Jennifer S. Holland, National Geographic 30/1/2013, 30 gennaio 2013
UN MORSO CHE CURA
Michael decise di fare una nuotata: era in Messico, a Guerrero, per una vacanza con la famiglia, e si moriva di caldo. Prese il costume da bagno steso ad asciugare su una sedia, lo infilò e si tuffò in piscina. Ma anziché provare sollievo si sentì trafiggere da un dolore cocente dietro una coscia. Si strappò di dosso i calzoncini e uscì nudo dalla piscina, con la gamba in fiamme.
Dietro di lui, un orrido animaletto giallo galleggiava sul pelo dell’acqua. Michael lo pescò, lo chiuse in un contenitore di plastica e con il custode della casa andò di corsa alla Croce Rossa, dove i medici identificarono subito l’aggressore: era uno scorpione, un Centruroides scuipturatus, una delle specie più velenose dell’America del Nord. Dopo il dolore lancinante di una sua puntura tutto il corpo è attraversato da scosse simili a quelle elettriche. A volte la vittima muore.
Per fortuna di Michael (che mi ha chiesto di non divulgare il suo cognome), lo scorpione è diffuso nella zona e il siero antiveleno era facilmente reperibile. Un’iniezione, e qualche ora dopo Michael fu dimesso. Nel giro di una trentina di ore il dolore scomparve. Poi successe qualcosa di imprevedibile. Da otto anni Michael soffriva di spondilite anchilosante, una malattia cronica e autoimmune che somiglia all’artrite spinale. Non se ne conoscono le cause; nei casi peggiori la colonna vertebrale può fondersi e il paziente resta curvo e in preda a un dolore continuo. «Di mattina la schiena mi faceva sempre male e nelle fasi acute non riuscivo neppure a camminare», dice. Qualche giorno dopo la puntura dello scorpione, però, il dolore era sparito. E oggi, a due anni di distanza, Michael non soffre più e ha smesso di prendere quasi tutti i farmaci. Essendo anche lui un medico, non vuole ingigantire il ruolo svolto in questa remissione dal veleno dell’animale. In ogni caso, dice, «se il dolore tornasse mi farei pungere di nuovo».
Il veleno, quel liquido che gocciola da denti e pungiglioni di animali appostati su un sentiero o nascosti in cantina o sotto una catasta di legna, è il killer più efficiente che esista in natura. Nato e affinatosi per bloccare un corpo vivente, è un brodo complesso che pullula di proteine tossiche e di peptidi, brevi catene di amminoacidi simili alle proteine. Le molecole possono avere obiettivi ed effetti diversi, ma collaborano sinergicamente per colpire più a fondo: alcune aggrediscono il sistema nervoso e paralizzano, bloccando la comunicazione fra nervi e muscoli; altre attaccano molecole causando il cedimento di cellule e tessuti. Un veleno può uccidere coagulando il sangue e provocando un arresto cardiaco, oppure impedendo la coagulazione e scatenando un’emorragia fatale. Tutti i veleni animali hanno proprietà e capacità molteplici. Con un solo morso si possono inoculare decine se non centinaia di tossine; alcune hanno effetti simili, altre hanno un effetto unico. Nella corsa agli armamenti ingaggiata da prede e predatori nel corso dell’evoluzione, armi e difese vengono costantemente affinate; da ciò possono scaturire miscele potentissime. Immaginate di dare un veleno a un avversario, poi di prenderlo a coltellate e di finirlo sparandogli alla testa. Il veleno animale agisce cosi.
Per ironia della sorte, le proprietà che rendono letale un veleno sono anche quelle che lo rendono prezioso in medicina. Molte tossine animali attaccano le stesse molecole da tenere sotto controllo per curare una malattia. Il veleno è rapido e assai specifico; i suoi componenti attivi (peptidi e proteine che agiscono in forma di tossine ed enzimi) prendono di mira particolari molecole, inserendosi al loro interno come una chiave nella serratura. La maggior parte dei armaci funziona in modo analogo, inserendosi in queste serrature molecolari per inibire gli effetti negativi. Scoprire la tossina che colpisce solo un certo bersaglio è una sfida, ma esistono già importanti farmaci per cardiopatie e diabete derivati da veleno animale.
