Luca Pagni,e.l., la Repubblica 8/2/2013, 8 febbraio 2013
“QUEL FACCENDIERE SI PRESENTÒ COME SEGRETARIO DEL MINISTRO POI NON L’HO MAI PIÙ VISTO”
[L’ad: non posso interferire nei contratti Saipem] –
MILANO
— «Ma quale faccendiere? Quel signore di cui si parla nelle carte della procura lo ho incontrato una volta nella vita e solo per pochi minuti. Mi è stato presentato come il segretario particolare del ministro algerino dell’Energia: mi ha accompagnato e non l’ho mai più visto». A chi gli chiede una replica, Paolo Scaroni non nega l’episodio che lo trascina nella nuova bufera giudiziaria che coinvolge Eni e la sua controllata Saipem per un presunto episodio di corruzione internazionale. Per i magistrati di Milano che lo hanno indagato, quel randez vous in un hotel di lusso della capitale francese non sarebbe stato solo un incontro d’affari petroliferi. Proprio per la presenza di Farid Bedjaoui, indicato dai pm come intermediario dedito alla raccolta e redistribuzione di tangenti.
Ma la linea di difesa che Scaroni, come ha spiegato ieri ai suoi più stretti collaboratori, non sarà quella di negare l’incontro. Ma quella di dimostrare come, in tutti i suoi anni alla guida di Eni a partire dal 2005, non si sia mai interessato dei contratti di Saipem. «Non potrei nemmeno. E’ vero che controlliamo Saipem al 43 per cento, ma non interferiamo nella loro attività. E la ragione è molto semplice: per il 90 per cento della sua attività Saipem lavora per tutti i nostri concorrenti, da Shell a Total. Se solo fossero sfiorati dal sospetto che sappiamo quello che fanno non lavorerebbero più».
Per ironia della sorte, ieri Scaroni era a un incontro di lavoro proprio ad Algeri, mentre le forze dell’ordine portavano via i suo computer a Metanopoli, nelle sede romana della società nonché nella sua casa di Milano. Anche in questo caso, l’occasione è stata un incontro con il ministro dell’Energia, ma quello nuovo, visto che negli ultimi mesi è in corso nel paese africano una guerra politica che - a cascata - coinvolge anche Sonatrach, la società di stato degli idrocarburi, primo fornitore di gas all’Italia. Il manager si dice »sereno e tranquillo», non ha nessuna intenzione di dimettersi e spiega anche in un altro modo perché sarebbe estraneo ai fatti imputatigli. «Eni e Saipem fanno un lavoro diverso. Noi andiamo dai governi e proponiamo lo sfruttamento di un giacimento. Se ci danno il via libera ci teniamo il petrolio o il gas che estraiamo fino a quando ci ripaghiamo l’investimento e poi ci teniamo una quota di quello successivo fino a esaurimento». Come dire: soldi non ne girano. Ma diverso è il caso di Saipem. «È una società di ingegneria e partecipa a delle gare e viene pagata per il suo lavoro. Ma come detto, Eni non ne segue l’attività ». Come spiegano dall’interno dell’azienda, «l’attività di Saipem è esposta a possibili tentativi di corruzione, visto il contesto in cui opera e come si muovono alcuni governi, situazioni che tutti i grandi gruppi petroliferi cercano di combattere».
Un altro particolare che Scaroni, in passato anche alla guida di Enel, non può negare è il ritorno sulla scena del segretario-faccendiere Bedjaoui, come socio in una attività agricola con l’ex moglie di un alto dirigente del gruppo, Pietro Varone, a sua volta coinvolto nell’inchiesta per tangenti in Algeria. Coincidenza veramente singolare. In questo caso, l’ad di Eni torna indietro di qualche settimana, allo scorso dicembre, quando i vertici di Saipem vengono decapitati: «Quando abbiamo saputo dell’inchiesta della Procura sugli episodi attribuiti a Saipem ci siamo mossi e ho scritto una lettera al presidente della società perché prendesse “interventi di forte discontinuità gestionale e organizzativa” che hanno poi portato all’allontanamento e alla sostituzione di tutti i manager coinvolti, Varone compreso». Intervento, forse tardivo: anche questo è un episodio che dovrà spiegare ai magistrati quando lo interrogheranno, visto che è indagata anche ai sensi della 231, la legge sulla responsabilità dei dirigenti, per omesso controllo.
DALLA NIGERIA AL KUWAIT, UNA RETE DI AFFARI OPACHI –
MILANO
— Algeria, ma non solo. Il gruppo Eni durante la gestione di Paolo Scaroni è già finito nel mirino di magistrati e di autorità di controllo internazionali anche in altre occasioni. Nel 2010 il Cane a sei zampe ha chiuso con una maxi-transazione da 365 milioni di dollari (240 con il Dipartimento di giustizia americano e l125 con la Sec) il procedimento per corruzione avviato per fatti accaduti in Nigeria tra il 1995 e il 2004 (prima cioè dell’arrivo del manager a San Donato). Nel mirino, in questo caso, erano finiti i membri di un consorzio per la costruzione di un impianto di gas liquefatto a Bonny Island, nel paese africano – tra cui oltre a Snamprogetti con una quota del 25% erano presenti l’americana Halliburton, la francese Technip e giapponese Jgc– accusati di aver pagato mazzette alle istituzioni locali.
La prima inchiesta vera e propria che ha coinvolto l’Eni targata Scaroni è quella aperta nel 2012 dal pm milanese Fabio De Pasquale, lo stesso al lavoro oggi sul dossier algerino. In questo caso si tratta di un’inda-
gine a 360 gradi per corruzione internazionale sulle attività della major tricolore in Irak, Kuwait e Kazakhstan. Sotto il riflettore del pm sarebbero finiti presunti episodi di pagamento di bustarelle da parte di top manager della società per appalti in Medio Oriente, area dove l’Eni – dopo la guerra – funzionava non solo come impresa costruttrice ma pure da stazione appaltante con deleghe di Bagdhad e Kuwait City. Gli impianti coinvolti erano quelli impegnati in due dei più importanti giacimenti al mondo, quello di Zubair, non lontano dalla città portuale di Bassora e il Jurassic Field, nella parte più settentrionale del Kuwait. In quest’ultima località Saipem si era aggiudicata un contratto da 1,5 miliardi, firmato alla presenza dell’allora ministro degli esteri Franco Frattini mentre lo stesso Scaroni aveva siglato a inizio 2010 il maxi contratto per 20 miliardi di investimenti in 25 anni in Irak. In questo caso l’Eni era partner al 32% di un consorzio che vedeva presenti anche l’americana Oxi-Occidental e al 18% la Korea Gas oltre a due aziende locali.
Due anni fa il Cane a sei zampe è tornato nel mirino della Sec, l’organo di controllo della Borsa statunitense, per i suoi affari in Libia. L’authority statunitense – che in questo caso indaga pure su Glencore e Total – ha già richiesto nel 2011 a San Donato «una produzione documentale relativa alle attività a Tripoli dal 2008». Si trattava, come diceva allora il bilancio d’esercizio della società, di «indagini in corso senza ulteriori precisazioni né ipotesi specifiche di violazioni ipotizzate». Sul dossier si è mossa pure la giustizia libica con un’inhciesta avviata a inizio 2012 dopo la rivolta che ha deposto il regime di Gheddafi Trasparency international nel suo report sulla trasparenza delle 105 maggiori multinazionali del mondo (indice che comprende il reporting sulle iniziative anti-corruzione) classifica l’Eni al 33esimo posto.