ItaliaOggi 7/2/2013, 7 febbraio 2013
I SEGRETI DEI GIORNALI ITALIANI
ItaliaOggi anticipa alcuni stralci del nuovo libro di Giampaolo Pansa la Repubblica di Barbapapà - Storia irriverente di un potere invisibile, (pagine 324, euro 19) che Rizzoli pubblica il 13 febbraio.
Repubblica ha divorato tutti i quotidiani rossi. Scalfari voleva un quotidiano di sinistra ed è riuscito a costruirlo e ad affermarlo, mentre tutta la stampa di quell’area politica spariva o si riduceva al lumicino. Repubblica ha distrutto uno dopo l’altro i giornali legati al Pci o compagni di strada delle Botteghe oscure. Gli ha portato via schiere di redattori e molte migliaia di lettori, ma soprattutto ha divorato il loro prestigio. Nell’Italia del 2013 i quotidiani rossi non sono più di tre. Hanno tirature basse o ridotte al minimo. E ogni mattina si scoprono umiliati dal colosso repubblicano.
De Benedetti non ha creato, ma acquistato giornali. La critica più pesante prende di mira la figura stessa dell’Ingegnere. Lui non ha creato nessuno dei giornali che possiede. Si è limitato ad acquistarli. L’Espresso esisteva ben prima che lui scendesse in campo, ossia dall’ottobre 1955. Repubblica è nata nel 1975 da un quartetto di padri che non avevano nessun rapporto con Cidibì. Uno di loro, Scalfari, gli propose di diventare socio del giornale che stava progettando, ma De Benedetti rifiutò di far parte della compagnia. Il suo ingresso sulla scena come proprietario totale risale all’aprile 1989, quando si era già insediato nella Mondadori non ancora conquistata da Berlusconi. Fu una svolta nella vita dei due venditori, Scalfari e Caracciolo. Loro diventarono di colpo miliardari. E De Benedetti iniziò a considerarsi un imprenditore della carta stampata.
Senza Berlusconi, da distruggere Repubblica è perduta. Neppure il più ingenuo dei berlusconiani poteva aspettarsi che Ezio Mauro trattasse il Cavaliere con un minimo di imparzialità. Ma nei soli dieci giorni presi in esame è emerso un odio così totale e un disprezzo tanto fondamentalista, e quasi talebano, da costituire un caso unico nella stampa italiana. Berlusconi veniva dipinto come un genio del male disposto a compiere qualunque nefandezza. Il nuovo Padrino. Il colluso con la mafia. Il puttaniere. Il nemico della libertà di stampa. L’infame che travia le coscienze dei giovani. Il malvagio. Il virus che ha infettato l’Italia. Il portatore di una nube oscura di contagio. Il Continuatore aveva un obiettivo: distruggere il premier più di quanto non lo facesse lui da solo con un’infinita sequenza di errori. Ma una volta cacciato il Caimano, Repubblica non ha più saputo contro chi usare la forza del proprio potere invisibile. Come accade nei pessimi romanzi di fantascienza, si è trovata di fronte a un deserto abitato soltanto dal governo tecnico di Monti. E deve essersi sentita perduta, se non inutile.
Repubblica usa il silenzio come arma. È lo stile della Repubblica mauresca. Lo conosco bene. Il silenzio è la loro arma migliore contro avversari che debbono restare nel pozzo buio dell’anonimato. Allo stesso modo conosco alla perfezione l’intransigenza di Mauro nel decidere chi è buono e chi è cattivo, chi è un giornalista per bene e chi è diventato una canaglia. L’ho sperimentata ai tempi dei miei libri revisionisti successivi al Sangue dei vinti. Me ne sono infischiato e continuo a non curarmene. L’unica difesa contro gli insulti repubblicani è dimostrare che non ti fanno né caldo né freddo.
Scalfari deputato sostenitore del Movimento studentesco. Da deputato milanese, Scalfari si era gettato tutto a sinistra, diventando un sostenitore del Movimento studentesco che dopo il Sessantotto dominava la piazza. Le assemblee alla Statale lo vedevano spesso tra i vip che assistevano a quei riti. C’è una suggestiva fotografia scattata da Massimo Vitali che ritrae Eugenio in un’assemblea nell’aula magna dell’università. È in piedi e sta fumando. Accanto a lui c’è la sua spalla abituale: Giuseppe Turani, detto Peppino, piccoletto e occhialuto, giornalista esperto di questioni economiche.