Entro un decennio potrebbero essere disponibili terapie nuove per curare le malattie autoimmuni, il cancro e il dolore. «Non parliamo solo di qualche farmaco nuovo, ma di intere classi di farmaci», dice Zoltan Takacs, tossicologo, erpetologo ed emerging explorer della National Geographic Society. Finora sono meno di mille le tossine animali analizzate per un possibile uso medico, e sul mercato è arrivata non più di una decina di farmaci importanti. «Ma le tossine da esaminare potrebbero essere più di 20 milioni», dice Takacs. «È strepitoso. Il veleno animale ha aperto tutta una serie di strade nuove per la farmacologia».
Grazie alle tossine del veleno animale cominciamo anche ad avere un quadro più chiaro del meccanismo con cui agiscono le proteine che controllano molte cruciali funzioni cellulari in un corpo vivente. Da alcuni studi riguardanti la letale tetrodotossina (TTX) del pesce palla, ad esempio, sono emersi dati complessi sulle modalità di comunicazione delle cellule nervose.
«La nostra ricerca di nuovi preparati nasce dalla volontà di ridurre la sofferenza umana», dice Angel Yanagihara, dell’Università delle Hawaii. «Ma nel corso della ricerca si possono fare scoperte inattese». Mossa anche da un desiderio di rivalsa su una cubomedusa che l’aveva punta 15 anni prima, Yanagihara ha scoperto nei tubuli che rilasciano il veleno dell’animale un agente potenzialmente utile alla guarigione delle ferite. «Non aveva nulla a che fare con il veleno», spiega. «Ma approfondendo la conoscenza di un animale nocivo ho raccolto molte più informazioni di quanto mi aspettassi». Sono oltre 100 mila gli animali che evolvendosi sono arrivati a produrre veleno, insieme alle ghiandole per contenerlo e all’apparato per espellerlo: serpenti, scorpioni, ragni, qualche lucertola, le api, creature marine come il polpo, molti pesci e i conidi, una famiglia di molluschi gasteropodi. Uno dei pochi mammiferi velenosi è l’ornitorinco maschio, che porta il veleno negli speroni degli arti posteriori. Nelle diverse specie animali il veleno e i suoi componenti si sono formati spesso indipendentemente; la composizione del veleno di una specie di serpente varia sia da luogo a luogo, sia tra un adulto e la sua prole.
L’evoluzione continua a perfezionare questi veleni da oltre cento milioni di anni sulla base di un’architettura molecolare già stabile molto tempo prima. Per aiutare gli animali a predare o a difendersi, la natura adatta a nuovi scopi alcune molecole chiave di varie parti del corpo, fra cui sangue, cervello e apparato digerente. «È logico che la natura si appropri delle impalcature esistenti», dice Takacs. «Per creare una tossina che distrugga il sistema nervoso è più proficuo prendere una struttura del cervello già attiva in quel sistema e apportare qualche piccola modifica. E la tossina è fatta». Ma non tutto il veleno viene per nuocere o è mortale; per le api è un mezzo di difesa non letale, e l’ornitorinco maschio lo usa nella stagione degli amori per far vedere ai rivali chi comanda. Il più delle volte, però, serve a uccidere o quanto meno immobilizzare una preda. L’essere umano è spesso una sua vittima casuale. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità 100 mila persone muoiono ogni anno in seguito a circa cinque milioni di morsi, anche se si ritiene che la cifra effettiva sia ben più alta.
TAKACS, 44 ANNI, ungherese di nascita, ha lasciato di recente l’Università di Chicago per avviare la World Toxin Bank. Quando non è in laboratorio lo si può trovare nel Sud Sudan alle prese con qualche vipera soffiante, o in Vietnam a prelevare tessuti di bungaro comune, o nel Congo a cavare veleno da una vipera del Gabon. Il suo obiettivo è la raccolta di mappe genetiche destinate alla creazione di "tossinoteche" in cui custodire le tossine del veleno di tutti gli animali terrestri. La sua ricerca lo porta anche in mare. Da lontano Mabuaiau, un’isoletta corallina piena di alberi situata circa 13 chilometri a est di Viti Levu, la più grande delle Figi, sembra un paradiso tropicale. Da vicino, alberi e cielo sono intasati da migliala di sule piedirossi, fregate e gabbiani che con i loro rifiuti trasformano le acque basse in una zuppa bianca e fetida; il tanfo mi arriva fino in gola. Non abbiamo neanche ormeggiato la nostra barchetta che Takacs salta giù e camminando nell’acqua raggiunge la riva.
