Geoffrey Pizzorni, Foucus 22/1/2013, 22 gennaio 2013
UNA RINASCITA PER L’INDUSTRIA
L’industria mondiale ha un grande futuro. Per il McKinsey Global Institute non ci sono dubbi. Il settore manifatturiero, così segnala una ricerca pubblicata di recente, sarà ancora decisivo per creare sviluppo e innovazione. Senza contare che nel 2025 una nuova classe di consumatori si sarà già fatta avanti e saranno proprio i Paesi emergenti a rappresentare le nuove opportunità e i luoghi dove si consumerà di più. L’istituto, però, avverte: per vincere la competizione globale, le imprese avranno bisogno di muscoli d’acciaio.
E l’Italia? A leggere le statistiche, sembra che di "ginnastica" la nostra industria ne dovrà fare parecchia. Non fosse altro che per mantenere la posizione nella graduatoria delle nazioni più industrializzate. Secondo i dati di Confindustria, infatti, nel 2009 l’Italia era al 5° posto per poi scivolare, soltanto due anni dopo, in ottava posizione.
Classifiche a parte, la posta in gioco è molto alta a cominciare, come insegnano il caso dell’Uva e il destino della Fiat, dalle ricadute in termini di occupazione. Qualcuno parla di declino industriale e sul banco degli imputati mette la grande industria.
Cattedrali. Basta viaggiare tra le tante aree dismesse del celebre "triangolo industriale" (Torino, Milano e Genova) per accorgersi che la grande impresa non abita più lì. Se si volesse cercare un simbolo di questa deindustrializzazione basterebbe andare all’Alfa di Arese, pochi chilometri a nord di Milano, raccontata con desolazione nelle foto dei capannoni ormai abbandonati, pubblicate in queste pagine. Ci lavoravano 20.000 operai, oggi sono poco più di un centinaio. La "cattedrale dei metalmeccanici così veniva chiamato lo stabilimento Alfa si è svuotata e la stessa fine hanno fatto molte delle 105 fabbriche lombarde che nel 1971 davano lavoro, in media, a più di 1.000 operai. Oggi di questi grandi impianti ne restano solo 27, con una riduzione dei dipendenti vicina all’80%.
E pensare che, fino alla fine degli anni ’60, la grande industria era stata uno dei pilastri dell’economia italiana. «Fu un "magico accordo" sottolinea Giuseppe De Luca, professore di Storia Economica all’Università Statale di Milano tra un’industria con bassi salari e costi contenuti e una domanda interna in pieno "miracolo economico", senza dimenticare l’aumento delle esportazioni favorite dall’integrazione europea».
Poi qualcosa si ruppe. Aumentarono i salari, le imprese persero di efficienza e la spinta innovativa si affievolì. Nei primi anni ’70, il ritardo tecnologico con gli Stati Uniti era intorno ai 30 anni. Gli anni d’oro della grande impresa erano ormai alle spalle. Anzi, non tornarono mai più. Iniziò una fase piena di difficoltà derivanti dal crescere della concorrenza internazionale e dalla degenerazione del capitalismo pubblico, che da solo rappresentava il 35% delle imprese medio-grandi. Anni di cattedrali nel deserto, specie nel Mezzogiorno, di sprechi e di bilanci in rosso.
Tra finanza e globalizzazione. Le ristrutturazioni tentate negli anni ’80 portarono a risultati deludenti, mentre alcune importanti famiglie imprenditoriali Agnelli, Falck e Benetton, tra le altre scelsero di ridurre le perdite e d’investire in altri settori ritenuti più sicuri e al riparo dalla concorrenza estera, come le reti telefoniche e i servizi di pubblica utilità. Iniziò così la stagione delle privatizzazioni di alcune grandi aziende statali Eni e Telecom, per esempio mentre per altre si aprì la strada della liquidazione. La globalizzazione ha fatto il resto. Sul campo sono rimasti molti "cadaveri" eccellenti, Montedison e Olivetti su tutti, mentre per Fiat e Pirelli è iniziato un periodo di passione. Ancora nei primi anni del nuovo millennio, le grandi imprese italiane hanno continuato a rimanere lontane dalle loro rivali internazionali in termini di fatturato e occupazione, senza contare gli investimenti nella ricerca: quattro volte inferiori a quelli di Germania, Giappone e Stati Uniti.
La presenza italiana in alcuni settori tecnologicamente avanzati chimica ed elettronica è minima tanto che oggi in questi campi bisogna ricorrere alle importazioni. In generale, la strategia di molte società è stata quella di ridurre i costi delocalizzando all’estero o frammentando i processi produttivi rivolgendosi ad imprese esterne. In pratica, dal 2000 al 2009, il contributo della grande impresa alla produzione industriale è sceso » del 20%. Una deriva che non trova spiegazione solo nella crescita della concorrenza mondiale, Cina in primis, ma è anche la conseguenza di politiche industriali mirate a diminuire il costo del lavoro a scapito dell’espansione dei ricavi frutto delle innovazioni tecnologiche e di un uso non sempre virtuoso delle risorse finanziarie.
Una buona notizia. Se la grande industria italiana annaspa, c’è una buona parte del comparto industriale nazionale che soffre ma resiste. È il cosiddetto "quarto capitalismo" da una fortunata definizione coniata nel 1986 dal giornalista Giuseppe Turani ovvero quello delle imprese medio-grandi a proprietà familiare, specializzate nell’industria leggera, molto presenti sui mercati internazionali e per questo chiamate anche "multinazionali tascabili". Queste imprese (tra cui Tod’s, Luxottica Brembo e Pininfarina) coprono, insieme all’indotto generato, fino al 50% della produzione industriale nazionale, contro l’8% della grande impresa. Il loro segreto è nell’organizzazione più snella e nella capacità di creare innovazione e occupazione. «Non sappiamo fare l’iPhone spiega Fulvio Coltorti, direttore emerito e consigliere economico Area studi di Mediobanca ma per esempio sappiamo usare bene l’elettronica impiegata nei macchinari industriali, per i quali ci contendiamo la leadership mondiale con la Germania».
Nei fatti, nonostante si siano perse quote di mercato, le esportazioni italiane sono cresciute per volumi. E secondo un’indagine della Fondazione Edison sono 249 i prodotti per i quali l’Italia è il primo esportatore al mondo. Si va dalla rubinetteria alle navi, passando dalle piastrelle, le scarpe e le macchine per imballare e impacchettare.
E domani? «Certamente occorrerebbe una nuova grande industria, ma non si può creare così dalla sera alla mattina. È indispensabile una classe dirigente capace di vedere in grande e lontano nel tempo». Ad esserne convinto è Fulvio Coltorti, per il quale «il quarto capitalismo è realisticamente la nostra speranza». Per Giuseppe De Luca, invece, «le multinazionali tascabili sono un’alternativa importante, ma senza grande industria si corre il rischio di diventare terreno di conquista per i grandi gruppi internazionali» .
Serve dunque una grande impresa che non punti solo a ridurre i costi, ma che ritorni a essere protagonista nella ricerca e nell’innovazione. Del resto, nel mondo questa è la tendenza e le grandi realtà puntano sempre più in questa direzione. Un treno da non perdere.