Gaspare Barbiellini Amidei in guerra per arrivare in alto. La prima sorpresa la incontrai nelle stanze della terza pagina del Corriere della Sera. Qui conobbi chi se ne occupava, Gaspare Barbiellini Amidei. Era elbano di Marciana Marina, aveva 39 anni, uno più di me, i capelli quasi bianchi, magro, agitato, sempre in battaglia per la gran voglia di arrivare in alto. Mentre uscivo dal suo ufficio, mi prese per un braccio e portandomi in disparte sussurrò: «Non ti preoccupare di andare d’accordo con Ottone. Tra un paio di mesi lui sarà costretto ad andarsene e diventerò io il direttore!».
L’ultimatum di Scotti a Ottone: dopo Pansa basta assunzioni. Alfonso Scotti era un giornalista del Corriere della Sera ciccioso con l’aspetto del figliolo cresciuto in parrocchia. Abitava in un paese vicino a Milano e nel nostro ambiente aveva la fama di essere un cattolico fervente. Ma era soprattutto un membro del Comitato di redazione, quello ritenuto il più moderato. L’Alfonso si rivolse a Ottone e gli disse, parlando al plurale: «Direttore, siamo contenti che tu abbia assunto Pansa. Sappiamo che si tratta di un bravo inviato. Ma lui deve essere l’ultimo che arriva da noi. Da questo momento non vogliamo più vedere nuovi assunti!». Ottone non fece una piega, ma io rimasi di sasso. Un cronista, sia pure corazzato dal potere del mitico Cdr del Corriere, si permetteva di dare un ordine al direttore? Ai miei occhi era una novità che mandava in frantumi tutto quanto avevo imparato sull’autorità e le gerarchie nei giornali.
Mario Missiroli: ho un pazzo in redazione al Corsera. È Montanelli. Indro Montanelli era sempre stato un bastian contrario. Se qualcuno gli consigliava di dire di sì, lui diceva no. Se i giornalisti suoi parigrado scrivevano che il sole sorgeva al mattino, lui raccontava che sorgeva di notte. Anche i direttori più forti si vedevano costretti a lasciargli campo libero. Un giorno, Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera per nove anni, dal 1952 al 1961, sospirò: «In ogni famiglia c’è un pazzo. Anch’io ho il mio. Si chiama Indro».
Montanelli e la legge dei calci nel culo dei giovani ai vecchi. Molti anni dopo, quando Indro Montanelli si mise contro Silvio Berlusconi e diventò un eroe per la sinistra che lo aveva sempre odiato, mi capitò di essere tra quelli che lo intervistarono in una Festa dell’Unità a Modena. Subito dopo quella serata per lui trionfale, ci parlammo a quattr’occhi. E lui mi disse: «Pansa, ti ricordo al Corriere del 1973. Tu eri tra quelli che mi prendevano a calci nel culo!». Gli replicai che non era vero. Però Indro mi zittì: «Lascia perdere, era proprio così. Ma almeno tu non lo facevi per motivi di fanatismo ideologico. Obbedivi a una legge di natura che spinge i giovani a seppellire i vecchi. Avrei fatto così anch’io se fossi stato al tuo posto. E non mi sarei limitato ai calci. Avrei adoperato il coltello!».
Angelo Rizzoli, un uomo solo, senza amici, padrini e alleati. Angelo Rizzoli amava dipingersi così: «Quasi sempre mi sento solo. Non ho amici. Non ho padrini. Non ho alleati. Penso di continuo a una frase che ho letto in un libro del poeta francese Paul Valéry: un uomo solo è sempre in cattiva compagnia_».
Cefis e la volgarità nei confronti del direttore Piero Ottone. A sentire uno dei suoi assistenti per i rapporti con i media, Cefis si era espresso con crudeltà nei confronti di Piero Ottone che sin da bambino era costretto a portare una scarpa ortopedica. Il padrone della Montedison aveva detto, in dialetto friulano: «Omo segnà de Dio, zento passi indrio!», bisogna starne lontani cento passi. Questa volgarità l’appresi da uno degli stretti collaboratori di Cefis. Un manager che non aveva nessun motivo di mentire con me, poiché per la Montedison ero un signore che non contava nulla. Fu lui a rivelarmi com’era finita la discussione sul gradimento da offrire o da rifiutare.
Le dimissioni di Carnevali dal Corsera per il titolo modificato sui comunisti. La sera del 19 maggio 1975 nella redazione del Corriere della Sera era arrivata la notizia che a Lisbona, con un atto di forza, i comunisti portoghesi avevano invaso il quotidiano socialista Repubblica. Carnevali preparò un titolo impeccabile che diceva: I comunisti occupano il giornale socialista. Poi se ne andò a casa. Quella sera, quando l’edizione stava per chiudere, un gruppo di redattori comunisti cambiò il titolo con un altro che recitava: Tensione a Lisbona fra Pc e socialisti. Il giorno successivo, Carnevali protestò con Ottone, ma non ottenne giustizia. Si sentì obbligato a dimettersi. E come ricorda Michele Brambilla nel suo L’Eskimo in redazione, faticò a trovare qualcuno che gli offrisse un posto di lavoro.