Qui prospera il serpente di mare Laticauda colubrina, un rettile zebrato dalle squame lisce color azzurro argento che striscia sinuoso sui fondali di sabbia. Essendo un serpente sia marino che terricolo, ha bisogno dell’aria per respirare; sale sui banchi di corallo e di calcare dell’isola o si attorciglia sotto conchiglie e fogliame per digerire o per mutare pelle. Laticauda si ciba quasi solo di anguilliformi e il suo veleno neurotossico si è evoluto di conseguenza. Le sue prede sono grandi e forti, hanno denti aguzzi ed è difficile farle uscire dalla tana. «Per potersi sfamare senza correre grandi rischi», osserva Takacs, «questo serpente ha bisogno di un veleno rapido e potente che colpisca gli organi vitali». Fra il suo veleno e le difese delle sue prede è in atto da tempo immemorabile una gara evolutiva a chi è il più forte, aggiunge. La barriera corallina ospita anche anemoni velenosi, polpi dagli anelli blu e una miriade di pesci molto poco conosciuti che espellono tossine. E i molluschi del genere Conus. Questi molluschi, belli come monili, si suddividono in oltre 600 specie, ognuna delle quali elabora una mistura unica e maligna, in certi casi così forte da uccidere una persona con una sola puntura (per quanto grazioso possa essere, non mettetevi mai in tasca un Conus). Takacs torna da un’immersione in acque basse con due tesori: in una mano guantata stringe una Latìcauda che si contorce, nell’altra un Conus grosso come un pugno. «Il meglio che offre il mare», dice sorridendo. «Ho in mano centinaia di tossine».
Takacs, che si porta sempre dietro l’occorrente per prelevare campioni, allestisce sulla barca un laboratorio essenziale: contenitori con coperchio, provette riempite di conservanti, siringhe e aghi, forbici per raccogliere campioni di tessuto, una fotocamera per documentare disegno e colorazione di ogni animale e un grande guanto nero. In genere Laticauda è abbastanza passiva e le probabilità che morda sono quasi nulle, ma Takacs indossa comunque il guanto; essendo allergico al veleno, oltre al consueto effetto paralizzante rischia uno choc anafilattico. Ed è allergico anche all’antiveleno, ricavato dal siero di cavallo; è incredibile che sia sopravvissuto a sei morsi di serpente.
Lo aiuto tenendo per la coda l’animale. Takacs lo afferra per l’estremità che morde, lo allunga per intero e gli passa un dito sul corpo cercando il cuore; quando lo sente pulsare sottopelle a circa un terzo della lunghezza infila con cautela l’ago e cava il sangue. Poi taglia un frammento di tessuto della coda e scatta qualche foto. Infine rimette il serpente in acqua e lo segue con lo sguardo mentre si allontana. Nei giorni che passiamo in mare Takacs sottopone molti serpenti a questo trattamento. E ogni volta che incrociamo un pescatore si avvicina con la barca per chiedergli se ha visto qualche serpente marino, sperando che in zona ci siano altre specie. «Se vedi quello con le strisce gialle e nere mi avverti?», chiede. Un giorno lo chiamano sul molo e lì, in un secchio, lo aspetta un serpente marino dal collo sottile.
Alle Figi, e dovunque vada in cerca di animali velenosi, Takacs arricchisce la sua velenoteca. Poi, in laboratorio, isola e identifica le variazioni nella composizione delle tossine da una specie all’altra, tra membri della stessa specie e persino della stessa popolazione. I suoi studi mirano anche a chiarire che cosa renda un animale resistente al proprio veleno: potrebbe aprire la strada a migliori farmaci derivati da veleni animali. Mi sorprende che Takacs non prelevi il veleno di Laticauda, ma lui mi spiega che le sue ricerche si basano sul DNA; il veleno può fornire informazioni importanti, dice, ma dal tessuto, «si può estrarre la mappa di tutto l’animale, che comprende la maggior parte delle sue tossine». Ogni tossina è espressa da un gene e i geni si possono copiare e manipolare. «Possiamo farne a vagonate e questo lusso ci consente di modificare a piacere e di analizzare alla svelta le tossine per vedere quale versione ha gli effetti più promettenti».
