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 2013  febbraio 06 Mercoledì calendario

PROFESSIONE CHEF

MEGLIO il “classico” istituto alberghiero, le accademie private delle chef-star o i nuovi master super esclusivi? Se lo chiedono 30.000 ragazzi all’anno, quelli che sognano di emulare Carlo Cracco e Gualtiero Marchesi, non perdono una puntata di Masterchef (o sono già stati sotto i riflettori di
Sky)
e che ogni anno vanno a ingrossare le fila delle scuole professionali dove si impara come si apre un riccio di mare, si prepara un’insalata di verdure e si sorride al cliente che cerca di scegliere da una monumentale carta dei vini.
In dieci anni, tra il 2002 e il 2012, le sole scuole alberghiere statali sono passate da 223 a 348, e gli iscritti da 117.000 a 158.000. Il 21,9 per cento delle aziende del settore (ristoranti, ma anche alberghi e agriturismi) prevede di fare almeno un’assunzione nel 2013, secondo le stime di Unioncamere. Passione, moda e realismo si incrociano, insieme alla convinzione diffusa che l’industria italiana più solida sia,
nel medio termine, proprio quella del cibo.
E le scuole vedono impennarsi le domande di iscrizione, alle quali si aggiungono i 20.000 che già hanno scelto i licei turistici. Senza contare le accademie esclusive come Alma, che a Colorno, in provincia di Perugia, sforna quelli che oggi vengono considerati i migliori talenti, sotto l’occhio vigile di Gualtiero Marchesi. Che è anche il testimonial scelto dal Miur, il ministero dell’Istruzione, che con molto ottimismo l’ha definito “Uno di noi” nella sua brochure dedicata al rilancio delle scuole tecniche e professionali.
«Un buon cuoco — spiega
Marchesi — non è solo una persona che possiede i rudimenti del mestiere, ma anche e soprattutto una persona informata, colta. Trasformare in nutrimento i prodotti della terra e del mare non implica solo il massimo rispetto per la salute di se stessi e degli altri, ma riguarda il piacere, l’identità e la scoperta». Anche la storia e la filosofia sono importanti, e se è vero che negli istituti alberghieri italiani ogni giorno si recuperano cervelli e talenti che altrimenti lascerebbero
tout court
gli studi è altrettanto vero che chi vuol fare il cuoco non può illudersi di non toccare più un libro. Non solo di cucina: «Apritevi al dialogo e pretendete il confronto», raccomanda Marchesi. Raffaele Alajmo, ad della superstellata azienda di
famiglia dove in cucina comanda il fratello Massimiliano, si spinge più in là, e aggiunge alla “ricetta” necessaria a fare un buon cuoco anche lo studio del-l’arte, del management e del team building, perché tra i fornelli lo spirito di squadra è indispensabile. Intanto, azzarda una previsione e un consiglio: «Tutti vogliono fare lo chef, o al massimo il
sommelier,
nessuno vuole lavorare in sala. È un errore, perché sotto molti aspetti il servizio è altrettanto importante. Servono due lingue, almeno a livello di base, un aspetto curato e un sorriso spontaneo. Il resto si impara».