Giulio De Benedetti testava con la figlia la chiarezza dei suoi corsivi. In gioventù Eugenio Scalfari aveva sposato Simonetta De Benedetti, figlia del ferreo direttore della Stampa, Giulio, il monarca al quale dovevo il mio ingresso nel giornalismo. Simonetta conosceva bene di quale pasta fossero i numeri uno della carta stampata. Da ragazza si era resa conto dello scrupolo professionale del padre. Ogni domenica, «Gidibì» pubblicava sulla Stampa un corsivo che aveva il peso di un articolo di fondo. Lo scriveva a casa di sabato mattina. E quando la figlia rientrava dal liceo la bloccava per leggerle la prima stesura del pezzo. Lo faceva perché, così mi raccontò Simonetta, la riteneva «l’esemplare perfetto dell’italiano ignorante medio». Poi chiedeva alla figlia: «Hai capito quello che ho scritto?». Per liberarsi dal fastidio, Simonetta si affrettava a garantire di aver compreso tutto. Allora il padre, implacabile, le ordinava: «Se è così, adesso ripeti quello che ti ho letto!». Quando lei non ci riusciva, Gidibì stracciava l’articolo e iniziava a riscriverlo da capo. Incavolato con se stesso, non con la figlia.
Pajetta: dopo Il Corsera e La Stampa arriva Repubblica a rompere i coglioni. Nel maggio 1976, quando andai a intervistare Pajetta sulla politica estera del Pci e i suoi rapporti con l’Unione Sovietica, lui mi domandò che cosa pensassi del giornale di Scalfari. Poi senza aspettare una risposta che, per la verità, non gli importava conoscere, Giancarlo sbottò: «Prima avevamo alle costole voi del Corriere e quelli della Stampa. Adesso a romperci i coglioni è arrivata anche Repubblica. E sono convinto che sarà Scalfari il vero cane rognoso pronto a morderci i polpacci tutti i giorni!».
Il Corsera e le foto non pubblicate degli autonomi armati in via De Amicis a Milano. Eppure la fine di Antonino Custrà, brigadiere di 25 anni, è stata fissata in una foto famosa. È quella del guerrigliero urbano che in una strada del centro di Milano, via De Amicis, punta la rivoltella su un bersaglio. Era il 14 maggio, giorno del corteo di protesta per l’uccisione della Masi. Un gruppo di autonomi armati di molotov e di pistole cominciò a sparare sulla polizia, gettando nel panico i passanti. Custrà fu assassinato in quel momento, nella capitale morale di un paese che non era più libero di vivere in pace. Uno dei pistoleri venne fotografato mentre puntava la rivoltella sui poliziotti. Il fotoreporter offrì quella e altre immagini al Corriere della Sera. Ma il capo della cronaca, Salvatore Conoscente, le rifiutò, sostenendo che non avevano nessun interesse. Quelle immagini vennero pubblicate dal Corriere d’Informazione, il gemello serale del Corriere. Quando Ottone scoprì che cosa era accaduto, rimosse all’istante il capocronista e lo sostituì con un altro collega.
Di Bella, i ritratti dei grandi e gli accordi sindacali interni del Corriere della Sera. Di Bella aveva già collocato alle pareti dello studio i ritratti dei grandi che stavano nella storia del Corriere. Erano Luigi Albertini, Alfio Russo, Michele Mottola, Orio Vergani, Dino Buzzati e Mario Missiroli. Nel suo libro di memorie, Corriere segreto, pubblicato da Rizzoli nel 1982, raccontò gli ostacoli affrontati per compiere quella semplice operazione. Chiese al fattorino di turno un martello e qualche chiodo. Ma il fattorino gli rispose: «Non è mio compito appendere quadri». Allora Franco gli disse: «Li porti a me che ci penso io». Replica: «Non si può, ci sono gli addetti. Ma prima deve compilare l’apposito modulo». Finalmente gli addetti arrivarono. Erano in tre. Il primo era armato di martello e chiodi. Il secondo maneggiava un metro snodabile. Il terzo dirigeva i lavori. Costui gli spiegò: «Caro dottore, sono gli accordi sindacali interni».
Repubblica e i proclami scherzosi dopo il bollettino sugli andamenti delle diffusioni. A partire dalla metà del 1978, quando iniziò il boom di Repubblica grazie al lungo sequestro di Aldo Moro, Scalfari leggeva ai redattori il bollettino della diffusione. «Abbiamo superato Il Messaggero, vendiamo più della Stampa, siamo a un’incollatura dal Corriere_». Da un certo momento in poi s’inventò un proclama scherzoso, ma non tanto: «Quando avremo battuto il Corrierone tutti voi avrete diritto allo stupro e al saccheggio!».
