambino sequestrato in America da uno squilibrato e liberato dalla polizia con l’uccisione del sequestratore, possiamo ragionare con mente calma su un fenomeno ricorrente negli Stati Uniti: le imprese folli e violente di qualche ex-marine.
Prima, però, una precisazione: tutti dicono «il sequestro è finito bene», «la polizia ha risolto il problema», ma non dimentichiamo che ci sono due morti nella faccenda. Il primo è l’autista dello scuolabus. Che quando è salito il folle che, armi in pugno, pretendeva di portar via alcuni bambini, s’è opposto drizzandosi in piedi e sbarrandogli la strada. L’aggressore gli ha sparato in petto. Quell’autista ha protetto gl’innocenti offrendo la propria vita: non c’è eroismo più grande.
L’altro morto è il sequestratore: per liberare il bambino, imprigionato in un bunker, è stato necessario entrare con la forza, stordire subito il rapitore con due bombe accecanti, e immediatamente sparargli addosso. Va bene, era colpevole, ma era pur sempre un uomo, se fosse stato possibile non sparargli sarebbe stato meglio.
Il grande tema che questo amarissimo caso solleva è il seguente: ci sono troppo spesso ex-marine, in queste imprese sanguinarie. Non è un caso. C’è una logica. Cerchiamo di tirarla fuori.
Questo, come tanti altri protagonisti di casi simili, è un marine eccezionale. Pluridecorato al valore. Quindi, un super-marine. I marines hanno coniato (o, meglio, copiato da altri) un motto, per dire cosa ne sarà di loro quando non saranno più nel Corpo, e il motto dice: «Una volta marine, per sempre marine». Lo dicono con orgoglio, ma c’è qualcosa di tragico in quel motto di uomini addestrati alle armi. Di irreversibile. Una fonte perenne di pericolosità.
Il marine è un grandissimo soldato, un soldato speciale. Abbiamo dei diari sulla formazione del marine. Uno, di un certo Gustav Hasford, tradotto anche in italiano, presso Bompiani. Abbiamo anche dei marines che non ce l’hanno fatta a restare marines, e sono scappati: vengono considerati disertori, e come tali ricercati per sempre. Uno è Joshua Key, è tradotto in Italia presso Neri Pozza. Joshua Key è fuggito all’estero, in Canada, sempre col terrore di venire "riconsegnato". Ci sono molti film sui marines, girati con la consulenza di ufficiali e soldati. Da tutto questo materiale emerge che questi soldati eccezionali sono costruiti non per difendersi ma per attaccare: nel diario di Hasford, nel film (Full Metal Jacket) ricavato da Kubrick, nel diario del disertore, si ripete spesso che alla domanda dell’istruttore «Perché ti sei arruolato nel mio beneamato Corpo?», la risposta che il soldato deve fornire non è «Per difendere la patria», ma «Per uccidere, signore». L’audacia è il loro atteggiamento perenne.
Dormono col fucile a portata di mano. Nel Soldato Ryan non si difendono dai carri armati ma li attaccano, loro che sono fanteria, costruendo con le mani rudimentali bombe. Nel diario del disertore canadese uno della squadra porta un sacco in spalla, e ogni volta che uccidono un nemico gli tagliano un piede con l’accetta e lo mettono nel sacco, come trofeo. Negli aeroporti americani hanno fermato reduci dal fronte, che avevano nello zaino mani o piedi tagliati ai nemici.
Sono uomini fatti per uccidere, il loro habitat è la guerra. Trasportati nella pace, non tutti sono adattabili, e vanno in crisi di follia. Vissuti sempre con l’arma in mano anche addormentati, quando tornano a casa troppi di loro si procurano un arsenale. Perfetti combattenti, pessimi civili. Cercano vittime, ma a loro volta sono vittime del militarismo. Una volta marines, restano sempre marines.