Elvira Serra, Corriere della Sera 07/02/2013, 7 febbraio 2013
«TI PRESENTO IL MIO...». LA PAROLA CHE MANCA ALLE COPPIE NON SPOSATE
Come bisognerebbe chiamare la persona con cui si dorme tutte le notti? «Mamma», risponde qualcuno che si firma Edipo nel forum di The Chronicle of Higher Education, il settimanale dei college americani. Al di là della battuta, la domanda esprime una mancanza. Che neppure un vocabolario ricco come quello italiano ha finora colmato. Perché se c’è un termine preciso per qualificare chi è sposato — marito e moglie — con l’età diventa più goffo presentare in modo appropriato chi ci sta accanto. Il «mio compagno» fa pensare immediatamente a Berlinguer, il partner fa tanto contratto prematrimoniale, ragazzo e fidanzato suonano ridicoli per cavalieri ormai senza chioma e con prole al seguito. E se l’è i’ mi ganzo può star bene a ogni stagione purché si viva in Toscana, non è così scontato trovare il termine giusto nel resto della penisola.
«Le parole di una volta non corrispondono più alla vita sociale di oggi. I codici linguistici sono in fase di riassestamento perché si sta ridefinendo la società», spiega subito il critico Philippe Daverio, per il quale solo l’ironia ci salverà in questo momento di indeterminatezza. «Vada per il mio ragazzo, la mia cara ragazza, pure a ottant’anni. Compagno sì, ma solo detto da lei: compagna è inaccettabile, sembra che lui sia appena uscito dall’ultima sezione del Pci».
La semantica è importante. Tuttavia in certi Paesi il problema non si pone. In Spagna basta un mi pareja (letteralmente significa coppia, ma si usa anche per i singoli membri), declinato sia al maschile che al femminile, per accontentare tutti, dalla giovinezza alla decrepitudine. In Inghilterra partner o spouse risolvono la stessa questione. Ben zug o bat zug in Israele (ben-bat/ragazzo-ragazza e zug/coppia). La Francia non rischia retaggi socialisti usando compagne/compagnon, che sono diversi da camarade, appunto. E in Germania uomini e donne non sposati, omosessuali compresi, si chiamano Lebenspartner e Lebenspartnerin (partner nella vita): anche se nessuno supera la poesia di Lebensgefährte-Lebensgefährtin, cioè colui-colei che ha viaggiato con te tutta la vita.
«Io noto che chi ha superato i 40 anni vuole tagliar corto e presenta chi lo accompagna come marito o moglie. A me pare comunque che sia una conquista non tanto essere arrivati al secondo o terzo matrimonio o relazione importante pubblica, quanto non dover far rientrare più nella propria identità i legami con un’altra persona», riflette la filosofa torinese Carola Barbero. Ed è d’accordo con lei l’avvocato matrimonialista Annamaria Bernardini de Pace, testimone di molte separazioni e di altrettante nuove unioni, che preferisce un secco nome e professione: «Ecco Luigi, medico omeopata. È più importante presentare quella certa persona per il suo ruolo sociale, lasciare che venga identificato con ciò che è indipendentemente dal suo legame con me». Tra amiche, invece, vale tutto: «Il mio uomo, il mio amante, l’amore della mia vita. Benché il nome più adatto sarebbe camerata, in quanto è il compagno di camera», chiosa alla fine.
Il mio Paolo, la mia Elena. Lo scrittore Giuseppe Scaraffia risolve il problema con l’aggettivo possessivo, eliminando in tronco il sostantivo. Dice: «Evita fraintendimenti ed eventuali domande invadenti sulla qualità del legame».
Ed è ancora più stringato Piero Chiambretti, per quanto non abbia bisogno di presentazioni. «Capisco che la carta di identità sia importante in una società come la nostra. Ma non amo le etichette. Noi ce la caviamo così: lei è Federica, lui è Piero».
Elvira Serra