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 2013  febbraio 06 Mercoledì calendario

LE MILLE LUCI DI NEW YORK

[La rivista letteraria più importante del mondo festeggia i suoi primi cinquant’anni. Cronaca di una serata con Scorsese, Soros e Daniel Craig] –
NEW YORK «Che roba è questa? L’ingresso alla finale del Super Bowl?». Una ragazza a fianco a me è allibita, in fila da un’ora sotto la neve davanti al Town Hall di Broadway sulla 43esima strada. È una fila civile, come si addice a newyorchesi istruiti e cortesi, però qua e là qualche gomitata ci scappa. Ci sono Vip a volontà, da George Soros a Martin Scorsese, lo 007 Daniel Craig con la sua compagna Rachel Weisz. Democraticamente in fila. Niente tappeti rossi, il clima è agli antipodi da ogni mondanità. No, lì dentro non c’è una finalissima sportiva e neanche Lady Gaga. La folla che si accalca per conquistare gli ultimi strapuntini dentro il grande teatro newyorchese, è venuta a celebrare un miracolo che si rinnova da 50 anni (la folla è venuta anche a divertirsi e non sarà delusa).
Il miracolo è quello della
New York Review of Books.
Una serata magica, orchestrata dal gran sacerdote della cultura newyorchese che è Robert Silver, fondatore (con Barbara Epstein, scomparsa nel 2006) e direttore di questa rivista senza eguali al mondo per autorevolezza, raffinatezza, profondità e… bisogna osare dirlo, snobismo. Già nel 1970 Tom Wolfe la definì «l’organo teorico ufficiale dei Radical Chic» (termine che lui è certo di avere coniato per primo). Chi l’avrebbe
detto, viste le sue origini piratesche. Già, perché la
Nyrb,
l’acronimo che tutti qui conoscono, come ricorda oggi Silver, «deve la sua genesi a uno sciopero, e alla paralisi di tutti i concorrenti». Nel febbraio 1963 i tipografi sindacalizzati delle grandi testate avevano incrociato le braccia. In uno dei conflitti più drammatici della storia della stampa americana, la Grande Mela rimase senza
New York Times
per quasi tre mesi. La nascente rivista dei libri ne approfittò (crumira e parassita!) per catturare tutta la pubblicità delle case editrici, che non potevano metterla altrove. Primo numero: tutto esaurito, centomila copie. Da allora non è mai scesa sotto le 130.000 copie. A cadenza quindicinale, e per un totale di 16.000 articoli. Molti dei quali sono
lunghi come delle novelle. La battuta che nessuno osa ripetere nella serata della grande messa celebrativa: per l’élite newyorchese sempre occupatissima, indaffaratissima, stressata dai ritmi del lavoro, ma determinata a rimanere sempre al corrente, «il bello della
Nyrbè
che quando hai letto la recensione non devi più leggere il libro». Le recensioni sono a loro volta dei saggi, meravigliosi pezzi di bravura. Quasi sempre originali, capaci di sorprendere, non manieristici. A riprova basta riprendere in mano quel primo numero. Sulla prima pagina, la prima recensione di una lunghissima serie è… una stroncatura. Inflitta alla raccolta di saggi di un grande maestro della cultura afroamericana, James Baldwin. Da quel momento il segno è chiaro, la
Nyrbnon
farà mai sconti a nessuno.
Ad accorgersi fin dall’esordio che la
Nyrb
è un grande evento sulla scena culturale degli Stati Uniti, è la testata quasi-rivale
The New Yorker.
Nel 1963 saluta la quasiconcorrente con grande fair play e un tono profetico, che sembra preannunciare a perfezione la storia di questo mezzo secolo: «La lista dei suoi collaboratori rappresenta una stupefacente esibizione della potenza di fuoco intellettuale pronta ad essere dispiegata negli Stati Uniti. È il Gran Gala della élite critica. È il sorgere di una sensibilità particolare, quella dell’intellettuale progressista, impegnato, che s’interessa di diritti civili e femminismo così come di letteratura e teatro» (col passare degli anni bisognerà aggiungere, sempre di più: la
scienza, l’economia, il cinema e gli altri linguaggi della comunicazione di massa). La
Review of Books
non verrà mai meno a uno standard così elevato. Avrà un ruolo di punta nelle grandi crisi della coscienza nazionale americana: Vietnam, Watergate, 11 settembre, Iraq, Afghanistan.