All’Università di Chicago, Takacs ha collaborato all’invenzione di un sistema, Designer Toxins, che tramite nuovi abbinamenti di tossine permette di creare varianti di un originale naturale e di confrontarne i valori terapeutici. Designer Toxins include milioni di anni di sapienza evolutiva racchiusi nei veleni, consentendo di realizzare enormi quantità di varianti (finora sono oltre un milione) e in potenza di ottimizzare la messa a punto dei farmaci. «Stiamo esplorando a fondo la biodiversità molecolare in natura», dice Takacs.
LE CURE A BASE DI VELENI ANIMALI non Sono una novità. Sono citate già in testi sanscriti del II secolo d.C, e si narra che intorno al 67 a.C. Mitridate VI re del Ponto, un nemico di Roma che si dilettava di tossicologia, sia stato salvato due volte sul campo di battaglia da sciamani che gli curarono le ferite con veleno di vipera dell’Orsini (il veleno cristallizzato di questi rettili viene oggi esportato dall’Azerbaigian per uso medico). Il veleno di cobra, impiegato da secoli nella medicina tradizionale cinese e indiana, fu introdotto in Occidente negli anni Trenta dell’Ottocento come antidolorifico omeopatico. John Henry Clarke ne descrisse la capacità di alleviare molti malanni, anche quelli causati dal veleno stesso, nel suo Materia Medica, pubblicato intorno al 1900. La scienza che trasforma in cura un veleno animale è nata negli anni Sessanta quando Hugh Alistair Reid, medico specialista inglese, ipotizzò che il veleno dell’ancistrodonte della Malesia potesse essere usato contro la trombosi venosa profonda. Reid aveva scoperto che una tossina di quella vipera, una proteina detta ancrod, impediva la coagulazione del sangue eliminando una proteina fibrosa. L’Arvin, anticoagulante derivato dal veleno dell’ancistrodonte, arrivò negli ospedali europei nel 1968; oggi è stato sostituito da altri tarmaci analoghi, sempre a base di veleno di vipera.
Negli anni Settanta il veleno di Bothrops jararaca ha favorito la nascita di una classe di farmaci detti Ace-inibitori, oggi ampiamente usati contro l’ipertensione. La ricerca era partita con l’intento di chiarire perché i contadini delle piantagioni brasiliane di banane morsi da questa vipera subissero un calo della pressione sanguigna così drastico da perdere i sensi. Una volta individuato il componente del veleno che induceva il calo, è stato necessario convincere le case farmaceutiche che una sostanza estratta dai denti di un serpente poteva salvare vite umane. E poiché non si può semplicemente fare una pasticca di veleno e darla ai pazienti, si è dovuto modificare quel componente a livello molecolare, ridimensionandolo e rielaborandolo in modo che sopravvivesse agli effetti della digestione umana. Alla fine una sua versione sintetica ha superato i test sull’uomo e nel 1975 è stato approvato l’uso del captopril, primo farmaco orale contro l’ipertensione. La classe di farmaci Ace-inibitori inaugurata dal captopril cura oggi decine di milioni di persone in tutto il mondo, con un ricavato di svariati miliardi di dollari.
I DONI MOLECOLARI degli animali velenosi fanno ben sperare nell’esito positivo della lotta contro tante malattie debilitanti. I cardiopatici devono essere grati al mamba verde orientale, micidiale serpente arboricolo africano che col suo veleno danneggia il sistema nervoso e la circolazione sanguigna della vittima. Unendo un peptide chiave di questo veleno con un peptide prelevato dalle cellule del rivestimento dei vasi sanguigni umani, i ricercatori della Mayo Clinic hanno creato infatti il cenderitide, un farmaco in via di sperimentazione che mira non solo ad abbassare la pressione sanguigna e a ridurre la fibrosi (l’eccessiva crescita di tessuto connettivo) in un cuore sofferente, ma anche a proteggere i reni dal sovraccarico di acqua e sale. «Il bello di questo farmaco è proprio la sua doppia azione», spiega John Burnett, ricercatore cardiovascolare della Mayo. Anche il mamba nero, un parente stretto del mamba verde il cui veleno può spedirti all’altro mondo in un baleno, produce una tossina cha ha un potenziale enorme per la messa a punto di un nuovo, potente analgesico.