I dati gli danno ragione: quasi 10.000 posti di lavoro soltanto nel 2012, senza contare gli stagionali, mentre un sondaggio di Coldiretti
rivela che un ragazzo su due preferisce cucina, orto e cantina al posto in banca. La nuova “università per chef” è a Creazzo, nel vicentino, in cattedra saliranno 14 stellati italiani, li hanno chiamati i “Cavalieri”, ma anche medici, filosofi e altri esperti. «È la scuola che avrei voluto fare io — dice Massimiliano Alajmo, chef delle Calandre — perché usa un approccio nuovo, trasversale, tra tecnica ed esperienza, conoscenza e contaminazione. I nostri studenti saranno molto privilegiati! ». L’augurio è che dopo essersi abbeverati alla fonte — da Massimo Bottura a Gennaro Esposito — i dieci del Master diventino gli stellati di domani. Una strada tutta in salita, ma che vale la pena tentare, come hanno fatto anche i quarantenni famosi
che — a differenza di Marchesi — non avevano alle spalle una robusta tradizione familiare. Come ha fatto Davide Scabin, chef del Combal (2 stelle Michelin tra le mura del Castello di Rivoli, che di giorno frequentava l’alberghiero e di sera lavorava nel ristorante di uno dei suoi professori. «Oggi non si può più fare lo chef o il
maitresenza
una scuola alle spalle — spiega Bob Noto, uno dei più talentuosi fotografi di cucina italiani, che tra chef e stelle Michelin passa gran parte del suo tempo — Dopo il diploma però ci sono in giro troppi ragazzi che rischiano di sentirsi già “imparati”. Invece, quello è il momento in cui ricominciare pelando le patate». Soltanto una moda o qualcosa di più serio? «Personaggi come Cracco hanno fatto molto. Ma il primo è
stato Paul Bocuse, quando negli anni Settanta ha riportato al centro la figura del cuoco: “La cuisine au cuisinier”. Prima, parlavano i padroni dei locali e la cucina era un luogo oscuro e sporco, oggi gli chef sono come le archi-star di qualche anno fa». «Il nostro lavoro è tirar fuori la passione — racconta Salvatore Perna, preside dell’alberghiero “Beccari” di Torino — Ma la riscoperta del cibo ci aiuta, eccome. Anche perché i ragazzi non decidono da soli, e quando facciamo le giornate a porte aperte vengono con le famiglie. Alle quali offriamo assaggi squisiti preparati dagli studenti che ci sono già». E il preside insiste sull’importanza di italiano, matematica, scienze. E della storia: «Insegniamo come si ricreano i piatti preferiti di Enrico IV. E, naturalmente, questo sarebbe impossibile senza un adeguato studio della storia». Il classico delle madri arrabbiate - «Se non studi ti mando all’alberghiero» insomma, rischia di essere una minaccia obsoleta. Anzi, sono proprio le madri a incoraggiare la passione dei figli regalando loro siringhe e mestoli: «Riccardo pasticciava in cucina fin da piccolo, in seconda liceo scientifico lo hanno bocciato. Non ci siamo scoraggiati e abbiamo scelto l’alberghiero, agli inizi lui non voleva, ora è in lizza per uno stage al Noma di Copenaghen», racconta Lucia Bellizzi sul suo blog. E a proposito di stage, i più famosi ristoranti del mondo (e il Noma tra questi) si sono ormai dotati di un
kitchen coordinator,
l’uomo che sceglie chi verrà messo alla prova. I segreti per superarla? Sorridere (ormai molte preparazioni avvengono sotto gli occhi dei clienti), sapersi muovere in fretta senza fare disastri (yoga e tai chi sono un buon allenamento),
avere mani forti e delicate come un pianista, senza le quali è impossibile, per esempio, aprire correttamente i frutti di mare. Ma anche conoscere le classifiche e avere un proprio guru, un modello al quale ispirarsi. E qualche corso specifico alle spalle, meglio se all’estero: per 4.500 euro, a Tokyo, si può frequentare un corso intensivo di sushi, dove Kazuki
Shimoyama, uno dei grandi maestri, insegna a creare l’intercapedine d’aria che, tra pesce e riso, esalta i sapori. Non tutti inseguono la Michelin. A Torino, a Piazza dei Mestieri, quasi 300 ragazzi studiano, tra i due e i tre anni alternando le lezioni agli stage, per diventare cuochi, camerieri, baristi. «Qualcuno — spiega Mauro Battuello — viene qui subito
dopo le medie, ma la maggior parte ha abbandonato un percorso di studi tradizionale, compreso l’alberghiero. Troppa teoria, ci raccontano, mentre in molti casi hanno mani eccellenti e un talento vero. Mostriamo loro le storie di chi ce l’ha fatta, e ci mettiamo subito al lavoro in un
ristorante reale, il nostro».