Giampaolo Pansa, Libero 7/2/2013, 7 febbraio 2013
IL NUOVO LIBRO DI PANSA COSÌ SCALFARI MUTÒ «REPUBBLICA» IN UNA CASERMA
Esistono tanti modi per narrare la storia di una nazione. Uno di questi è iniziare a osservarla da un posto di vedetta speciale: i grandi giornali quotidiani. Sappiamo che non sempre raccontano la verità. E di solito gli storici accademici li considerano fonti di dubbio valore, da verificare con scrupolo diffidente. Tuttavia la stampa riflette di continuo i caratteri della società a cui si rivolge. Prima di tutto perché ne offre un diario quotidiano. E ogni mattina lo vende a quanti ritengono, come sosteneva il filosofo Hegel, che la lettura del giornale sia la preghiera dell’uomo moderno. Però la carta stampata testimonia anche le qualità e i difetti dell’ambiente che la produce e la consuma. Per questo diventa l’autoritratto di se stessa e rivela la propria storia persino nel caso che voglia nasconderla. È fatale che sia così. Quando un paese si sviluppa e si rafforza, ha giornali e giornalisti che crescono insieme a lui. Quando un paese declina e s’indebolisce, anche la stampa perde energia e rischia di essere inutile. Ma in entrambi i casi è uno specchio che svela senza inganni chi siamo e come saremo.
Dunque ricostruire la storia di un giornale non è un’impresa che riguardi soltanto gli addetti ai lavori. Significa raccontare un percorso di vita assai più ampio. E rivivere un’esperienza che appartiene a tutti. I decenni dal 1976 in poi, nel passaggio tra la prima e la seconda fase della vicenda italiana del dopoguerra, hanno avuto come testimone un quotidiano che prima non esisteva: Repubblica. Partita da zero copie, via via è diventata una delle grandi testate europee. Ha descritto con veemenza, e non poca alterigia, i mutamenti della società italiana, la decadenza del sistema politico, le ansie dei cittadini.
Anno dopo anno, Repubblica si è mutata in un potere invisibile e non sempre positivo. In grado di influenzare partiti, governi, conflitti economici, mode culturali e comportamenti di massa.
Oggi anche Repubblica risente della crisi che prende tutti alla gola, eppure resiste e continua a imporsi. Rievocarne le vicende e le figure dei protagonisti aiuta a decifrare quanto è accaduto a noi semplici uomini della strada. Gli eventi positivi e quelli tragici. Le conquiste civili e le occasioni mancate. Le speranze e le delusioni. Nasce così questo racconto che vede muoversi sulla scena una folla di personaggi, ma si regge soprattutto su tre figure: il Costruttore, il Compratore e il Continuatore. Sono persone vere, legate in modo tanto stretto da formare una triade.
Nell’antichità, e nelle religioni politeiste, la triade era composta da un terzetto di divinità molto unite tra loro e da venerare con riti identici. La Triade di questo libro non appartiene a un mondo ultraterreno. Sta di fianco a noi. Possiamo incontrarla nella vita di tutti i giorni. E poiché nessuno è intoccabile, risulterà lecito descriverla con parole non cortigiane, capaci di mettere a nudo vizi e virtù.
[Il Costruttore] È Eugenio Scalfari, il più anziano e famoso tra i giornalisti italiani ancora in attività. In aprile compirà 89 anni, ma l’età non gli impedisce di scrivere, ingaggiare polemiche, combattere con le parole e le idee. Ho lavorato accanto a lui per poco meno di un quindicennio e da parecchio tempo ci siamo persi di vista.
Ma qualche mese fa mi è capitato di vederlo per caso, da lontano. Eravamo nell’autunno scorso. Mentre preparavo questo libro mi trovavo a Roma per parlare con un testimone delle vicende narrate qui. Stavo avviandomi dal Senato a piazza Montecitorio quando ho notato Eugenio che si dirigeva a piedi verso casa. Mi è parso un gran signore, meraviglioso a vedersi: alto, la figura snella e bene eretta, elegante, con l’aria di chi è sicuro di sé e del proprio carisma. Camminava a passi lenti, impugnando un bastone prezioso che sembrava uno scettro più che un sostegno.
Confesso di aver provato qualche istante di commozione mista al rimpianto. È stato quando ho notato la sua barba, candida e ben curata. In quel momento mi sono rammentato che a Repubblica lo chiamavamo Barbapapà, come un personaggio dei fumetti. In quel soprannome c’era molto rispetto e anche ammirazione. Senza Barbapapà, e senza il suo gemello Carlo Caracciolo scomparso nel dicembre 2008, Repubblica non sarebbe mai nata. E la politica italiana avrebbe avuto un corso diverso.
Scalfari l’ha raccontata, giudicata e influenzata come nessun altro giornalista ha fatto dal 1976 a oggi. Per vent’anni da direttore e in seguito da editorialista, osservatore, mentore, filosofo, scrittore, polemista. Anche nel nostro mestiere, resistere all’avanzata del tempo, serbando intatte la lucidità e la capacità di parlare a un pubblico vasto di lettori, è una qualità e una fortuna che ben pochi possiedono. Ecco la dote numero uno di Eugenio: non rifugiarsi nella vita privata, ma rimanere in piedi di fronte ad amici e avversari, senza timore di nessuno.