Il mostro di Gila è un sauro che vive nei deserti del Sud-Ovest statunitense e consuma solo tre grandi pasti all’anno (immagazzinando grasso nella coda per la lunga attesa). I suoi valori glicemici, però, restano stabili. Nel 1992 John Eng, endocrinologo del Bronx/James J. Peters VA Medicai Center di New York, ha identificato nel suo veleno un componente che regola la glicemia e in più riduce l’appetito. L’exenatide, farmaco derivato dal veleno contenuto nella saliva del rettile, agisce come un ormone naturale, stimolando le cellule a ridurre il sovraccarico di zuccheri ma restando inattivo se i livelli sono normali; inoltre aiuta i diabetici ad autoprodurre insulina e a perdere peso. Visto che solo negli Stati Uniti i malati di diabete di tipo 2 sono circa 25 milioni, il mostro di Gila è un vero e proprio supereroe della medicina.
Benché rari, anche i mammiferi velenosi sono della partita. Il farmaco che si usa attualmente per le vittime di ictus ischemico funziona solo se somministrato entro tre ore, ma è in fase di sperimentazione un farmaco derivato da una tossina anticoagulante della saliva del vampiro comune che allungherebbe il tempo a nove ore. Sulla via che dal veleno porta alla medicina si incontrano anche alcuni artropodi: basti pensare alla disavventura di Michael con lo scorpione messicano. Takacs, in quella che sarà forse la sua prima importante applicazione del Designer Toxins, sta studiando una nuova tossina ottenuta unendo i veleni di tre specie diverse di scorpione che blocca in maniera selettiva i linfociti T coinvolti in molte malattie autoimmuni. In questa stessa direzione si stanno muovendo anche varie case farmaceutiche.
Frattanto si è scoperto che una neurotossina presente nel veleno del gigantesco scorpione giallo si attacca alla superficie delle cellule tumorali del cervello. La causa predominante delle recidive tumorali è che i chirurghi non riescono a distinguere con certezza le cellule buone da quelle cattive ai margini delle escrescenze. La risonanza magnetica, il miglior strumento diagnostico oggi a disposizione, non rileva masse con meno di un miliardo di cellule. Ciò significa che il chirurgo è costretto a individuare il confine fra tessuto sano e tumore «solo da indizi visivi e strutturali», dice James Olson del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle. «È una scienza molto inesatta. Le cellule del glioma si insinuano nei tessuti normali, e a volte qualcuna sfugge alla rimozione».
I medici che curano il glioma, la forma più comune di tumore cerebrale, hanno creato una "torcia molecolare" marcando la clorotossina con un colorante nel vicino infrarosso. Nel primo test in assoluto, la "tintura tumorale", come Olson ha ribattezzato questo marker derivato dallo scorpione, «ha illuminato benissimo il cancro e noi abbiamo letteralmente fatto salti di gioia, perché abbiamo capito che ha un potenziale incredibile». Il colorante rivela anche masse di sole 200 cellule tumorali. «Si riesce davvero a vedere il tumore quasi cellula per cellula», dice Olson. «Ciò consentirà al chirurgo di rimuoverne una parte più grande, o magari di rimuoverlo tutto». I test della tossina colorata sull’uomo inizieranno quest’anno e se l’esito sarà positivo il colorante potrà essere usato per il glioma e per i tumori di prostata, colon-retto, polmoni, seno, pancreas e pelle, con ottime probabilità di salvare o allungare la vita a milioni di persone ogni anno. I farmaci derivati da tossine di scorpione non sono stati ancora approvati, ma queste tossine rappresentano un arsenale farmacologico versatile: ce n’è una che potrebbe diventare un antitumorale, altre la base di cardiofarmaci, analgesici, antiepilettici e antimalarici, e persino un possibile pesticida.
IL CONUS NON HA l’aria minacciosa dello scorpione ma, come insegna l’esperienza di Takacs alle Figi, nella bella si nasconde una bestia. Questa lumaca marina non ha fauci ne artigli. «Per catturare la preda ha solo un laccio molto precario», dice Baldomero Olivera, esperto dell’Università dello Utah. «Perciò compensa con 50 e più componenti velenosi che agiscono a diversi livelli». Conus purpurascens, tra i preferiti di Olivera, si nutre di pesci e usa una proboscide estensibile carica di veleno con cui in sostanza paralizza la preda all’istante. Questo da il tempo a molte tossine contenute nel suo veleno di diffondersi e annientare l’attività muscolare. Essere punto da un Conus, dice Olivera, «è come essere morso da un cobra e mangiare fugu contemporaneamente», (la TTX del fugu, cioè del pesce palla, è oltre mille volte più pericolosa del cianuro per l’uomo).
