Fabio Pavesi; Andrea Franceschi, Il Sole 24 Ore 6/2/2013, 6 febbraio 2013
QUANTO SEAT VALEVA PIÙ DI FIAT
[due pezzi]
Passerà alla storia come il più grande flop borsistico italiano. In realtà per quegli investitori (centinaia di migliaia) che avevano comprato a piene mani il titolo Seat Pagine Gialle nel picco massimo dell’ubriacatura da new economy, ormai 12 anni fa, il dramma era compiuto da anni. Quel titolo che era arrivato a valere ben 6,86 euro il 28 febbraio del 2000 non si è mai più ripreso. Il collasso era iniziato e la lenta agonia è di fatto durata oltre un decennio.
La sbornia da new economy
Seat era arrivata a valere solo con le azioni ordinarie la bellezza di 26 miliardi di euro, quasi il doppio di una blue chip come la Fiat di allora. Follia pura si dirà. Certo un’euforia del tutto irrazionale che vide il tracollo del mito di Internet e dei suoi profitti e ricavi immaginati (allora) salire all’infinito del 100% anno su anno. Non andò così.
L’inizio della fine: il debito
Ma Seat cominciò a perire non tanto per la smania pericolosa e incontrollata dei formidabili utili dal web ma per un’operazione finanziaria condotta dalle "locuste" del private equity che si passarono di mano più volte la società degli elenchi telefonici caricandola, ogni volta, inverosimilmente di debiti.
Uno degli ultimi cambi di proprietà è avvenuto a 3 miliardi di euro cash (per il 61,5% del capitale) a metà del 2003 da parte di Investitori associati, Permira, Bc Partners e Cvc. L’anno dopo dalla società è stato prelevato un dividendo complessivo di 3,57 miliardi con il quale i fondi-azionisti hanno ridotto di fatto a soli 800 milioni l’esborso per l’acquisizione. I soci forti abbassarono così il loro costo d’acquisto, caricando nel frattempo la società di debiti. Nel 2004 i debiti netti erano la bellezza di 3,9 miliardi di euro. E, tutti insieme, valevano oltre 6 volte il margine operativo lordo. Sono gli anni in cui i tassi bassi favorivano l’accesso al debito ma, venendo ai giorni nostri, quella massa enorme di soldi a prestito è diventata un boomerang appena i tassi nel 2006 cominciarono a salire. Il resto è storia recente: o meglio da quel cambio drastico di pelle la Seat non si è mai più ripresa. Quegli oltre 3 miliardi di debiti scaricati in un colpo solo sulla società l’hanno di fatto piegata per sempre. Si pensava (erroneamente) che una società che produceva ogni anno oltre 600 milioni di margine lordo potesse sopportare quel fardello. Ma il fardello da oltre 3 miliardi si è rivelato una zavorra dato che costringeva Seat a mangiarsi ogni anno il 40% del Mol solo per gli interessi.
Le svalutazioni
Poi anche i margini hanno cominciato a precipitare, per via delle svalutazioni e degli ammortamenti. Nel 2011 il Mol era già sceso a 370 milioni (dai 600 milioni dei tempi d’oro) e le svalutazioni hanno prodotto perdite per 790 milioni. La fine era scritta, già allora.
Fabio Pavesi
RESTANO POCHE CHANCE PER I RISPARMIATORI–
La "class action" in tribunale è l’ultima spiaggia per i piccoli risparmiatori rimasti scottati dal tracollo delle azioni di Seat Pagine Gialle che vogliano rivalersi sulla società.
Sono soprattutto i tanti investitori retail che hanno creduto nella società all’inizio degli anni 2000, quando Seat era un’azienda sana che faceva utili, a finire con il cerino in mano. Quella che era una promessa della "new economy" infatti ha iniziato a scricchiolare quando ha iniziato fare i conti con la concorrenza dei colossi come Google. Ma senza avere le armi per farlo. Anche perché azzoppata dal debito "monstre", eredità della costosa acquisizione a leva ("leveraged buyout") messa in atto da Bc Parnters, a cui si sono aggiunti Cvc, Permira e Investitori associati, del 2003.
È proprio questa operazione che è finita al centro di una causa promossa dagli avvocati Ugo e Nicola Scuro dell’associazione Nuovo Mille per conto di sette piccoli risparmiatori che dall’avventura in Seat hanno perso circa un milione di euro. Lo scorso 29 gennaio c’è stata l’udienza di prima comparizione al tribunale di Roma in cui è stato chiesto il sequestro giudiziario dell’azienda. «Puntiamo a congelare gli asset per garantire un adeguato risarcimento del danno a chi, come i miei clienti, ha perso i risparmi di una vita in questo investimento. Tra loro c’è una casalinga, un professionista, un impiegato statale che hanno perso 50, 10, 150 mila euro».
Il peccato originale, come ricordato, è l’acquisizione a leva del 2003. «Il nostro obiettivo - spiega l’avvocato Scuro - è chiamare a rispondere gli acquirenti, chi ha venduto e chi ha finanziato come Royal Bank of Scotland che ci mise 3,8 miliardi di euro per il passaggio di mano della società».
Investire nell’ex monopolista è ormai uno sport da fondi speculativi. Sono questi ultimi che hanno comprato il debito Lighthouse a poche briciole per poi trattare la ristrutturazione incassando i 30 milioni di euro di "consent fee", il gettone per chi ha aderito alla proposta di riassetto. E sono sempre questi ultimi che a settembre dell’anno scorso sono diventati azionisti all’88% della società quando la conversione del debito in azioni è diventato effettiva.
Sono sempre questi ultimi poi i principali titolari degli 815 milioni di bond senior secured rimasti sul mercato. A questi la società ha negato la cedola. E così facendo ha innescato una pioggia di vendite che ha portato i bond al 27-28% del loro valore nominale.
Andrea Franceschi