Scalfari ci è riuscito e ci riesce perché la sorte gli ha permesso di conservare il carattere che ha sempre messo in mostra. Un primo della classe geniale, testardo, autoritario, con un’autostima enorme, convinto di avere sempre ragione al punto di non sopportare chi si azzarda a mettere in dubbio la sua assoluta perspicacia. E quando commette un errore, e sbaglia una previsione, come è accaduto in più di un caso, rimuove tutto senza spiegare nulla.
La stessa marmorea noncuranza mostra nel piegare i fatti, e la loro memoria, a vantaggio di se stesso. Sino al punto di alterare la verità. Gli capita di farlo spesso, confidando sulla smemoratezza di chi lo ascolta pontificare in tv con lentezza regale o legge il suo vangelo domenicale su Repubblica. Volete un esempio di questa sicurezza rocciosa? Ne citerò uno solo, minimo, ma significativo. Riguarda la storia del quotidiano che ha fondato e l’arrivo del successore al vertice del giornale, Ezio Mauro. Domenica 26 agosto 2012, per troncare le polemiche interne a Repubblica su una controversia a proposito delle prerogative del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, Scalfari ha scritto di Mauro: «Noi ci siamo scelti reciprocamente diciassette anni fa ed è stata una scelta della vita che quotidianamente si rinnova ».
In realtà era andata nel modo opposto, come si potrà leggere in questo libro. Barbapapà non voleva Ezio come successore. E fu costretto ad accettarlo perché così aveva deciso l’editore, Carlo De Benedetti. A somiglianza di chi scrive di continuo sui giornali, anche Scalfari si contraddice. Su questo versante, le molte testate che lo avversano si divertono a prenderlo in castagna di continuo. Ma ho l’impressione che a Barbapapà non importi nulla, anzi credo ne sia felice. Forse considera le critiche un omaggio alla propria fama e all’instancabile presenza sul campo. Ogni colpo che gli assestano è per lui una vittoria. Il fragore della battaglia lo fa sentire giovane. E lo obbliga a rammentarsi di avere tanti successi da rivendicare. Il primo è di aver creato dal nulla, con Caracciolo, un giornale leader come Repubblica. E dopo averlo fondato, essere riuscito a farlo diventare il potere invisibile, ma concreto, che è oggi. Un’impresa titanica che non era mai accaduta nell’Italia dal 1945 in poi. Tutti i quotidiani nati dopo la fine della guerra, compresi quelli rimasti sulla scena, non possono vantare il percorso trionfale del giornale di Barbapapà.
Scalfari poi voleva un quotidiano di sinistra ed è riuscito a costruirlo e ad affermarlo, mentre tutta la stampa di quell’area politica spariva o si riduceva al lumicino. Repubblica ha distrutto uno dopo l’altro i giornali legati al Pci o compagni di strada delle Botteghe oscure. Gli ha portato via schiere di redattori e molte migliaia di lettori, ma soprattutto ha divorato il loro prestigio. Nell’Italia del 2013 i quotidiani rossi non sono più di tre. Hanno tirature basse o ridotte al minimo. E ogni mattina si scoprono umiliati dal colosso repubblicano. Barbapapà voleva un giornale «ibrido », come l’ha definito un intellettuale di grande acume, Edmondo Berselli.
Per metà aristocratico e per metà popolare, in grado di ospitare firme diverse e spesso in contrasto. Scalfari ci è riuscito mettendo in pratica la teoria del giornale libertino, capace di contraddirsi, di mutare opinione, di sposare cause in apparenza lontane fra loro. Un miracolo che il lettore troverà spiegato nel corso di questo racconto. Però quel prodigio oggi è finito, annientato dalla filosofia del giornale-caserma che pervade la Repubblica di questi ultimi anni. Diventata una fortezza inchiodata a un pensiero unico. Dove non vengono ammessi dubbi, dissensi, deviazioni. Le opinioni pubblicate sono tutte uguali e dettate ai lettori senza mai essere messe in discussione. Un errore al quale Scalfari non soltanto non si è opposto, ma che ha contribuito a provocare.
Il risultato è una falange compatta e guerrigliera: il giornale-partito. Questa accusa viene rivolta da anni a Repubblica. Accadeva già con la direzione di Scalfari e accade oggi sotto la regia di Mauro. Di questa etichetta a Eugenio non è mai importato nulla. Anzi l’ha rivendicata in un editoriale dell’agosto 2007 nel quale spiegava che le grandi testate sono tali proprio perché sposano una causa politica. Era accaduto così anche nei primi anni del Novecento con il Corriere della Sera di Luigi Albertini.
La domanda è se nella temperie attuale, dove nessuno è più certo di nulla, un giornale-partito sia utile al pubblico al quale si rivolge e, più in generale, alla società italiana. Se osserviamo la crisi profonda che investe anche Repubblica, la risposta è no. Ma questo è un problema del direttore di oggi e dell’editore. Non di Scalfari. Barbapapà non si pone questo interrogativo. E non si macera nell’incertezza quando deve spiegare chi siano i lettori di Repubblica.
Per lui sono una comunità di militanti, cresciuta lottando contro i nemici che, via via, Scalfari indicava: per primo Bettino Craxi e infine Silvio Berlusconi. Nel giugno 2012, mentre si apriva a Bologna la maxifesta celebrativa del giornale, alla richiesta di definire le diverse generazioni di lettori repubblicani, Barbapapà ha offerto una risposta di quattro parole: «Sono la sinistra italiana di oggi».
Se Eugenio si volta a osservare il passato, non può che provare ammirazione per se stesso. È anche riuscito a diventare ricco, vendendo il giornale che ha creato.