Questa lumaca, dice lo studioso, «è come una piccola casa farmaceutica che ha strutturato il suo composto in base alle sue esigenze». Le conotossine del veleno bloccano i processi delle cellule nervose, e si sono rivelate efficaci anche per mascherare il dolore nei malati terminali di cancro. Le conantochine, un tipo di peptidi di questo veleno che hanno bersagli molecolari eccezionalmente precisi, vengono testate con risultati incoraggianti come antiepilettici. E sia le conotossine che le conantochine potrebbero difendere l’organismo dal morbo di Parkinson e dall’Alzheimer, dalla depressione e dalla dipendenza da nicotina. Finora sono stati sperimentati sull’uomo cinque composti nestratti dai Conus, che hanno portato alla realizzazione dello ziconotide, un analgesico simile alla morfina, chimicamente identico al componente prodotto dalla lumaca.
Anche l’anemone di mare è provvisto di tentacoli velenosi con cui stordisce la preda, spesso un gambero o un pesciolino, e poi la ingurgita. Ma le sue cellule urticanti, i nematocisti, espellono un veleno contenente peptidi utili al trattamento delle malattie autoimmuni dell’uomo. Negli anni Novanta un’équipe diretta dal fisiologo George Chandy dell’Università della California a Irvine ha scoperto che uno di questi peptidi inibisce l’attività di una proteina che favorisce l’infiammazione. I ricercatori lo hanno riconfigurato realizzando un nuovo peptide, ShK-186, che la Kineta, azienda biotecnologica di Seattle, sta sviluppando per la cura di malattie autoimmuni. La ricerca sembra promettere bene, dice Shawn ladonato, responsabile scientifico dell’azienda, perché il ritrovato si lega specificamente alle cellule malate. «Mentre altri farmaci danno problemi per i molti effetti collaterali e perché rendono il paziente vulnerabile a infezioni e tumori, il nostro agisce in maniera specifica contro le cellule che attivano le patologie».
L’anemone di mare sembra molto promettente per la cura di malattie come la sclerosi multipla, l’artrite reumatoide, la psoriasi e il lupus. «Consentirà ai pazienti di fare una vita più normale», dice ladonato. «Ma i tempi sono lunghi, anche quando si lavora a una scoperta rivoluzionaria. Occorre esplorare tante altre strade per verificare che non ci siano effetti indesiderati. Prima di ottenere il risultato giusto c’è ancora molto da fare».
I PROGRESSI IN CAMPI come la biologia molecolare offrono alla scienza sistemi sempre più perfezionati per capire i veleni e i loro bersagli. Se in passato le case farmaceutiche si affidavano alla sorte e analizzavano migliaia di composti per ottenere un certo effetto, oggi tecnologie sempre più mirate, come quelle di Designer Toxins, agevolano l’individuazione di chiavi terapeutiche adatte per specifiche serrature molecolari. Ciò significa che presto probabilmente avremo uno spray antiemorragico derivato dal veleno di serpente bruno orientale che salverà la vita alle vittime degli incidenti, e che in futuro lo scompenso cardiaco sarà curato con un peptide estratto dal mamba.
Il veleno, come Zoltan Takacs non si stanca mai di ripetere, ha un potenziale terapeutico «pazzesco». Ma oggi rischiamo di perdere le fonti di questo potenziale prima ancora di essere riusciti a identificarne le doti farmacologiche. Nell’adattarsi a riempire nicchie diverse in tutto il mondo, i serpenti hanno sviluppato una serie sbalorditiva di composti tossici; come tanti altri animali, però, i serpenti sono sempre di meno. La crisi colpisce anche gli oceani e i mutamenti in atto potrebbero far scomparire tanti promettenti produttori di veleno, dal Conus ai polpi.
«Nella salvaguardia della biodiversità a livello mondiale», dice Takacs, «dovremmo valorizzare di più la biodiversità molecolare». Le molecole delle misture più letali in natura diventerebbero così una priorità della politica ambientale. E anche questo sarebbe un salvavita.