Con grande apertura cosmopo-lita, ospita saggi dei maggiori intellettuali europei, asiatici, latinoamericani. Anche lì la cifra distintiva è presente fin dal primo numero del ’63 con un articolo dell’intellettuale antifascista Nicola Chiaromonte che recensisce
Chi ha paura di Virginia Woolf?.
Resterà un luogo di rigore critico, di approfondimento. Senza concessioni al ritmo “sincopato” dei media online. E certo che ora puoi
leggere la
Review
anche online, ma devi avere tempo a disposizione, concentrazione, altro che i 140 caratteri di Twitter. Questi articoli stanno alle recensioni normali come
Anna Karenina
sta a uno spot televisivo. La lista dei collaboratori regolari che si sono esibiti sulle sue colonne in mezzo secolo è impossibile da riassumere senza fare oscene dimenticanze, tra gli altri figurano Saul Bellow, Isaiah Berlin, Chomsky, Kenneth Galbraith, Hitchens, Mary McCarthy, Norman Mailer, Nabokov, V. S. Naipaul, Amartya Sen, Susan Sontag, Tutu, Updike, Gore Vidal.
Per la serata dei suoi cinquant’anni appare sulla scena del teatro Town Hall una delle figure storiche, un’esilissima e fragile Joan Didion. Rilegge alcune pagine
del suo reportage sullo “stupro di Central Park”, l’orrendo crimine che nel 1989 gettò nel panico Manhattan. Anche in quel caso la
Review
ebbe tanto coraggio. Mise in discussione la versione della polizia, che in cerca di un capro espiatorio aveva subito arrestato cinque adolescenti di colore (tutti innocenti, lo si scoprì solo dopo che scontarono anni di carcere). La Didion prese di petto anche un dogma politically correct, sconcertando tante femministe: la regola dell’anonimato per proteggere la vittima dello stupro. «Se una donna non ha alcuna colpa per essere stata violentata, perché deve vergognarsi? Perché l’anonimato non vale nel caso sia stata “solo” massacrata?». È un esempio in una lunga tradizione di giornalismo d’inchiesta: la
Reviewè
anche fucina di reportage investigativi. Nella serata d’onore parla uno dei migliori esponenti di questo filone, il reporter Mark Danner autore di importanti denunce sulla tortura ad Abu Ghraib. Fa un intervento senza concessioni, su Barack Obama. Ricorda l’innamoramento quasi fisico, ad alto contenuto erotico, del popolo di sinistra verso questo leader. Rievoca i suoi tradimenti: da Guantanamo ai droni. Gli dà atto di riforme importanti, cominciando dalla sanità, che possono segnare «l’inizio della fine per l’onda lunga della rivoluzione conservatrice in America».
La grande studiosa inglese dell’antichità greco-romana Mary Beard è anche lei sul palcoscenico, con una verve elettrizzante. Canta le lodi di un pezzo apparso proprio nell’ultimo numero della rivista, sull’eterna influenza del pensiero classico nella politica contemporanea.
Darry Pinckney, romanziere nero e militante della causa gay, evoca il suo debutto per la rivista con un’ironica autocritica che sconfina in un masochistico orrore: ricorda quando anche lui “stroncò” il grande Baldwin e poi cercò disperatamente di catturarne l’attenzione ad un party. «Come disse Mary McCarthy, un buon modo per cercare di diventare scrittore, è cominciare con lo scrivere recensioni ».
Chiude la serata il romanziere Michael Chabon (
Il sindacato dei poliziotti yiddish)
che scatena le risate della platea raccontando i suoi esordi di scrittore, alle prese con uno dei primi computer, macchina infernale con cui ingaggiava lotte corpo a corpo. Una parodia di se stesso nella quale infila en passant il sogno segreto di tutta l’intellighenzia: avere la propria caricatura sulla
Review,
firmata da David Levine (il grande disegnatore scomparso nel 2007). Quel che rimane della serata, quando la folla si disperde sotto la neve, è il ricordo del primo ed unico editoriale della
Review,
dove promise di non occuparsi mai di opere “venali”, di denunciare le “frodi intellettuali”, di «sgonfiare ogni reputazione immeritata». E ci si allontana dopo la festa, confortati dall’idea che da qualche parte in questa città e nel mondo, grazie anche alla
Review
fioriscono tanti laboratori artigianali dove questi intellettuali educano, formano, combattono.