Il sarcasmo di Riccardo Lombardi sul cervello da gallina di Sandro Pertini. «Cuore di leone, cervello di gallina». Quando chiesi a Riccardo Lombardi un parere su Sandro Pertini, lui mi rispose con quelle quattro parole. Lombardi era il gran capo della sinistra socialista e aveva fama di uomo schietto e incline al sarcasmo.
Salvato dai terroristi grazie a Scalfari. E a un’epidemia di influenza. Fu in quelle pagine della confessione di Barbone che compresi sino in fondo come la vita di ciascuno di noi può essere appesa a una bava di vento. I killer avevano cominciato a fare la posta a Nozza, colpevole di aver scritto articoli contro i violenti di Autonomia operaia a Padova. Ma in quei giorni, Marco non si muoveva da Torino, stava seguendo il processo di Prima linea. E così la banda era passata al numero due dell’elenco: il Pansa autore di un libraccio sul terrorismo. Barbone e compagni misero sotto esame la mia abitazione di Milano. Si resero conto che, per due mattine di seguito, ero uscito sempre alla stessa ora, a spasso con il cane. La terza mattina vennero per farmi la pelle, però non mi trovarono più. E pensarono che mi fossi accorto dell’appostamento. Ma non era così. Mi ero fermato a Milano per un’influenza fastidiosa. La sera del secondo giorno, mi telefonò Scalfari: «Anche Rocca ha la febbre. E me la sto beccando anch’io. Vieni subito a Roma, altrimenti domani non ci sarà nessuno della direzione a guidare il giornale». Corsi a Linate e presi l’ultimo aereo per Fiumicino. Senza rendermi conto che Eugenio mi aveva salvato la vita. A quel punto la banda di Barbone decise di uccidere Tobagi.
L’incontro casuale a Milano con Silvio Berlusconi in visita a Fanfani. Era il dicembre 1977, a Milano quella sera nevicava fitto e io stavo davanti alla sacrestia di Santa Maria delle Grazie. Aspettavo di poter intervistare Fanfani, prima che tenesse un discorso per commemorare Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze.
Ma a sbarrarmi il passo c’era Giampaolo Cresci. Rifiutava di farmi parlare con il Mezzotoscano, adducendo il pretesto che il suo principale doveva incontrare un «signore importante». Mi era stato chiesto un pezzo ampio e ringhiai a Cresci: «Lasciami passare, altrimenti finirà che ti picchio!». Ma lui mi sfotteva: «Adoro essere malmenato da un maschione come te». In quel momento davanti alle Grazie si fermò una berlina nera. Ne scese un signore piccolino, azzimato, con un cappotto scuro dal taglio perfetto e il bavero di velluto. Era Berlusconi, venuto a incontrare Fanfani. Cresci fu costretto a presentarmi: «Questo è Giampaolo Pansa, inviato di Repubblica. Aspetta di parlare con il Professore. Ma il senatore incontrerà prima lei!». Il Cavaliere mi squadrò dal basso in alto, con uno sguardo per niente amichevole. Poi sbottò: «Ah, lei è Pansa. Ho letto il suo libro sui giornali e i giornalisti, Comprati e venduti, uscito una settimana fa. A pagina 311 lei ha commesso un errore. Mi definisce un neopalazzinaro miliardario. Il suo disprezzo per me è evidente, ma ingiustificato. Noi siamo costruttori di città a misura d’uomo, immerse nel verde. Corregga, Pansa, corregga!». E sparì di corsa all’interno delle Grazie.
Berlusconi mostra le gnocche a Berlinguer in visita agli studi di Canale 5. Mi è rimasta nella memoria la visita del segretario comunista Enrico Berlinguer agli studi di Canale 5. Berlinguer aveva un’espressione malinconica, mentre Berlusconi sprizzava felicità nell’illustrare le meraviglie elettroniche della sua tv. A un certo punto il Cavaliere strillò: «Onorevole, adesso diamo un’occhiata a un po’ di ragazze!». E mostrò al capo del Pci le scenografie approntate per una commedia musicale, My fair lady. Nei televisori apparve una sfilata di ballerine mezze nude. Silvio esultava: «Ha visto che gnocche, segretario! Le ragazze svestite fanno sempre alzare l’audience di un programma e non soltanto quello!». Berlinguer non aprì bocca. Ma la sua faccia parlava per lui e diventò sempre più grigia.
1 continua - la seconda parte sarà pubblicata su ItaliaOggi di domani